Come si può parlare di una tragedia in corso senza essere retorici? Come porsi di fronte alla tragedia della guerra tra Israele e Palestina, ai civili morti? Occorre raccontare storie vere, che emergano dall’esistenza di coloro che quel conflitto lo vivono realmente. È questo il tentativo di Nicoletta Bortolotti nel libro I bambini di Gaza: sulle onde della libertà (Mondadori). Due ragazzini, uno israeliano l’altro palestinese, trovano un dialogo attraverso il surf. Non si tratta di una storia del tutto conciliante. La guerra continua, le persone muoiono. Quello che il libro ci lascia è quantomeno la possibilità di una terza via. Una possibilità umana, come ci ha raccontato nell’intervista, prima ancora che politica: “Ho pensato di raccontare una storia che potesse anche avere una valenza universale, la storia di un'amicizia con il ‘diverso da noi’”. Dal libro è stato tratto il film omonimo, diretto dal regista Loris Lai, elogiato anche da papa Francesco. Inevitabile, poi, spostare il discorso sul mondo vero. Quindi il rischio reale dell’antisemitismo, “strisciante in Europa”, il dissenso nelle università e la differenza tra Benjamin Netanyahu e il popolo israeliano. Lo squilibrio di forze e di sofferenza, chiarisce Bortolotti, è chiaro: “La parola genocidio? Sì, è corretta. Inizialmente nutrivo qualche dubbio, ma sono morte troppe migliaia di persone”. Infine, l’impressione sulle musiche di Nicola Piovani e i prossimi progetti.
Nicoletta Bortolotti, sia il libro che il film raccontano una storia non propriamente a lieto fine, però lasciano una possibilità di dialogo tra quello il mondo arabo e Israele. È un'interpretazione che condivide?
Sì, io spero ancora in un possibile dialogo. È vero che nel corso della guerra del 7 ottobre si sono molto radicalizzate tante posizioni da una parte e dall'altra. Io ho raccontato una storia di amicizia. Poi il libro è uscito dieci anni fa e anche sul film ci stavamo lavorando da molto. Allora l'intento non era propriamente raccontare il conflitto arabo-israeliano, per quanto sia ovviamente il contesto della storia, ma la nascita di un'amicizia in un luogo dove essere amici è impossibile, dove non c'è nemmeno un linguaggio con cui comunicare. La prima scena del libro che mi era venuta in mente, e che poi è stata ripresa anche dal film, è quella che vede un ragazzino palestinese e uno israeliano che discutono di come i genitori gli abbiano impedito di dialogare con l’altro. Stiamo parlando quindi di adulti che impediscono il linguaggio, il dialogo, la costruzione di una lingua comune che invece è ritrovata dai bambini nelle piccole cose della quotidianità. Questo è un po' il senso di tutto il racconto, che non è direttamente politico ma offre sicuramente una visione, quella che oggi tutti definiscono la terza via. Io ho pensato di raccontare una storia che potesse anche avere una valenza universale, la storia di un'amicizia con il “diverso da noi”.
È stato complicato fare un film come “I bambini di Gaza”?
Il regista Loris Lai ha impiegato tante maestranze palestinesi e tunisine. Far uscire i giovani attori dai confini, poi, è stato molto difficile, sia per quanto riguarda la Cisgiordania che la striscia di Gaza. Spesso ci sono state delle situazioni complicate ai posti di blocco, dove Loris è stato fermato. Ovviamente anche il tema in sé non era banale.
Come si costruisce un’amicizia come quella del film?
C'è un prima dove io individuo nell'altro qualcosa di prezioso. Un durante in cui io temo l'altro, che in qualche modo mi minaccia. L'altro poi migra dentro di me, dentro i miei confini. C'è infine un dopo, il momento della condivisione e dello scambio. È un ragionamento più attinente ai valori umani. Il conflitto arabo-israeliano ha delle cause molto complesse, quindi non si può fare un ragionamento semplicistico. Ha radici religiose, economiche, politiche di cui bisogna tenere conto. Ma bisogna tenere conto anche come gli ebrei sono arrivati in Palestina, un racconto che ho narrato in Exodus, edito da Einaudi Ragazzi.
E come si svolge la narrazione di Exodus?
