Il 23 febbraio la polizia ha manganellato studenti e manifestanti pro Palestina e contro l'intervento israeliano, a Pisa e Firenze. In risposta a Pisa migliaia di persone sono scese in piazza la sera stessa, per manifestare a favore della Palestina, ma anche per difendere la libertà di manifestazione e protestare contro il comportamento della polizia. Tra le altre iniziative di protesta, alcuni professori del liceo Russoli di Pisa hanno scritto una lettera per denunciare la “violenza inaudita”, mentre per parte sua la polizia ha risposto con un comunicato poco convincente. Ma questo episodio arriva dopo una serie di altri episodi riguardanti la questione israelo-palestinese e la libertà di espressione. Si è da poco tenuto il Festival di Sanremo 2024 e quest’anno è stato accompagnato da numerose polemiche intorno al fatto che alcuni cantanti (tra cui Ghali) sono intervenuti contro l’intervento israeliano con frasi come “Stop al genocidio”. In risposta sono subito arrivate le proteste dell’ambasciatore israeliano Alon Bar che ha definito frasi come “Stop al genocidio” e “Cessate il fuoco” un modo di diffondere odio. E a queste sono seguite quelle di vari esponenti del governo e un comunicato dell’amministratore delegato della Rai Roberto Sergio, che ci ha tenuto a ricordare che la Rai racconta tutti i giorni il punto di vista del governo israeliano: Ogni giorno i nostri telegiornali e i nostri programmi raccontano e continueranno a farlo, la tragedia degli ostaggi nelle mani di Hamas oltre a ricordare la strage dei bambini, donne e uomini del 7 ottobre. La mia solidarietà al popolo di Israele e alla Comunità Ebraica è sentita e convinta. Dimenticandosi di dire se racconti o debba raccontare anche altro, o se dovrebbe limitarsi a essere nelle sue intenzioni l’ufficio di pubbliche relazioni del governo Netanyahu.
Il caso delle università americane
Ma ancora prima di Sanremo la questione della libertà di espressione sul conflitto israelo-palestinese ha dato adito a un grande dibattito e ad accesi scontri in tutto il mondo, spesso proprio intorno a manifestazioni studentesche. A questo proposito vale la pena ricordare il caso scoppiato nelle università americane.
Scrive Il Post: "Dal giorno dell’attacco di Hamas in Israele del 7 ottobre in alcune delle più prestigiose università statunitensi, sia pubbliche che private, diversi gruppi studenteschi hanno organizzato manifestazioni di solidarietà per le vittime dell’attacco, da una parte, e di protesta contro le politiche di Israele, dall’altra. Le tensioni crescenti tra i gruppi, spesso contrapposti all’interno dello stesso campus, hanno generato episodi di intolleranza e minacce la cui responsabilità è stata in parte attribuita all’incapacità delle amministrazioni universitarie di gestire quelle tensioni limitando le espressioni di aggressività fisica e verbale. Il dipartimento dell’istruzione statunitense ha avviato indagini su oltre venti università tra cui Columbia, Harvard, Cornell, Stanford e University of Pennsylvania, in seguito ad alcune denunce per presunti fenomeni di antisemitismo e islamofobia. Le indagini hanno portato il 5 dicembre a un’audizione al Congresso molto discussa, in cui le rettrici di Harvard, del MIT e della University of Pennsylvania sono state duramente criticate per non aver preso esplicitamente le distanze da espressioni e slogan utilizzati dai manifestanti e giudicati antisemiti, e per non aver garantito la sicurezza degli studenti. Quattro giorni dopo l’audizione, su pressione di donatori, politici ed ex studenti dell’università, la rettrice della University of Pennsylvania Elizabeth Magill si è dimessa dall’incarico insieme al presidente del consiglio di amministrazione Scott L. Bok".
Scrive The Harvard Crimson: "Nel fine settimana i gruppi studenteschi di Harvard hanno suscitato forti reazioni nel campus e a livello nazionale per aver sottoscritto una dichiarazione in cui si afferma di «ritenere il regime israeliano interamente responsabile di tutte le violenze in corso» sulla scia dell'invasione mortale di Israele da parte del gruppo militante islamico Hamas. Redatta dall'Harvard Undergraduate Palestine Solidarity Committee e inizialmente cofirmata da altre 33 organizzazioni studentesche di Harvard, la dichiarazione è stata messa sotto tiro da legislatori federali, professori dell'Università e altri studenti. La dichiarazione è stata inizialmente pubblicata sulla pagina Instagram del PSC, che è stata poi temporaneamente sospesa da Meta, secondo il gruppo. L'account è tornato online lunedì sera. «Gli eventi di oggi non si sono verificati nel vuoto», si legge nella dichiarazione. «Negli ultimi due decenni, milioni di palestinesi di Gaza sono stati costretti a vivere in una prigione a cielo aperto. I funzionari israeliani promettono di 'aprire le porte dell'inferno', e i massacri a Gaza sono già iniziati». «Nei prossimi giorni, i palestinesi saranno costretti a sopportare tutto il peso della violenza di Israele. Il regime di apartheid è l'unico da biasimare», si legge ancora. La dichiarazione del PSC ha ricevuto rapidamente un'ampia condanna, anche da parte di professori e politici che hanno utilizzato i social media per rimproverare quello che, secondo loro, era un tentativo di giustificare l'attacco di Hamas".
