Esce il tanto atteso biopic su Bob Marley, One Love, e non si può che parlare di un paradosso che da sempre accompagna la figura dell’autore di No woman no cry, anzi di due paradossi. Quando ho scritto “tanto atteso”, infatti, non stavo cercando la facile scorciatoia di una frase fatta, di quelle che si usano quando si vuole dire qualcosa senza faticare troppo, come descrivere un luogo fascinoso come “splendida cornice”, intendevo proprio che il film in questione, regia di Reinaldo Marcus Green, Kingsley Ben-Adir nei ruoli del protagonista, Lashana Lynch in quello della sua compagna, la matriarca Rita, è atteso parecchio, e da un sacco di persone. Perché, vi lancio una sfida, trovatemi qualcuno a cui non piaccia Bob Marley. Di più, trovatemi qualcuno a cui non piaccia il reggae, specie quando le giornate si allungano, verrebbe da aggiungere, e tutto l’immaginario che il genere porta giocoforza con sé, dalla Giamaica al Rastafarianesimo, passando, e qui veniamo al punto della questione, incredibilmente presto trattandosi di un mio articolo, della legalizzazione delle droghe leggere. Parlare di Bob Marley, dei suoi dreadlocks, dei suoi abiti che esibiscono i colori tipici dell’Africa centrale, e parlare di canne è quasi diventato un obbligo di legge, come citare i Sassi se si parla di Matera, di pidocchi se si parla di scuole elementari o di pubblicità occulte se si parla di Amadeus. Che Bob Marley sia stato, e ancora sia, una di quelle rockstar assolute, che mettono d’accordo tutti, anche i non cultori della musica, tutti conoscono almeno una manciata di canzoni del suo repertorio, dalla già citata No Woman No Cry, forse la canzone più clonata della storia della musica, a One Love, passando per Get up, stand up e tante altre, tutti riconoscono il tempo in levare del reggae, complice anche quell’abortitura orrenda che da anni gente come i Boomdabash si ostinano a portare in giro con vanto, come se il Pinocchio trasformato in ciuchino non solo non provasse a nascondere questa sua nuova infausta natura, ma la esibisse fiero di esser tale. Ecco, che Bob Marley sia stato e ancora sia una delle rockstar assolute è un dato di fatto, e che abbia di conseguenza un pubblico trasversale, che comprende un po’ tutte le generazioni che la sua musica ha incrociato, fosse vivo oggi avrebbe settantanove anni, per intendersi, ma ci sono anche ragazzini giovanissimi che lo cantano, magari perché hanno sentito qualche pezzetto di sua canzone su TikTok, l’immaginario ha fatto indubbiamente il resto, così come comprende tutte le classi sociali e anche politiche.
Perché se è evidente che avere i dreadlocks, caratteristica dei cultori del rastafarianesimo, religione piuttosto anomala che venera l’umanissimo Ras Tafari, re dell’Etiopia nei primi decenni del Novecento, salì al trono nel 1930, che rispondeva al nome anagrafico di Hailè Selassiè, a detta dei suoi seguaci seconda incarnazione di Cristo, tornato al mondo per pacificarlo e riportare tutti i dispersi verso Sion, da contrapporre categoricamente al luogo della cattività, Babilonia, il filosofo Marcus Garvey massimo teologo a riguardo; ecco, se è evidente che avere i dreadlocks, oltre che caratteristica dei cultori del reggae, è col tempo divenuta cifra di punkabbestia e rockettari di varia natura, gente che naturalmente assoceremmo a un immaginario da centro sociale, da rave, da luogo di controcultura, è pur vero che il reggae, genere musicale che del rastafarianesimo è espressione artistica più nota, nata intorno alla fine degli anni Sessanta dai rudeboys in Giamaica e portata al mainstream, e alla fama mondiale proprio per mano di Bob Marley e di un manipolo di altri valenti artisti, penso a Peter Tosh o a Lee Scratch Perry, col tempo è divenuta parte della cultura popolare di mezzo mondo, si pensi alle nostre E la luna bussò di Loredana Bertè, per dire, brano reggae e italianissimo al tempo stesso. Quindi, qualcosa che teoricamente dovrebbe essere parte della poetica di artisti e quindi di un pubblico che su un ipotetico scranno parlamentare si trova a sinistra, l’idea di libertà e di inclusività che il genere porta con sé è inequivocabile, col tempo è divenuto di pubblico dominio, andando a entrare negli immaginari anche di chi vota a destra. Non potrebbe che essere così, del resto, considerando che a destra, almeno da noi, ci vota una porzione importante dei votanti, e che il reggae è comunque un genere che non solo affolla nelle sue versioni più contemporanee le playlist estive, ma che è anche stato da tempo sdoganato dai rasta stessi. Resta però la faccenda del farsi le canne, lo dico così senza girarci troppo intorno. Perché per i rasta fumare marijuana è qualcosa di più che un modo per rilassarsi o sballarsi, quanto piuttosto come qualcosa che ha poteri medici e meditativi. La ganja, come la chiamano i rasta, linguaggio col tempo mutuato anche dagli altri, si pensa sia un’erba, l’erba, cresciuta sulla tomba di Re Salomone, figura centrale nella teologia rastafariana (i dreadlock, invece, queste trecce gigantesche di capelli, sono un riferimento alla folta capigliatura di Sansone, altra figura biblica). Di qui una associazione strettissima tra reggae e marijuana, foto di Bob Marley con una canna in mano o in bocca, credo, le abbiamo viste tutti. Il paradosso cui si faceva riferimento in esergo di questo articolo è quello di chi, votando a destra, ascolta Bob Marley. Di più, di chi, votando a destra, si fa le canne. Perché il tema della legalizzazione della marijuana, e più in generale delle droghe leggere, è parte integrante della cultura rastafariana, anche le t-shirt con su scritto Legalize.It e i colori della bandiera etiopica o giamaicana, diciamolo, le abbiamo viste tutti, molti anche indossate. Lo slogan, didascalico, è il titolo della canzone di Peter Tosh che dà il titolo al suo primo album, canzone che vedeva la compartecipazione proprio di Bob Marley, quindi argomento caro ai cultori di Bob Marley, ostile invece a chi vota a destra. La battaglia contro le droghe tutte, nonché l’equiparazione tra droghe pesanti e leggere, è proprio dei politici di destra e centrodestra, non è un segreto.