È la storia di un passato poco conosciuto. Dall’Europa partivano barconi come la Exodus che portavano migliaia di persone, un po' come oggi in una navigazione nel Mediterraneo. Le portavano in Palestina, la terra promessa, ma erano tutti scampati ai campi di sterminio ed erano per lo più bambini. In Europa, in America e in Australia non li voleva nessuno, anche dopo la fine della guerra. Queste navi furono bombardate anche dagli inglesi. Sicuramente è un tassello di storia che bisogna conoscere.
In questo periodo si discute della legittimità degli accordi tra università italiane e israeliane. Lei cosa ne pensa?
Le università si devono mantenere dei luoghi di dialogo, assolutamente. Tra l'altro c'è una grossa parte di popolazione in Israele che non è allineata con la politica di estrema destra di Netanyahu. A me fanno ridere anche coloro che dopo l’inizio della guerra tra Ucraina e Russia non volevano che si studiassero gli autori russi.
Nota una voglia di reprimere il dissenso? Anche in riferimento ai fatti di Pisa e Bologna.
Inizialmente c'era un fronte comune governativo pro-Israele e quindi tutte le manifestazioni pro-Palestina erano abbastanza osteggiate. Ora questo mi sembra che stia un po' cambiando, nel senso che con il protrarsi della guerra diventa più difficile. La comunità internazionale e italiana sta comprendendo la situazione. È anche fisiologico che quando c'è un conflitto così acceso il governo poi tenda alla repressione, ma questo è la storia a insegnarcelo. Penso comunque che in tutti i casi non siano mai da preferire le vie estreme, anche se è chiaro che c’è una parte occupata e sfruttata, quella palestinese. Questo non si nega assolutamente.
E invece il rischio opposto, quello di antisemitismo, è una bandiera che viene sventolata a seconda delle necessità politiche, oppure è un pericolo reale?
È un pericolo reale, lo dico da ebrea: io sono di origine ebrea e mi trovo ad avere raccontato Gaza, ma anche ad avere scritto quattro libri sulla Shoah. In Europa c’è un antisemitismo strisciante che è molto difficile da estirpare. È vero che sono due discorsi diversi e non si può mescolare la questione storica con la politica che adesso sta facendo Israele, molto aggressiva e feroce. Il fatto è che c'è un orientamento di destra che anche nei paesi occidentali potrebbe portare a derive antisemite. Comunque c'è l'idea che gli ebrei siano diventati una potenza, ma bisognerebbe un attimo studiare la storia.
Si riferisce a qualcosa in particolare?
Il sionismo è nato perché c'erano i pogrom, perché nell'Europa dell'est gli ebrei vennero massacrati per secoli. Pano piano si formò questo movimento, ingrossato poi dalla Shoah. Le migrazioni verso la Palestina cominciarono nei primi del Novecento proprio per fuggire dai massacri, mentre in seguito ci furono le migrazioni clandestine quando Hitler adottò la soluzione finale. Il protettorato britannico che allora era la Palestina, col sostegno degli arabi, diceva di non volere gli ebrei. Questa storia l’Europa non può dimenticarla.
Alcuni artisti come Ghali e Dargen D’Amico hanno usato la parola genocidio: è adeguata a descrivere la situazione?
Sì, è corretta. Inizialmente nutrivo qualche dubbio, ma sono morte troppe migliaia di persone, bambini e civili. Non si può non usare.
Adesso che il libro può essere letto anche sotto una luce diversa, che feedback ha avuto a livello personale? Perché, come dicevamo prima, gli schieramenti sono molto netti.
Ho avuto riscontri positivissimi, più che altro persone commosse sia dalla visione del film che dalla lettura del libro. Inizialmente avevamo un po' timore perché questo film era pronto nel settembre 2023, dopo dieci anni di mille ostacoli, poi c'è stato il covid, quando finalmente era pronto il 7 ottobre è scoppiata la guerra. Abbiamo pensato di bloccare tutto perché era una situazione difficilissima, anche dal punto di vista umano. Noi raccontiamo una storia che è ambientata nel 2003, che parla di un’amicizia nata dallo sport, il surf, che era molto praticato. La storia è basata su testimonianze vere, è una storia vera. Magari è una piccola goccia nel Mediterraneo in favore della pace. Sono dieci anni che porto questo libro nelle scuole di tutta Italia, è il mio libro più richiesto ed è sempre stato accolto molto bene. Temevo inizialmente che potesse essere letto in chiave pro-Palestina o in chiave pro-Israele. Invece questo devo dire che non sta accadendo. Le persone recepiscono di più il messaggio universale che c'è nel film, come del resto ha anche individuato papa Francesco nella frase con cui lo ha descritto.