Come ha ricordato Il Post ne è venuta fuori una audizione alla Camera degli Stati Uniti per le presidi di Harvard, del MIT e dell’Università della Pennsylvania, in cui, come scrive Davide Piacenza su Culturewars: "A rubare la scena in aula sono state le domande particolarmente pugnaci poste dalla repubblicana della Commissione Elise Stefanik a Claudine Gay, che è preside di Harvard da poco più di cinque mesi. Stefanik ha chiesto ripetutamente a Gay se «dirsi favorevoli al genocidio degli ebrei» viola o meno «i codici di condotta di Harvard», chiedendo una risposta breve e affermativa che la preside – come le sue colleghe – non ha voluto dare. Harvard è particolarmente sulla graticola fin dai fatti del 7 ottobre, quando un gruppo di suoi studenti filopalestinesi aveva diffuso una lettera che attribuiva a Israele la responsabilità politica e morale dell’eccidio di Hamas, e per questo motivo era stata molto criticata. Quando Stefanik parla di sostenitori del «genocidio», però, si riferisce alle manifestazioni studentesche in cui si cantano slogan per l’Intifada e altri motti come «from the river to the sea, Palestine will be free», considerato da alcuni intrinsecamente antisemita".
La vicenda è intricata, ma alla fine di fronte alla domanda se inneggiare al genocidio violi i codici di condotta di Harvard la (ex) preside Claudine Gay ha risposto “dipende”. In seguito a questa udienza Gay è finita sotto i riflettori, i suoi critici hanno iniziato a scavare ed è finita che ha perso il posto perché si sono dimostrati numerosi casi in cui aveva plagiato il lavoro altrui. Dimissioni che sono arrivate quindi per un motivo che non c’entra di per sé con Israele e Palestina e che sembrano ben giustificate di per sé, ma sicuramente arrivate in conseguenza di inchieste ostili originate dalle posizioni di Gay sulla questione israelo-palestinese.
La censura sui social delle voci filopalestinesi
Ma è soprattutto sui social che si assiste alla censura delle voci palestinesi, come hanno raccontato diversi quotidiani italiani.
Il Fatto quotidiano (“I miei post sulla Palestina? Invisibili: lo spettro dello ‘shadowban’ su Facebook, Instagram e TikTok”): "Una foto di Enrico Berlinguer con Yasser Harafat, datata 1982 e accompagnata da alcune righe sul pensiero del segretario del Pci morto nel 1984 sulla questione israelo-palestinese, tratte da una biografia scritta da Chiara Valentini. È l’ultimo post della pagina Facebook e Instagram collegata al sito enricoberlinguer.it, 500 mila e 17 mila follower ciascuna. Ma per qualche giorno non l’ha vista nessuno. «Siamo passati da migliaia di visualizzazioni l’ora a poche decine», racconta Pierpaolo Farina, che gestisce questi account e quelli di WikiMafia, di cui è direttore. Vicenda denunciata anche sul suo sito. La pubblicazione di quel post risale al 9 ottobre, il secondo giorno dell’operazione militare di Israele sulla Striscia di Gaza, in risposta agli attacchi di Hamas del 7, che hanno fatto 1400 morti e la presa di 199 ostaggi. L’esperienza di Farina è condivisa da centinaia di utenti dei social network: Instagram e Facebook e TikTok. In Italia come altrove. Sulla rete il fenomeno si chiama «shadowban». Non è il «ban» (cioè la chiusura) di un account, né un «oscuramento» diretto di contenuti. Il post si trova ancora, se lo vai a cercare all’indirizzo della pagina, ma nei feed degli utenti non appare più. Una limitazione della visibilità di un contenuto, che per chi la riceve è solo una versione «soft» della censura, spesso preventiva".
Il Post (Instagram e gli “shadow ban” su Israele e Palestina): "Su Instagram da giorni moltissimi utenti, soprattutto tra attivisti, giornalisti e altre persone che stanno seguendo la guerra nella Striscia di Gaza, segnalano che i loro post e le loro Storie su Instagram che parlano delle condizioni di estrema difficoltà in cui vivono le persone nei territori palestinesi o che esprimono vicinanza alla causa palestinese ottengono un numero di visualizzazioni e interazioni molto inferiore a quello riservato agli altri loro contenuti. Per questo sospettano che dietro ci sia quello che, tecnicamente, viene chiamato «shadow ban», una pratica di cui si conoscono solo in parte i dettagli, e comune a tutti i maggiori social network".
Filippo Lubrano su Appunti (il Substack di Stefano Feltri) (Raccontare la guerra in P4l3st1n4): "Se raccontare l’invasione di Gaza dal campo può costare la vita, farlo da casa può costare i propri follower. È quello che stanno sperimentando sulla propria pelle centinaia di account pro-pal, che sono state vittime del cosiddetto «shadowban», una forte riduzione esercitata dagli algoritmi dei principali social (Instagram e Facebook in primis) della capacità di raggiungere le persone che seguono il proprio account. Parliamo qui di persone comuni che hanno visto una forte riduzione delle visualizzazioni delle proprie storie dopo essersi espresse sull’argomento, ma anche e soprattutto di influencer e professionisti che hanno recentemente segnalato varie forme di applicazione o censura disomogenea. Tra questi ultimi compare anche la giornalista vincitrice del premio Pulitzer del New York Times Azmat Khan, che ha affermato che il suo account Instagram da 7.000 follower «è stato oscurato» dopo aver pubblicato una storia sulla guerra a Gaza. Ma c’è anche a chi è andata peggio: il giornalista Ahmed Shihab-Eldin ha dichiarato che il suo account Instagram - che aveva più di 100.000 follower e pubblicava spesso post sulla Palestina - è stato permanentemente chiuso, con poche spiegazioni da parte della piattaforma".
Le manifestazioni per la libertà di espressione? Un bluff
Con tutto questo, quando ho visto quello che è accaduto a Pisa e Firenze, non ho potuto fare a meno di pensare che quegli studenti e quei manifestanti fossero un bluff e che pur essendo sbagliato che venissero picchiati dalla polizia, avrebbe potuto essere giusto che qualche manganellata in faccia se le dessero da soli.