Lo stesso, del resto, succede con altri artisti, penso al nostro Vasco Rossi, da sempre in prima linea su questi temi, e con un seguito altrettanto trasversale, che vede ai suoi concerti gente di ogni età e credo politico. Chiaramente, ci mancherebbe altro, per ascoltare Bob Marley, e anche per farsi le canne, non è necessaria una patente di coerenza, sul palco del Family Day erano tutti divorziati, figuriamoci se ci frega della coerenza. Resta che il reggae non è solamente una musica, ma è l’espressione di un credo, filosofico e religioso, un credo certamente divenuto particolarmente popolare e quindi staccato dalle sue origini. Non è molto coerente neanche concentrare la figura di Bob Marley intorno alla marijuana (arriviamo al secondo paradosso): Bob Marley figura fondamentale per aver portato nel rock, il reggae è ormai da anni iscritto d’ufficio nel genere, diritti civili e impegno per la lotta alla discriminazione delle popolazioni provenienti dall’Africa come delle donne, il rastafarianesimo è infatti una religione all’interno della quale la figura della donna è centrale tanto quanto l’uomo. One Love, il biopic su Bob Marley da cui questi ragionamenti sono partiti, racconta i tre anni che hanno visto Bob Marley lasciare la Giamaica, per portare in giro per il mondo il suo album Exodus, diventando uno degli artisti più popolari di sempre. Quindi dal 1976, anno nel quale lo stesso Bob ha provato a fermare gli scontri civili nella sua Giamaica, subendo per questo anche un attentato da parte di un esagitato che irruppe in casa sua, ferendolo con un colpo di pistola, al 1978 il film prova a mettere in evidenza tutte le sfumature dell’arte di Marley, non nascondendo anche i lati oscuri del suo carattere (i tradimenti alla moglie Rita, gli scazzi anche violenti con alcuni suoi collaboratori), tratteggiando una figura divenuta giustamente mitologica. In questi tempi di guerre neanche troppo lontane da noi, e di artisti, anche grandi artisti, che tacciono, guardare a una figura come la sua, così impegnata nel provare a portare avanti discorsi di pacificazione e fratellanza, potrebbe servire da esempio, se non addirittura da monito riguardo quel che un artista dovrebbe sempre fare. Ecco, ridurre un autore che ha intriso le sue canzoni di spiritualità e di pacifismo reale a uno coi dreadlocks che si faceva le canne, quello che grossolanamente ho fatto anche io qui, usando la medesima scure di chi ha davanti agli occhi solo degli stereotipi, è esercizio sterile, che ci priva di un personaggio di grande spessore. Quello sì ostile a chi, a destra, prova a disegnare un mondo dove il diverso è da discriminare e tenere comunque alla larga, una destra figlia di una ideologia nazionalista che giusto una figura meschina come il generale Vannacci de Il mondo al contrario può cantare. Le canzoni di Bob Marley, a partire proprio da quella che regala il titolo al suo biopic, sono veicolo di pace, fratellanza, femminismo, rispetto per la natura, lotta alle discriminazioni, inclusività, altro che canne, sappiatelo voi che votate Lega o Fratelli di Italia ma che non disdegnate di ascoltare il suo reggae. Concentriamoci sul messaggio, cominciamo a pensare di nuovo a un mondo ideale, la Sion nella quale Hailé Selassié voleva riportare il suo popolo, luogo più metaforico che reale, a quarantatré anni dalla morte di Bob Marley c’è ancora parecchia strada da fare, così, a occhio