Ci si interroga spesso, si fa per dire, del ruolo del critico musicale. Sono di parte, quindi in quel generico noi ci sono dentro fino al collo. Più che altro spesso, specie quando vai a scrivere qualcosa che risulti fastidioso per una porzione di lettori, specie una fanbase particolarmente devota, c’è chi sostiene, forse a ragione, che la critica musicale sia inutile. Io avrei detto, ultima spiaggia della difesa, sia inutile oggi, ma tant’è. Il motivo? Semplice, oggi la musica è lì, alla portata di tutti, perché mai ci dovrebbe essere un coglione che ce la spiega, racconta e che ci dice se valga o meno la pena ascoltarla? Chi sa fare fa, chi non sa fare critica, chi non sa criticare insegna, una roba del genere, parole di Pavarotti, talento del canto lirico che evidentemente non brillava particolarmente per arguzia. Andando però a citare Alan Moore, uno che la sapeva e la sa comunque lunga, andatevi a rileggere quel che ha scritto negli anni, oops, ma se spostiamo il discorso sulla letteratura, il discorso si fa anche più complicato. Perché scrivere è scrivere, anche se letteratura e critica si muovono su terreni diversi, e insomma, who whatch the watchmen?, è lì che stavo goffamente provando a andare a parare. Della serie, ha senso scrivere dello scrivere di qualcuno? E lo si può fare anche se non si hanno i titoli per farlo? Nel senso, se non si è critici letterari? Io, da critico musicale, quando qualcuno mi fa notare che anche quel cantante, magari anche uno di quelli altissimi, che so?, Battiato, ha in passato detto qualcosa che va contro quello che ho detto io, in genere, faccio notare che Battiato, grandissimo artista, non era un critico musicale, fatto per altro vero. Come a dire, essere un grande artista non necessariamente fornisce gli strumenti per. E poi mi metto a fare la medesima cosa, forte del fatto di aver scritto e pubblicato, in vita, cioè nei quasi cinquantacinque anni fin qui trascorsi sul pianeta Terra, un centinaio di libri a mio nome, alcuni dei quali, i primi, di narrativa? Senza neanche essere riconosciuto come Battiato?
Mettiamoci, aggravante agli occhi di molti, il fatto che sto scrivendo, perché sì, è di questo che sto scrivendo da circa trecentosettantasette parole (circa una sega, erano proprio trecentosettantasette parole, ora sono trecentoottantanove) del libro di un collega di MOW, collega, va detto, che conosco appena, non frequento la redazione di MOW, sono esattamente come quell’orso misantropo che amo dipingere, e comunque, se mi avesse fatto cagare, visto che sono anni che sto lavorando esclusivamente con un unico brand, la mia faccia, avrei trovato una scusa per non scriverne, come quando accampo scuse per non andare a conferenze o concerti, quattro figli in questo vengono spesso utili. Sia come sia, sono qui che scrivo e scrivo per suggerirvi, con l’autorevolezza del collega che ha pubblicato tanto e che ha anche lavorato per anni in editoria, ero dentro quella collana da cui sono usciti personaggetti quali Chuck Palahniuk e Dave Eggers, poi fate voi, "Abbiamo sempre avuto una canzone nelle orecchie" di Emiliano Raffo, questo il titolo e il nome del collega che adesso veste i panni dell’autore. Un libro che mi è stato passato, sia messo agli atti, non tanto per scrivere una marchetta di un collega, quanto piuttosto per scrivere di un libro nel quale la musica, fosse un film, sarebbe in bilico per concorrere al premio tra miglior attore non protagonista e migliore attore protagonista, io propendo più per questa seconda ipotesi. Libri, anche questo sia messo agli atti, pensa te, che mi è stato passato da Gianmarco Aimi, che di MowMag è responsabile di redazione (non so esattamente quale è la dicitura corretta del suo nome, non frequento appunto la redazione), con un messaggio su Whatsapp e un Pdf arrivato a seguire su Whatsapp, messaggio cui ha fatto seguito un messaggio del medesimo Emiliano Raffo, che scherzosamente mi chiedeva di "non mazzulare troppo”, devono avere tutti una strana idea di me. Il Pdf. Ho quasi cinquantacinque anni, dicevo. Da quando ne ho compiuti quarantanove, so che sembra un dettaglio irrilevante al fine del pezzo che state leggendo, ma così non è, porto per leggere e scrivere occhiali da 1,5. Occhiali che mi sono fatto prescrivere dall’oculista, salvo poi andarli a comprare al supermercato, di quelli da quindici euro, che di buttare via soldi per occhiali buoni che poi dimenticherei in giro non vale la pena. Ecco, leggere un libro, un libro di trecento e passa pagine in Pdf è tipo dover ascoltare un doppio album di Laura Pausini, per me, con l’aggravante (non, non c’è aggravante che regga il confronto, lo so), di influire non solo sul mio umore, ma anche sulla mia medesima vista.