Dire che non ci si può esprimere liberamente sulla questione israelo-palestinese sarebbe esagerato. Onestamente intorno a noi è pieno di critiche a Israele, moderate e radicali. Alle manifestazioni di Firenze e Pisa finite in questo modo, ne sono seguite altre ancora più partecipate. Sul palco di Sanremo Ghali e Dargen bene o male hanno pur parlato. Alle proteste contro l’intervento dell’ad si è unita Elly Schlein, leader del secondo partito italiano. Mentre, come ho riportato, importanti giornali hanno pubblicato articoli sulla censura delle voci filo palestinesi.
Quindi il dibattito c’è, ma è ugualmente un fatto che sui social si venga censurati, a Sanremo si venga corretti da un comunicato dell'amministratore delegato, in piazza capiti di essere manganellati durante una manifestazione pacifica, i presidi di alcune delle più grandi università del mondo siano finiti davanti a una commissione della Camera Usa, e in generale si venga immediatamente accusati di diffondere odio, essere antisemiti e simpatizzare per i terroristi, se si manifestano posizioni critiche verso Israele. Come ci si è arrivati?
Ci si è arrivati come si è arrivati alla censura e alla repressione generali del dissenso: attraverso una serie di passaggi a cui le stesse persone che oggi si stracciano le vesti per la censura non si sono opposte, a cui spesso hanno dato invece il loro appoggio e a cui spesso lo danno tutt’ora, nonostante l’evidente autocontraddizione.
Molti di quelli che oggi si dipingono come vittime della censura hanno loro stessi una parte importante di responsabilità in questa censura.
Perché le loro rivendicazioni di libertà sono incoerenti e a macchia di leopardo. Parlano di libertà, ma la loro idea è quella di una libertà concessa o negata in modo arbitrario, di volta in volta secondo le proprie posizioni in merito alla questione in oggetto.
Libertà di esprimere le idee che condivido, ma non quelle con cui non sono d'accordo, libertà per me, ma non per i miei avversari politici, libertà per il gruppo X che mi piace, ma non per il gruppo Y che non mi piace.
L'idea di una regola del gioco generale, universale e valida sempre per tutti se la sono persa per strada.
Infatti per ciascuna delle lamentele che oggi muovono, gli si può rinfacciare che tante volte sono stati e sono dall’altra parte a invocare e difendere la censura e la repressione.
Vediamo perché…
La censura sui social delle voci filo palestinesi - Gli shadow ban
L'informazione italiana ha scoperto all’improvviso il problema degli shadow ban, grazie alla censura delle voci filopalestinesi: Il Post, il Fatto Quotidiano, Facta, Fanpage, Appunti e tanti altri hanno pubblicato articoli in cui illustrano l'esistenza di questa pratica e la sua problematicità.
Peccato non sia affatto una questione recente: nonostante i nostri giornalisti abbiano preso a parlarne solo ora, di shadow ban si è discusso moltissimo negli ultimi anni.
Si tratta di una questione venuta alla ribalta con
• l’acquisto di Twitter da parte di Musk,
• i Twitter Files,
• le seguenti audizioni volute dai repubblicani alla Camera,
• le denunce di molti giornalisti indipendenti - come Matt Taibbi, Bari Weiss, Michael Shellenberger, David Zweig, Glenn Greenwald, Jonathan Cook, Caitlin Johnstone, Robert Kogon, C.J. Hopkins, Rav Arora, Alex Berenson, Lee Fang, Chris Hedges,
• la causa Missouri vs Biden sul Primo Emendamento,
• le denunce della censura della Great Barrington Declaration e dei suoi autori (vittime appunto di shadow banning),
• quelle sulle origini del covid,
• la soppressione dello scandalo Hunter Biden alla vigilia delle elezioni (Twitter bloccò la possibilità di condividere l'inchiesta del New York Post e l'account del New York Post stesso, mentre Facebook ne ridusse la visibilità con una sorta di shadow ban),
• gli abusi di Trudeau contro il Freedom Convoy,
• la dichiarazione di Westminster,
e in generale nel dibattito sulle varie forme di controllo e censura dell'informazione e della discussione pubblica verificatesi negli ultimi anni.
Il problema è che nulla di tutto ciò è stato decentemente raccontato dall'informazione italiana e dagli stessi che oggi all'improvviso si lamentano della censura sui social.
Anzi la stessa sinistra liberal che oggi è la parte politica più filopalestinese, è stata anche la parte politica che più ha difeso e sostenuto l’uso degli shadowban e di altre forme di censura quando si è trattato delle discussioni sul Covid, le misure prese durante la pandemia, la guerra in Ucraina, le vicende di Trump, le questioni riguardanti il cambiamento climatico, le questioni LGBTQ+, e tutta un’altra serie di aree del discorso pubblico.
Ora, su una questione che li vede in disaccordo rispetto alla posizione istituzionalefilo israeliana della maggior parte dei paesi occidentali, scoprono com'è trovarsi dall'altra parte e se ne lamentano. Ma ci sono due grandi problemi:
1) non possono fare un discorso sensato e realistico senza ammettere di aver “dimenticato” di raccontare quanto accaduto negli ultimi anni, tornando sui propri passi per informare di quello che finora hanno taciuto o liquidato con un'alzata di spalle. Non risolvere questa contraddizione vuol dire finire a pubblicare articoli ridicoli che cercano di parlare di shadowban e censura giostrandosi fra mille contraddizioni, senza poterli collocare nel loro contesto e senza poter citare i più importanti precedenti, casi, nomi e argomenti sulla questione;
2) stanno tentando di fare contemporaneamente due discorsi opposti, perché il discorso contro queste pratiche che vogliono fare oggi è l'esatto opposto di quello a favore che facevano fino a ieri e che continuano a fare tutt'ora appena si esce dalla questione israelo-palestinese.