Il film e il libro parlano dei bambini e delle bambine a Gaza, ma come vede le reazioni dei più giovani in Italia?
È difficile, ma questa è solo un’impressione, spingere i giovani ad andare al cinema. Ho notato che sono gli adulti che ci vanno di più, ma forse sono io che frequento un altro pubblico. Mi piacerebbe che molti giovani andassero a vederlo. Potrebbero darci un parere.
Può essere anche un discorso di mancanza di punti di riferimento?
Può essere che ci siano pochi punti di riferimento a livello ideologico, politico e in qualche modo i giovani non si sentano rappresentati. Forse è un bene, nel senso che comunque sono loro i protagonisti e hanno meno la tendenza a seguire qualcuno, il leader, come invece era ai nostri tempi.
Il fatto che uno dei punti di riferimento sia il Papa non è un fallimento della politica?
Forse sì, ma a rimetterci è la politica non il Papa, perché effettivamente è difficile trovare adesso nel mondo politico un leader forte come papa Francesco. È un leader trasversale anche per le sue grandi capacità di comunicatore. Paradossalmente le chiese si stanno svuotando, non ci sono più vocazioni, la religione stessa appare come le ideologie del Novecento, quindi appare un po' fuori moda, un po' obsoleta, lontana comunque dal mondo. In questo vuoto che si sta creando il Papa però è molto seguito, ed è un leader che è riconosciuto anche dai non religiosi.
Riprendendo un’immagine del film che racconta di come l'onda migliore per i surfisti di Gaza sia quella che viene da Occidente, cosa può arrivare per il popolo palestinese dal nostro lato del mondo?
In questo momento poco o nulla. Forse l'Europa si sta muovendo con una posizione più super partes, però sappiamo che non ha grande potere. Quindi sinceramente non lo so.
E Donald Trump la preoccupa?
Molto. Trump è veramente il paradosso che io non capisco. Trump è il mistero che agita questi anni, la scheggia impazzita.
Tornando al film: com’è stato coinvolgere un artista come Nicola Piovani?
Io non sapevo niente di questa cosa finché non me l'ha comunicata Loris Lai due mesi prima che uscisse il film. Tra l'altro noi non ci aspettavamo nemmeno che uscisse una produzione così importante perché, ripeto, è un film proprio partito dal basso. È stata una fatica immane. Nel momento in cui Loris è riuscito a coinvolgere Elda Ferri poi le cose sono cambiate. Lei ci ha creduto moltissimo, anche perché è la produttrice de La vita è bella e ha sempre avuto un percorso impegnato di cinema molto coerente. Poi la Jean Vigo Italia è riuscita a coinvolgere Piovani: il risultato è una colonna sonora meravigliosa.
Lei ha qualche altro progetto in mente?
Sì, un libro che uscirà, credo a giugno, per Mondadori Education, quindi la branca di Mondadori che va nelle scuole. È anche qua una storia molto particolare che conoscevo da tempo. In sostanza è la storia di una rosa: la maggior parte delle rose di San Valentino viene coltivata intorno a un lago africano in Kenya, il lago Naivasha, con un sistema di serre intensive. Il lago, però, si sta prosciugando, quindi c'è un impatto ambientale molto pesante, anche sui lavoratori e soprattutto sulle lavoratrici, che sono mano d'opera sfruttata in condizioni anche molto gravi. Questa rosa, come milioni di altre, viene surgelata e caricata sull'aereo, portata ai mercati internazionali in Olanda, dove hanno luogo le grandi aste. È una rosa, la protagonista, coltivata dalle mani di una donna che vive là, che ha tutta una sua storia, arriva a Milano e viene raccolta da un venditore di rose dopo esser stata lasciata su una panchina. Viene poi presa da una bambina, una ragazzina che deve salvare l'amore dei suoi genitori. Quindi è una storia anche sull'amore, una storia poetica, ma che vuole illustrare il viaggio che compiono questi fiori. Noi ci stupiamo perché i migranti vengono qua, ma cosa c'è dietro? Questo racconto fa capire un attimo il perché.