“Però qui è una festa, siamo qui per divertirci e parlare d’altro”. Una frase che credo sia capitato a tutti di dire almeno una volta a quell’amico che cerca di spostare la conversazione sulla politica estera quando tutti hanno voglia di fare il gioco della bottiglia. Il punto è che il contesto di quello che è successo nelle scorse ore sul palco dell’Ariston, tra la finale del Festival e lo speciale di Domenica In, non è una bevuta fra amici. E il problema è che Mara Venier alla fine la baciano tutti anche senza gioco della bottiglia, nonostante non solo si sia fatta portavoce del comunicato dell’amministratore delegato Rai Roberto Sergio che esprime la solidarietà dell’emittente alle decine di ostaggi Israeliani (davvero? Anche dopo ventiduemila morti in tre mesi?), arrivato prontamente a calmare le acque paradossalmente agitate dall’appello alla pace fatto da Ghali, ma abbia anche chiaramente comunicato con il suo atteggiamento che “ok i bambini sotto i bombardamenti, ma non diciamo cose scomode durante la mia trasmissione”. È davvero difficile trattenere la rabbia di fronte alla gestione Rai dell’accaduto, che odora di provvedimento da MinCulPop orwelliano, ma la vera domanda che dovremmo farci sta a monte e riguarda il ruolo dell’artista e dell’arte all’interno della società: perché se un cantante decide di esprimere il suo pensiero sull’immigrazione, come ha fatto Dargen D’Amico (tema attinente al suo brano, fra l’altro), viene gentilmente invitato a tacere perché “non c’è tempo”, mentre il tempo per leggere il comunicato stampa dell’amministratore delegato c’è eccome? Perché si scatena una bufera del genere se un artista in gara al festival chiede il cessate il fuoco? Perché un artista che esprime un’opinione su un tema di attualità fa così paura?
Sanremo - si sa - è la sagra del divertentismo, del socialmente impegnato ma non troppo, del monologo sul femminicidio seguito dal ballo del qua qua, della pace con i nostri avi e con la naturale attitudine italiana per la baracconata, in cui qualsiasi over settantenne si trasforma nella zia simpatica, che se anche sbrocca al pranzo della domenica va baciata con affetto e ringraziata per il dolce. Se però continuiamo a ricordarci che la Rai è un servizio pubblico di informazione e non una cosa fra amici, potrebbe venirci voglia di zittire Mara Venier perché no, non è la zia simpatica con opinioni un po’ discutibili, ma una professionista che ne sta censurando un altro. La gestione di questa situazione e le aspettative della Rai nei confronti degli artisti sembrano inquietantemente aderenti a quell’ormai iconico scivolone di Giuseppe Conte in cui parlava de “i nostri artisti che ci fanno tanto divertire”: parlare di popoli bombardati non è divertente, quindi, caro artista, taci. E non che in altri ambiti dello spettacolo o in altri paesi le cose vadano meglio, perché poche settimane fa lo storico club berlinese Berghain ha cancellato lo show del dj franco-libanese Arabian Panther dopo i suoi post di sostegno e sensibilizzazione sulla situazione a Gaza (il comunicato ufficiale parla di una chiusura per lavori nel club, mentre le mail al suo booking menzionano “la gestione della comunicazione social dell’artista”: se fate un giro sul suo Instagram non serve Sherlock Holmes per risolvere il caso), mentre la Biennale itinerante Manifesta ha addirittura rimosso le opere degli artisti che parlavano della situazione palestinese dalla sua penultima edizione, accusando gli autori di antisemitismo.
Forse è il momento di riconoscere un’evidenza, ovvero che i messaggi politici nell’arte vanno bene ai contesti istituzionali solo quando non pestano i piedi agli interessi di nessuno, non danno fastidio e non destabilizzano, e che non a caso nessun esponente del cantautorato italiano anni ’70 - quando la politica con le canzoni la si faceva eccome - abbia mai messo piede a Sanremo. Dovremmo iniziare a guardare alla programmazione del Berghain, di Manifesta e, purtroppo, anche alla nostra televisione pubblica consapevoli del fatto che dire di fermare una genocidio da quei palchi costituisca un problema, ricordandoci bene quella frase di Primo Levi (uno che è difficile accusare di antisemitismo) che avverte «ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell’intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l’informazione”, e dovremmo iniziare a difendere il diritto di invocare un cessate il fuoco da qualsiasi palcoscenico, senza bacio a zia Mara.