Insomma “L’informazione mainstream non può fare a meno di essere ridicola”.
La censura sui social delle voci filo palestinesi - Il Digital Service Act
Una parte della colpa della censura sui social delle voci palestinesi è da imputarsi al Digital Service Act.
Il Dsa è una norma su cui l’Unione Europea ha lavorato fin dal 2020. Il testo definitivo è stato approvato il 5 luglio 2022. La norma è entrata in vigore in Europa il 25 agosto 2023. Da prima per le cosiddette Vlop (Very Large Online Platforms) e dal 17 febbraio 2024 anche per tutte le altre, come ricorda Wired: Tra dieci giorni suona la campanella. Dal 17 febbraio il Digital services act (Dsa), il pacchetto di regole europee sui servizi digitali, diventa legge per tutti. Fornitori di cloud e di hosting, motori di ricerca, ecommerce e servizi online e, in generale, tutti gli intermediari in rete dovranno adeguarsi alle norme che impongono trasparenza su algoritmi e pubblicità, lotta alla violenza online e alla disinformazione, protezione dei minori, stop alla profilazione degli utenti.
Finora solo 22 multinazionali del settore hanno dovuto rimboccarsi le maniche. Catalogate come grandi piattaforme e grandi motori di ricerca, dallo scorso aprile Google con 4 servizi (search, shopping, maps, play), Youtube, Meta con Instagram e Facebook, Bing, X (già Twitter), Snapchat, Pinterest, LinkedIn, Amazon, Booking, Wikipedia e l'App Store di Apple, TikTok, Alibaba Express, Zalando hanno dovuto adeguarsi al Dsa. Poco prima di Natale si sono aggiunti tre siti porn: Pornhub, XVideos e Stripchat.
Adesso tocca a tutti gli operatori online fare i compiti a casa. Si tratta di una regolamentazione molto forte, che cambia completamente la discussione pubblica online in Europa. Come ha affermato Sandro Gozi sul Riformista: "La legge sui servizi digitali (Dsa) è molto più di una semplice regolamentazione del web: è uno dei testi più importanti di questa legislatura europea. È la nostra risposta strategica al mondo digitale in rapida evoluzione, uno sforzo coordinato per stabilire norme e regole chiare nel nuovo spazio virtuale che sta plasmando sempre di più la nostra vita quotidiana. Sono principi fondamentali e obiettivi d’interesse generale che devono durare nel tempo rispetto a una tecnologia in rapida e costante evoluzione. È soprattutto la fine del far west digitale e garantirà più protezioni per tutti i cittadini europei in rete. Inoltre il Dsa prevede delle durissime sanzioni per la sua violazione: le violazioni del Digital Services Act (Dsa) possono comportare sanzioni fino al 6% del fatturato annuo totale e i destinatari dei servizi digitali hanno il diritto di richiedere un risarcimento per eventuali danni o perdite subite a causa delle violazioni commesse dalle piattaforme. Invero, vengono previste ulteriori sanzioni in caso di presentazione di informazioni errate, incomplete o fuorvianti da parte delle piattaforme, nell’ipotesi di mancata correzione di tali informazioni e di mancata cooperazione durante le ispezioni. In conclusione, il Digital Services Act avrà un grande impatto sulle dinamiche attuali, non si limiterà alle sole grandi piattaforme, ma si estenderà a tutte le categorie di imprese, comprese le microimprese e le piccole imprese. Queste ultime, seppur destinatarie di misure di semplificazione, saranno comunque tenute ad adottare le nuove disposizioni previste dal regolamento. In questo modo, il Dsa influenzerà in modo significativo l’intero panorama nell’ambito dei servizi digitali, cercando di creare un ambiente digitale più sicuro, responsabile e trasparente per tutti gli attori coinvolti".
Il “6% del fatturato totale” è un’enormità, infatti stiamo parlando di fatturato e non di ricavi, e di fatturato realizzato ovunque non solo in Europa.
L’accoglienza di questa norma è stata duplice: i media mainstream l’hanno esaltata acriticamente, quelli alternativi l’hanno in genere criticata ferocemente. Ho dedicato numerosi articoli al Dsa, a partire da una rassegna stampa che ha evidenziato questa netta divisione nella copertura mediatica.
Riassumendo le differenze, la stampa mainstream informa in qualche modo sul contenuto delle norma, ma:
• tende a riportare in modo acritico la sintesi fatta del provvedimento dalla Commissione Europea stessa
• tende a riportare in modo acritico le dichiarazioni delle autorità europee, in particolare del commissario Thierry Breton e di Ursula von Der Leyen.
• illustra le intenzioni dichiarate dai promotori del Dsa come coincidenti con gli obbiettivi effettivi del Dsa e con i suoi effetti: se dicono che è stato fatto per tutelare gli utenti, allora l’obiettivo è effettivamente quello, e l’effetto anche.
• elogia il Dsa mettendo in luce solo quelli che ritiene aspetti positivi, come gli obblighi di maggiore trasparenza per le piattaforme, la tutela dei minori dalle pubblicità mirate, la possibilità per gli utenti di fare ricorso contro i ban, e ignora completamente qualsiasi possibile problema.
