Immaginate una persona capace di recitare in una rivisitazione di Zio Vanya di Anton Cechov diretta da Louis Malle, interpretare una ricca hippie viziata e cinica ne Il grande Lebowski e muoversi tra la morte, la droga e la malattia in Magnolia di Paul Thomas Anderson: questa persona esiste, e si chiama Julianne Moore. La sua carriera può essere tranquillamente definita altalenante, anche se qui il termine non ha nessuna accezione negativa. Il suo è stato un continuo avanti e indietro tra cinema indipendente e blockbuster, tra il principe del body horror David Cronenberg e il classico Steven Spielberg: un pendolo che continua a oscillare ancora oggi. Un’icona, ovviamente, non solo per il suo talento. Chissà, infatti, cosa sarebbe successo se quei capelli non fossero stati così rossi. Ma, si sa, talvolta quella divisione tra una brava attrice e un volto generazionale sta nei dettagli: il taglio degli occhi, la voce, i colori. Diventare una diva è molto più di un’azione della volontà. Julianne Moore ha fatto commedie, drammi, film grotteschi (di nuovo, il film dei fratelli Cohen non può tornare alla memoria). Ha cominciato con Robert Altman in America oggi e finito (per ora) con Todd Haynes e May December, dove è protagonista al fianco di Natalie Portman. Nel tragitto, un premio Oscar come miglior attrice per Still Alice. Questo per quanto riguarda il cinema. L’ultimo suo ruolo, infatti, è in una serie targata Sky, Mary & George, ambientata nell’Inghilterra del Seicento: siamo nell’era di Giacomo VI e I, noto per la sua longevità, ma anche per l’affaire con il primo duca di Buckingham George Villiers, autodefinitosi “il preferito del re”. Julianne interpreta la madre di quest’ultimo in una vicenda scandalosa, blasfema e oscura. La storia dell’ipocrisia di un mondo che non vuole vedere il re nudo, tantomeno se il corpo giace in mezzo a molti altri. Tutto il necessario, quindi, per dimostrare che Julianne può essere anche ombra e non solo luce.
Ha passato l’infanzia tra l’Europa (si diploma in Germania, a Francoforte) e l’America, e da giovane amava leggere: “So di essere, più di ogni altra cosa, anche più di un attrice, una lettrice”, aveva detto in un’intervista al New York Times in occasione dell’uscita del suo libro per bambini Freckleface Strawberry. Non a caso, infatti, dirà più volte che recitare per lei è come “leggere ad alta voce”. Insomma, dalla scrittura al corpo, dalle parole forti a quelle fragili. Uno spettro che varia, come le sfumature di rosso dei suoi capelli, a seconda della leggerezza o della pesantezza delle vite dei suoi personaggi. Ma, in realtà, come ogni grande attrice, non si ferma in nessuno dei due poli: ciò che conta è cogliere l’umano, ciò che contraddice la staticità, toccare gli estremi senza affezionarsi a nessuno di essi. Julianne Moore lo ha saputo fare. Lo sa ancora fare. E la sua arte rimarrà, anche quando quei capelli diventeranno meno rossi. Perché lei è come la Bibbia: sa essere scandalosa e allo stesso tempo profonda.