La guerra di Israele in Medio Oriente è un conflitto su più fronti. In cui, però, per lo Stato ebraico quelli decisivi sono potenzialmente quelli…non guerreggiati. Ovvero la partita degli equilibri politici interni al Paese guidato da Benjamin Netanyahu e quella diplomatica e negoziale che vede Gerusalemme confrontarsi con i rapporti sempre più tesi con gli alleati, Stati Uniti in testa. Il rischio di una sconfitta politica in un conflitto che vede il Paese mediorientale alzare l’asticella dell’offensiva a Gaza e gestire un progressivo deterioramento del consenso per le sue azioni sul proscenio internazionale. Sul tema ne abbiamo discusso con un osservatore d’eccezione come il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica (2006-2008) e della Difesa (2008-2011). E ci ha spiegato la strategia israeliana e le sue evoluzioni.
Generale, la guerra dura ormai da sei mesi. A che punto siamo nel conflitto?
Analizzando la guerra tra Israele e Hamas, sottolineo una chiave di lettura condivisa da molti analisti. I brutali attentati del 7 ottobre, compiuti da Hamas in Israele, sono stati ritenuti un atto non immaginabile per l’ampiezza e la brutalità messa in campo. Ma sottolineo che era chiaro che i servizi segreti di Israele avrebbero dovuto prevederli. La reazione dell’Israel Defence Force è stata fin dall’inizio dura e prevedibile negli obiettivi, ma discutibile nelle modalità d’applicazione.
I morti hanno superato quota 30mila, in larga parte civili. Cosa implica questa conta così dura?
Il rischio per Israele è legato a una grave problematica politica. Sostanzialmente, una risposta tanto dura non concretizza vantaggi strategici definitivi e aliena a Israele molte simpatie nell’opinione pubblica internazionale. In quest’ottica, poi, si inserisce la difficoltà del pessimo governo israeliano di Benjamin Netanyahu.
Che prospettive si aprono?
L’unica vera soluzione possibile alla guerra tra Hamas e Israele è un processo che porti alla costituzione di due entità statuali che si legittimano vicendevolmente. Ma una soluzione di questo tipo finché vi saranno in campo Hamas da un lato e il governo di Netanyahu, che è ostaggio dell’ultradestra religiosa e nazionalista, dall’altro è impensabile. E anche se Israele cambiasse, come auspicabile, governo resterebbe il problema dell’oltranzismo di Hamas: per fare la pace, del resto, bisogna essere in due…”.
Mentre da uno scenario bellico appare difficile per Israele uscirne il Paese ne ha aperti altri. Pensiamo agli scambi di colpi con Hezbollah e ai raid in Libano o al recente attacco alla legazione iraniana a Damasco. Qual è la ratio strategica dietro queste mosse?
Sul caso libanese e sugli scambi di colpi tra Israele e Hezbollah ritengo che ci siano soprattutto motivazioni tattiche. Ad esempio le forze israeliane agiscono per neutralizzare delle postazioni missilistiche con tempestività quando individuano i siti di lancio di missili dal Libano. Oppure approfittano di informazioni e opportunità per eliminare dei comandanti dei gruppi militanti quando li scoprono particolarmente vulnerabili. Sul caso dei raid contro l’Iran in Siria penso che la mossa sia invece orientata a ricordare a Teheran la capacità di deterrenza israeliana.
In che modo?
Sottolineando che Israele può, anche ora che è impegnata in un conflitto sul terreno, colpire duramente l’Iran. L’attacco di lunedì scorso a Damasco è un forte segnale della volontà israeliana di ricordare all’Iran che lo Stato ebraico è capace di proiettarsi e colpire anche in questa fase complessa. in un certo senso, la minaccia di Israele all’Iran è che qualsiasi mossa azzardata di Teheran riceverebbe la dura risposta delle forze armate di Gerusalemme. In questo senso, Israele agisce ponendo delle linee rosse ben sapendo che un allargamento del conflitto è improbabile proprio per le debolezze iraniane. In quest’ottica, è un comprensibile atteggiamento dell’idf quello di fissare con chiarezza queste linee rosse.
Resta il dato di fatto politico, forse la vera minaccia per Israele…
Sì, l’escalation e l’aumento dei morti civili a Gaza sta sempre più alienando a Israele la simpatia dell’opinione pubblica dei Paesi amici. E sono certo che Israele pagherà un prezzo elevato dal duello politico tra Biden e Netanyahu. Quest’ultimo è il vero problema di Israele: procrastina una fine politica che è sempre più chiaro sarà inevitabile ed è ostaggio col suo governo di un’ultradestra sempre più esigente. In quest’ottica, la combinazione tra i problemi interni a Israele, evidenziati dalle proteste dei cittadini che chiedono chiarezza sulla liberazione degli ostaggi rapiti il 7 ottobre e sulla conduzione del conflitto, e la crisi diplomatica tra Israele e i suoi alleati rappresenta il vero problema strategico a cui Israele deve porre attenzione.