• adotta di fatto un atteggiamento propagandistico: non tanto perché positivo verso il provvedimento, ma proprio perché non sottopone il provvedimento e le dichiarazioni della Commissione e dei suoi sostenitori a nessun tipo di vaglio, limitandosi a ripeterle in modo meccanico senza alcuna riflessione indipendente
Al contrario la stampa indipendente:
• non riporta acriticamente né quanto pubblicato dalla Commissione Europea, né quanto dichiarato dalle autorità, né prende per buone le loro intenzioni, né assume che intenzioni ed effetti magicamente coincidano.
• non guarda con cieca fiducia alle autorità e alle istituzioni, non ritiene che il ruolo della stampa sia quello di spingere le persone a obbedire all'autorità, ma conserva il punto di vista secondo cui la stampa deve essere indipendente, difendere la libertà di espressione e svolgere un ruolo di controllo e di critica del potere a garanzia dei cittadini e a servizio della discussione pubblica.
• mette in luce gli ampi e discrezionali poteri di controllo di cui la Commissione Europea si è dotata.
• mette in luce che mancano definizioni precise e che cosa sia disinformazione, discorso d'odio, rischio sistemico, etc.. potrà essere definito a posteriori secondo i desiderata del momento, così come il tipo di risposta da riservargli. E che dunque i meccanismi del Dsa non offrono alcuna garanzia di trasparenza, imparzialità e tutela del dissenso.
• mette in luce il pericolo che il Dsa faccia scuola e diventi uno standard globale, andando a intaccare anche la libertà americana, nonostante il Primo Emendamento.
• mette in luce il comportamento arrogante delle autorità europee verso le aziende, in particolare quello del commissario Thierry Breton che si è sempre espresso come se le aziende non fossero dei loro proprietari, non avessero diritti e la politica potesse farne semplicemente quello che vuole, cioè come l’esponente di un qualsiasi regime dirigista.
• contestualizza il provvedimento e i propri timori su di esso, riferendosi ai Twitter Files, alla soppressione della storia del laptop di Hunter Biden, alle bugie raccontate con il Russiagate, alla soppressione della libera discussione sul covid e sulle sue origini, a quanto accaduto in Canada contro il Freedom Convoy e in generale a tutta una serie di provvedimenti liberticidi diffusisi in tutto l’Occidente.
• cita le critiche proposte da organizzazioni per la difesa dei diritti civili online come la Electronic Frontier Foundation.
• critica la centralizzazione europea che mira a imporre regole e politiche uniformi svuotando di senso le democrazie nazionali e azzerando la concorrenza istituzionale.
• conclude che si tratta né più né meno della costruzione di un apparato di controllo della discussione pubblica, di censura e propaganda, che lungi dallo sparire dopo l’emergenza covid, viene invece istituzionalizzata, normalizzata e generalizzata.
Personalmente trovo semplicemente allucinante che una norma del genere sia passata con così poca discussione pubblica. Ma d’altronde discuterla avrebbe richiesto parlare di tutte quelle cose di cui la stampa mainstream non voleva parlare.
Solo che il Dsa è tornato in testa ai suoi entusiasti sostenitori filopalestinesi quando dopo l’attacco di Hamas ad Israele, Thierry Breton, forte dell’entrata in vigore del Dsa, ha iniziato a spedire letterine ai social e alle piattaforme online (Meta, Twitter, Youtube e TikTok)2 per esortarle ad ottemperare agli obblighi che il Dsa porrebbe loro.
Queste lettere escono fuori dal perimetro degli obblighi posti dal Dsa stesso, come hanno rivelato Access Now e altre organizzazioni per i diritti civili in una lettera a loro volta inviata al commissario Breton:
In primo luogo, le lettere stabiliscono una falsa equivalenza tra il trattamento da parte del Dsa dei contenuti illegali e la "disinformazione". La "disinformazione" è un concetto ampio e comprende contenuti diversi che possono comportare rischi significativi per i diritti umani e la discussione pubblica. Non si qualifica automaticamente come illegale e non è di per sé vietata dal diritto europeo o internazionale dei diritti umani. Sebbene il Dsa contenga misure mirate per affrontare i contenuti illegali online, prevede - in modo più che appropriato - invece l’applicazione di un approccio normativo diverso rispetto ad altri rischi sistemici, che consiste principalmente negli obblighi di due diligence delle Vlopp e nella trasparenza imposta dalla legge. Tuttavia, le lettere si concentrano fortemente sulla rapida rimozione dei contenuti piuttosto che evidenziare l'importanza degli obblighi di due diligence per le Vlop che regolano i loro sistemi e processi. Invitiamo la Commissione europea a rispettare rigorosamente le disposizioni del Dsa e il diritto internazionale dei diritti umani, evitando di confondere in futuro queste due categorie di espressione.
In secondo luogo, il Dsa non prevede scadenze per la rimozione dei contenuti o periodi di tempo entro i quali i fornitori di servizi debbano rispondere alle notifiche di contenuti illegali online. Il testo afferma che i fornitori devono rispondere in modo tempestivo, diligente, non arbitrario e obiettivo. Inoltre, non esiste alcuna base giuridica nel Dsa che giustifichi la richiesta di rispondere a voi o al vostro team entro 24 ore. Inoltre, emettendo pubblicamente tali lettere in nome dell'applicazione del Dsa, rischiate di minare l'autorità e l'indipendenza del team di applicazione del Dsa della Direzione Generale.
In terzo luogo, il Dsa non impone ai fornitori di servizi l'obbligo di "applicare in modo coerente e diligente le [proprie] politiche". Al contrario, richiede che tutti i fornitori di servizi agiscano in modo diligente, obiettivo e proporzionato quando applicano e fanno rispettare le restrizioni basate sui loro termini e condizioni e che le Vlop affrontino adeguatamente gli effetti negativi significativi sui diritti fondamentali derivanti dall'applicazione dei loro termini e condizioni. I termini e le condizioni spesso vanno oltre le restrizioni consentite dagli standard internazionali sui diritti umani. Le pressioni statali per rimuovere rapidamente i contenuti sulla base dei termini e delle condizioni delle piattaforme portano a un sovra-blocco preventivo di contenuti del tutto legali.