Quindi, ricapitolando. Sto scrivendo contravvenendo a ogni mio principio, in assenza di competenze di critiche letterarie, di un romanzo. E lo sto facendo sul magazine con cui collaboro da ormai tre anni e per il quale scrive l’autore del libro di cui sto scrivendo. Il libro me lo sono letto in Pdf. Ce ne sarebbe abbastanza per passare dalla logorrea che mi caratterizza alla bestemmia secca, come fosse un haiku, portando per altro a casa il medesimo risultato di star qui a digitare parole su una tastiera, fossi uno che legge sullo schermo quel che scrive o guarda la tastiera mentre scrive, dovrei sottolineare l’aspetto dell’avere quei puntini che da piccoli pensavo fossero gli occhi degli angeli, quelli che ti vengono quando chiudi gli occhi ma sei sveglio, nel buio, solo che sono sveglio, a occhi aperti e tutto questo è solo l’effetto del binomio anzianità-Pdf. Nessun appiglio per essere clementi, quindi. A parte il libro. Nel senso, il motivo per cui mi sottopongo a queste sofferenze terrene, e le sofferenze terrene, leggi alla voce “vita”, sono parte integrante della narrazione di questo libro, Abbiamo sempre avuto una canzone nelle orecchie, romanzo di formazione e di sfaldamento. La trama, perché questo è un romanzo con una trama, attenzione, ruota intorno alla vita di quattro amici, nel corso degli anni. Una sorta di Stand By Me di Stephen King, se i quattro amici di Stephen King ce l’avessero fatta (confesso che non ricordo un cazzo di Stand By Me, se non che raccontasse una estate di quattro amici, ma poi succede qualcosa di brutto, è King, qui pure, ma da grandi). Figurati se sto a spoilerarvi la trama, Raffo è pur sempre un collega, uno di quelli che quando fa giornalismo è impeccabile, scrive bene, il che, dal mio punto di vista potrebbe anche essere una aggravante, e che scrive assai bene anche quando scrive narrativa, con stile e con empatia. Ma come ho accennato sopra, da qualche parte, la musica è il letto del fiume dentro il quale si muove la trama, sparsa nel tempo. Un cattivo, perché c’è un cattivo, a riapparire a un certo punto. I luoghi che associamo alla provincia, perché Raffo vive in provincia e la provincia racconta alla grande, a fare da sfondo. Un romanzo di formazione, dicevo, perché l’amicizia tra i quattro parte da lontano, e di sfaldamento, perché la vita ci sfalda, e qui sfalda con un preciso motore, le canzoni a dettare il ritmo, certo, ma anche a dare colore, a fornirci gli indizi che servono, quelli che la trama non può (o l’autore non vuole) fornirci direttamente. Da qualche parte qualcuno ha detto che chi non sa scrivere in terza persona non sa scrivere. Bella cazzata. Anzi, io penso che scrivere in terza persona sia quasi una aberrazione. Raffo scrive in terza persona, ma scrive bene in terza persona, per cui un romanzo in terza persona che scorre via come gli undici minuti e rotti di Free Bird e neanche te ne accorgi vorrà pur dire qualcosa. Per la cronaca Raffo non scrive solo in terza persona, ma questo forse è uno spolier, avrei dovuto avvisarvi prima. Amici, bar, piazze, provincia, musica, specie musica del passato, stiamo parlando di una storia che parte da lontano, a questo punto dovrei forse citare Ligabue. Ma sarei uno stronzo, perché Ligabue con questa storia non c’entra. A parte certi luoghi e certe canzoni, che però qui sono altre canzoni, come sono altre storie.
La faccio breve, perché oggi sono andato in gita fuoriporta, cioè mi sono ritrovato a scrivere fuori dalla mia comfort zone, pur rimanendo in ciabatte, la mia divisa, Emiliano Raffo è un ottimo giornalista, se leggete MOW lo sapete. Emiliano Raffo è anche un ottimo narratore. Ha una storia, delle storie che finiscono dentro una storia, da raccontare. Ha uno stile suo per farlo. Ha un mondo immaginato, ma non tanto immaginario, dove far muovere i suoi personaggi. Il suo è un romanzo che ti affascina, ti trasporta dentro di sé, denso di riferimenti che se non ha venti anni riconosci, se hai venti anni dovresti imparare a riconoscere, capra. Il mondo che esce dal suo libro, mondo che se hai vissuto qualche anno sai ben riconoscere, non è molto consolatorio, nonostante Raffo ce la metta tutta per dirci altro, il suo sguardo benevolo, ma questa è la vita, baby. Resta che ora vedo i puntini bianchi, gli occhi degli angeli, come quando ero bambino e alla radio passava Una canzone senza inganni di Ivan Graziani con Goran Kuzminac e Ron. Beati voi che ve lo leggerete, perché ve lo leggerete, in formato libro, magari ascoltandovi la playlist che Raffo ha fatto (e se non l’ha fatta la faccia, mi deve almeno questo, oltre che un paio di occhi nuovi) come colonna sonora. Poi mi direte se ne valeva la pena. Spoiler: sì.