La maglietta arrotolata fino quasi alle spalle, la giacca di pelle e le sigarette. Poi i pugni, amati e odiati, in Fronte del porto, il monologo del colonnello Kurtz e lo scandalo di un tango ballato a Parigi. Marlon Brando è il secolo, una delle cose per cui davvero vale la pena vivere, come disse Woody Allen in Manhattan. Cento anni li ha compiuti, senza condizionale, lui che, a suo malgrado, è diventato un mito. Nella sua autobiografia Le canzoni che mi insegnava mia madre (La nave di Teseo), ha scritto che non ci sono ragioni per cui un divo dovrebbe essere ascoltato con maggiore attenzione di una persona ordinaria. Succede e basta. La sua vita, anche quella, è successa e basta. Ma di quanti fenomeni siamo testimoni di cui non conosciamo le ragioni, e che comunque non possiamo fare a meno di ammirare? Quanti misteri indaghiamo pur sapendo che non troveremo una risposta? Forse è proprio questa curiosità che ha spinto a teatro, e poi a New York, quel ragazzo che quando poteva faceva a botte. Poteva nascondersi in qualche vicolo, insieme a una donna appena conosciuta al bancone di un bar, o magari capitava di trovarlo seduto alla luce di una lampada nell’angolo di una libreria. Leggeva la Critica della ragion pura di Kant, Dostoevskij, Locke e Rousseau: cosa cercava, quel giovane arrabbiato? Da dove veniva quel sentimento? In una delle lettere che spedì ai suoi genitori nei primi giorni a Manhattan, scrisse che quello che stava scoprendo a proposito della verità non era soddisfacente. Una verità mutilata che, forse, trovò nuovi pezzi proprio nella recitazione. Eppure, è lui stesso a dire che, in fondo, tra recitare o fare qualsiasi altro mestiere non c’è poi tutta questa differenza. L’unica, e rilevante, è quella del guadagno: “Nemmeno io sono innocente: anch’io faccio le cose per denaro”. Nessun amore per l’arte, quindi. Il sospetto è che proprio qui, nella negazione di se stesso, si nasconda quel narcisismo che per tutta la vita ha scansato. Si trasformò nel riferimento per la generazione di attori che lo seguì: James Dean, Paul Newman, Robert De Niro, Al Pacino, solo per citare i primi nomi di una lista in continuo aggiornamento.
Marlon Brando fu Stanley Kowalski in Un tram chiamato desiderio, dove appariva spesso senza maglietta, con la sua energia eccessiva. Marlon Brando fu Il selvaggio e, per poco, non fu anche la Gioventù bruciata. Anche senza aver preso parte al film, poi, divenne il manifesto del ribelle: ecco uno dei tanti paradossi. Manifesto ribelle, esempio incasellabile, sopra le righe e intimo, Il padrino e uomo distrutto. Come decifrare questo mistero che è Marlon Brando? Di certo, lui ha fatto di tutto per non farcelo sapere: “Se non avessi fatto l’attore, probabilmente sarei diventato un truffatore e sarei finito in prigione”. Un truffatore che inganna gli altri, ma anche, e prima di tutto, se stesso. L’insoddisfazione di chi ha bevuto, fatto a pugni e l’amore e che ha fallito nel trovare quella completezza che ha sempre cercato. Non gli sono bastati neanche gli anni di lotte: nelle piazze animate da Martin Luther King, contro l’idea americana (e viziosa) dei nativi, contro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. “Per quale ragione l’opinione di un divo deve ricevere maggiore considerazione di quella di un qualsiasi altro cittadino?”, si chiede Brando. Già il fatto di porsi la questione lo distanzia da tutti quei divi, oggi che si sono moltiplicati, che invece quell’attenzione la pretendono. Insomma, il suo mito è un errore prospettico, una miopia dell’occhio di chi guarda. Ma se Brando ha ragione, allora “nessuno è in grado di vedere qualcosa se non attraverso i propri difetti”. Seguiamo, quindi, il suo insegnamento. Anzi, lo seguano gli attori: non fate di lui un Dio. Perché è proprio al divino che ci si deve ribellare. E così avrebbe fatto Marlon Brando.