In quarto luogo, mentre il Dsa obbliga i fornitori di servizi a informare tempestivamente le forze dell'ordine o le autorità giudiziarie se sono a conoscenza o sospettano un reato che comporta una minaccia per la vita o l'incolumità delle persone, la legge non menziona un periodo di tempo fisso per farlo, tanto meno di 24 ore. Le lettere invitano inoltre Meta e X a mettersi in contatto con le autorità di polizia competenti e con Europol, senza specificare i reati gravi che si verificano nell'Ue e che costituirebbero una base legale e procedurale sufficiente per tale richiesta.
Ma l’arroganza di Breton e della Commissione Europea, la vaghezza del Dsa, le enormi multe che prevede, l’assenza della stampa mainstream che al posto di criticare la norma impagina i comunicati stampa di Breton e Ursula von Der Leyen, fanno sì che le cose vadano così.
La censura sui social delle voci filopalestinesi - Delegare ad aziende private la decisione in merito al diritto di parola
Tra tutti gli articoli inevitabilmente ridicoli e surreali che cercano di parlare della censura sui social tenendo insieme troppe contraddizioni ed escludendo le informazioni che sarebbero necessarie a rendere il discorso sensato e aderente alla realtà, una menzione particolare la merita quello di Filippo Lubrano su Appunti (Raccontare la guerra in P4l3st1n4), per l’allucinata affermazione secondo cui il problema sarebbe nell’aver delegato ad aziende private le decisioni in merito al diritto di parola:
D’altronde, questo è il rischio principale dell’informazione ai tempi dei social: delegare ad aziende private la decisione in merito al diritto di parola è un esercizio democraticamente pericoloso, non solo quando a farne le spese è il (ora ex) presidente degli Stati Uniti.
Lubrano vive in un mondo alternativo dove non esistono i Twitter Files e le audizioni alla Camera Usa, che hanno dettagliato il modo in cui le agenzie del governo federale Usa entravano nella moderazione dei social violando il Primo Emendamento. Dove non esiste la causa Missouri vs Biden, in cui per ben tre volte dei giudici hanno riconosciuto una violazione del Primo Emendamento sufficientemente rilevante da motivare l’imposizione di un’ingiunzione straordinaria, ancora prima del processo vero e proprio. Dove non esistono il Digital Service Act e probabilmente nemmeno Thierry Breton.
Questo mondo da sogno purtroppo non è reale, ma è il mondo che l’informazione italiana mainstream ha dipinto come vero finora. Quindi forse Lubrano è solo una vittima: ha semplicemente creduto a quello che leggeva sui giornali!
A parte gli scherzi, è vero l’esatto contrario di quanto sostiene: negli ultimi anni non abbiamo delegato la nostra libertà di espressioni alle aziende private, ma assoggettato sempre più le grandi aziende private dei social, dei motori di ricerca, dei pagamenti elettronici e del settore tech in generale, alle istituzioni politiche, fino al punto in cui queste hanno potuto in larga misura disporre liberamente delle aziende private, sostituendo i normali obiettivi di un’azienda sul mercato - fare profitto, in un contesto di libera competizione, accontentando i propri clienti - con obiettivi politici. Di questa censura per procura in violazione del Primo Emendamento sono accusate varie agenzie del governo federale Usa e questa censura per procura è di fatto ciò che il Dsa stabilisce in Europa.
Lubrano indica pericoli per la democrazia dove non ci sono, ma non vede quelli che ha davanti al naso:
• i media e l’informazione mainstream non svolgono il ruolo che in teoria avrebbero in democrazia: una norma così significativa come il DSA può essere discussa e approvata ed entrare in vigore con così poco dibattito pubblico, senza che nessuno nell’informazione mainstream ne metta in luce gli aspetti critici.
• la centralizzazione politica a livello europeo è servita a creare un livello politico che da un lato ha maggiori poteri - regola tutta Europa - e dall'altro è sostanzialmente meno democratico, meno trasparente e ancor meno controllato dalla discussione pubblica delle istituzioni politiche nazionali.
• il Dsa stabilisce di fatto un controllo politico della discussione pubblica dando alla Commissione Europea un potere discrezionale e arbitrario di definire cosa sia disinformazione e cosa sia da censurare: basta questo a dire che il sistema è truccato, con buona pace di chi dice che dirlo è da complottisti.
Che i vari Lubrano di questo mondo non riescano a notare questa assenza di democrazia è solo un’ulteriore conferma. Sono giornalisti, ma non danno le notizie, non difendono la libertà di espressione, non esercitano un ruolo di controllo sul potere politico e anzi invocano costantemente e ideologicamente la sua estensione, compreso un più esteso potere di controllo della discussione pubblica... che giornalisti sono?
Il caso delle università americane
Quando la (ex) presidente di Harvard Claudine Gay è finita in mezzo alle polemiche, per alcuni gruppi di studenti di Harvard che hanno incolpato Israele delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre, inizialmente ha ritenuto di rispondere rilasciando una dichiarazione video in cui ha affermato: "La nostra università rifiuta il terrorismo. Questo include le barbariche atrocità commesse da Hamas. La nostra università rifiuta l’odio. L'odio degli ebrei, l'odio dei musulmani, l'odio verso qualsiasi gruppo per le sue convinzioni religiose, la loro origine o qualsiasi altro aspetto della loro identità. La nostra università rifiuta le molestie o le intimidazioni verso gli individui in base alle loro convinzioni", ha dichiarato, "La nostra università abbraccia un impegno verso la libera espressione. E questo impegno si estende anche a opinioni che molti di noi trovano discutibili, persino oltraggiose".
Insomma una convinta e coraggiosa difesa della libertà di pensiero e di espressione: nel contesto di un'università direi che è dovuto. È un contesto dove dovrebbero vigere la libertà intellettuale e il libero dibattito e dove anche idee minoritarie o radicali o offensive, dovrebbero poter essere espresse e discusse. Se non che questa dichiarazione ha un problema: suona grottesca e ipocrita se si tiene conto del fatto che nella realtà Harvard è la negazione assoluta di tutto ciò: infatti è la peggiore università d'America per quanto riguarda la libertà di parola!
Harvard si piazza regolarmente verso il fondo delle classifiche per la libertà di parola. Nel 2023 è stata la peggiore università di tutte! Non solo: ha preso il punteggio più basso mai ricevuto in classifica da una università! Non solo: ha preso il più basso punteggio possibile! Ha preso 0, ma solo perché il punteggio non può essere negativo, se no avrebbe preso -10,69!
E con questo ho detto tutto. L’ipocrisia è evidente.
Il caso Rai - Il problema è TeleMeloni?
Elly Schlein ed altri esponenti del Pd hanno protestato per quella che ritengono l’occupazione della Rai da parte del Governo: "Basta con 'Tele Meloni', basta con un servizio pubblico svilito ad essere portavoce della propaganda di questo governo", dice la segretaria del Pd Elly Schlein aprendo il sit-in "per la libertà d'informazione" davanti al cavallo della Rai di viale Mazzini, a Roma. Con tutti i dirigenti in trasferta a Sanremo. Qualche ora prima, sempre davanti la sede Rai, era stata indetta una contromanifestazione organizzata dal sindacato di destra UniRai. "Chiediamo la libertà e l'autonomia di stampa contro un'informazione che per anni è stata monolitica e unilaterale", afferma la vicepresidente di UniRai Elisabetta Abbate. Circa 200 i partecipanti al sit-in del Pd, e presenti gli esponenti di +Europa, Avs, i socialisti e Italia Viva.
Ma anche qui, tanto per cambiare, siamo di fronte all’ennesimo caso di ipocrisia: anche i bambini in Italia sanno che la Rai è lottizzata dalla politica. Non da Meloni e non da Schlein, ma dalla politica, chiunque sia al governo.
Tutte le critiche che ho mosso all’informazione mainstream in questo articolo, valgono a maggior ragione per la Rai, il cosiddetto servizio pubblico. Con tutti gli ascolti che fa la Rai svolge inevitabilmente ancora oggi un ruolo di primo piano nel panorama dell’informazione italiana: dunque se ad esempio nessuno sa niente di tutte le cose di cui ho scritto è anche una sua responsabilità.
Detto questo, la Rai non può essere indipendente dalla politica. Tutti i politici d’opposizione che negli anni hanno lamentato ipocritamente “l’occupazione della Rai” lo sanno benissimo, ma non è che siano davvero interessati a una Rai indipendente: fanno teatro, vogliono solo partecipare all’occupazione e allargare i propri spazi.
Per mettere fine all’occupazione la soluzione è semplicissima: la Rai va chiusa o almeno privatizzata.
Nel 1995 si tenne un referendum promosso da Radicali e Lega Nord per privatizzarla e i risultati furono questi:
• Affluenza:57,4%
• Quorum: raggiunto
• Sì: 54,9%
• No: 45,1%
Questo renderebbe l’informazione migliore? Non lo so. Sicuramente un po’ più indipendente e un po’ più concorrenziale.
Ipersuscettibilità e false accuse
Se è assolutamente vero che si venga immediatamente accusati di diffondere odio, essere antisemiti e simpatizzare per i terroristi, se si manifestano posizioni critiche verso Israele, come accaduto a Ghali e Dargen, è anche vero che le accuse di razzismo lanciate a cuor leggero verso chiunque la pensi diversamente sono un vero e proprio marchio di fabbrica della sinistra.
Nelle università americane, tra microaggressioni e codici su come parlare, si è alzata sempre più l’asticella dell’intolleranza e della censura. I gesti o le parole più banali possono essere giudicati come offensivi, mentre di fronte alla denuncia che qualcuno si è sentito offeso gigantesche burocrazie si mettono in moto per sfociare a volte in sproporzionati provvedimenti disciplinari. Il risultato è un clima di autocensura che non dovrebbe esistere nelle università.
Molti campus non sono posti dove si possa, non dico esprimere liberamente opinioni minoritarie e radicali, ma almeno parlare liberamente senza dover pesare continuamente le proprie parole (si veda qui per una bella e articolata discussione su questo). E anche a Milano un professore della Statale è stato sospeso per aver condiviso sui social un post ironico su Kamala Harris, colpevole di aver offeso “il genere femminile” (cioè circa 3 miliardi e 215 milioni di persone).
Ma a parte le università, in generale la sinistra, anche in Italia, accusa continuamente di razzismo, neonazismo, omofobia, maschilismo, e chi sa cos’altro, ogni suo avversario (nonché l’intera società).
Questa è la principale chiave interpretativa attualmente usata dai liberal progressisti. E per questo ogni giorno sfogliando le notizie troviamo nuove surreali accuse di questo tipo verso qualcuno o qualcosa, dal Canzoniere di Petrarca alla pubblicità dell’Esselunga.
Di recente questo atteggiamento ha investito Substack stessa, accusata di essere simpatizzare dei nazisti sulla base di una serie di forzature, esagerazioni e falsità.
Proprio in questa vicenda possiamo trovare un esempio della contraddizione in atto. Il Post è uno dei giornali che si lamenta della censura delle voci filopalestinesi, ma allo stesso tempo è uno dei giornali che ha criticato le scelte di moderazione minimaliste di Substack, suggerendo sostanzialmente che siano un modo di ammiccare ai neonazisti e agli estremisti di destra.
Questo nonostante la libertà di esprimere opinioni filopalestinesi sia perfettamente tutelata: su Substack non viene censurata nessuna voce filopalestinese o filoisraeliana che sia. Lo stesso approccio che protegge gli uni, protegge gli altri.
Eppure al Post non piace, anzi gli piace così poco che pur di dare contro a questa scelta ha scritto che su Substack “i contenuti nazisti sono parecchi e portano soldi”, cosa che non è assolutamente vera, come ho spiegato nel mio articolo.
Quindi da un lato chiede libertà di espressione e stop alla censura, ma dall’altro accosta la difesa della libertà di espressione all’estremismo di destra.
Sempre sul Post ci viene detto che bisogna contestualizzare slogan come “dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”. E sarà anche vero, per carità, ma perché, uno potrebbe chiedersi, dovrei fare questo sforzo di intelligenza e comprensione, quando loro invece fanno carte false per accusare chi non è d’accordo con loro di simpatie neonaziste?
Per essere davvero contro la censura, bisogna esserlo in modo coerente, bisogna che sia davvero una battaglia per la libertà di espressione, bisogna che sia l’affermazione di una cultura, di una visione politica, di un’idea di giornalismo, informazione, discussione pubblica, democrazia e convivenza civile che semplicemente rifiutino la censura. Una cosa che non c’è né nelle piazze pro Palestina, né sui giornali che si sono improvvisamente svegliati scoprendo gli shadow ban, né nelle università, né negli interventi dei cantanti e degli artisti italiani, né nel PD che si lamenta di Tele Meloni.
Il caso David Parenzo
Il giornalista David Parenzo doveva partecipare a un convegno intitolato “Ricambio generazionale pronto partenza via", in programma all'università La Sapienza di Roma nell’ambito di una due giorni di eventi dedicati alla parità di genere, e organizzato dall’associazione studentesca Azione universitaria (orientamento centro destra).
A causa della contestazione inscenata dagli attivisti del collettivo Cambiare Rotta, costola universitaria di Potere al Popolo (orientamento estrema sinistra), contro Parenzo, accusato di essere razzista e fascista per via del suo sostegno all’intervento israeliano, il tutto è rimasto bloccato per un po’, anche se in seguito all'intervento di alcuni poliziotti in borghese, la situazione di tensione è lentamente rientrata e l'evento ha preso il via.
Ha raccontato le contestazioni subite Parenzo stesso sul suo profilo Instagram. Mentre dal canto loro gli studenti di Cambiare Rotta hanno motivato la protesta affermando che è inaccettabile che chi sostiene l’intervento israeliano possa parlare dei diritti delle donne. Questa la sintesi di Roma Today: "«Mi impediscono di parlare, urlano ‘Palestina libera’ e hanno anche gettato della spazzatura per terra – racconta Parenzo dal suo profilo Instagram -. Mi dicono che sono un fascista, io ho detto che parlo con tutti, ma vogliono proprio che io me ne vada fuori, è dovuta intervenire la polizia». Nel filmato si vedono alcuni studenti rimasti fuori dall'aula battere contro le porte. L’incontro, alla fine, si è comunque concluso. A raccontare la vicenda, con un video su Instagram, sono anche gli attivisti di Cambiare Rotta, che motivano così la loro iniziativa: «Non accettiamo che a prendere parola sulla parità di genere e sulle violenze siano gli stessi che negano quotidianamente i diritti delle donne – scrivono -. Non rimarremo in silenzio di fronte alla tranquillità con cui la Sapienza autorizza e anzi patrocina e pubblicizza questo tipo di iniziative, a cui non lasceremo mai spazio». Il collettivo attacca anche l'ateneo, accusandolo di essere «complice del genocidio»".
Per quanto successo Parenzo ha ricevuto solidarietà bipartisan, dal Pd a Fratelli d’Italia. La cosa buffa, ma non certo strana, è che gli stessi studenti di Cambiare Rotta, per cui Parenzo non può parlare in università, nemmeno a un evento che non riguarda direttamente il conflitto israelo-palestinese, sono gli stessi che solo pochi giorni prima, il 5 marzo, come riporta Fanpage, avevano partecipato a una manifestazione “contro la repressione e la censura”. Insomma ovunque si guardi si trova la stessa contraddizione. Evidentemente c’è una diffusa capacità di pensare contemporaneamente una cosa e il suo contrario senza cogliere l’evidente conflitto logico. Se la libertà di espressione è per tutti, allora deve permettere certamente il libero gioco delle opinioni e delle contestazioni reciproche, pro e contro Israele, pro e contro l’opportunità di organizzare certi eventi, o di invitare certi ospiti. Ma senza mai impedire agli altri di parlare, qualsiasi cosa vogliano dire. Solo così può essere una regola generale valida per tutti e non arbitraria. Quando si esce da questo paradigma e si ammette l’arbitrarietà, non si può più dare questa libertà per garantita. Ce l’avrà chi riuscirà a prendersela. Dove la regola è generale e valida per tutti, è interesse di tutti tutelarla, perché affermarla per gli altri significa affermarla anche per sè stessi, e toglierla agli altri significa toglierla anche a sé stessi. Un perfetto esempio di quelle garanzie reciproche che in democrazia ci si scambia per poter convivere civilmente tra diversi e che l’ipocrisia di chi una volta manifesta contro la censura e una volta a favore erode.