Tre sole lettere, ma quanta mer*a che da sempre si tirano dietro, queste tre lettere. “Pop” music, tutto e niente. Pop come “pop” (e basta), mica come abbreviazione di “popular”. Che è ancora peggio, volendo, perché la popular music è una cosa seria, ma la pop music è il ricettacolo di ogni malvagità artistica. Così oggi scriviamo dei Pet Shop Boys. Neil Tennant e Chris Lowe nella pop music in quanto arte (quella espressa da Human League, la Motown, la migliore disco music, i Soft Cell, David Bowie fino a “Ziggy Stardust”, grosso modo) ci hanno sempre creduto e ci crederanno per l’eternità. Sono partiti nel 1984 con “West End girls” e oggi sono qui con “Nonetheless”, album numero quindici in studio e testimonianza ennesima che se qualcuno si ostinasse, come già accaduto, e anche solo con un commento social, a etichettare i PSB come meteore stranamente redivive (quale sarebbe stato il loro unico grande successo, visto che popolano le charts da decenni?), sbaglierebbe clamorosamente valutazione. Tipo un errore a porta spalancata.
Ma così vanno le cose. La pop music – pura, non diluita, a suo modo estrema e intransigente – pare sempre non portarsi alle spalle il peso di un passato, di un’eredità. Cosa positiva perché qualsiasi artefatto pop ambisce alla freschezza, che è qualcosa di più che mera immediatezza, ambizione e patrimonio anche di atri generi. Cosa negativa perché in sede di giudizio quel “qualcosa che non pare avere un passato” è sempre trattato con aggressiva superficialità. “Nonetheless”, che – ribadiamolo – è album serio anche se pop, suona fresco. Immediato, ma soprattutto per chi è ancorato alla sacralità della forma-canzone. Canzoni che Tennant scrive da dio (aperture melodiche di ampio respiro, versi sinuosi che fanno da perfetto preludio a ritornelli sempre azzeccati) e Lowe musica/arrangia con estremo gusto, sintetizzando (è il caso di dirlo) quarant’anni di stili e intuizioni. Scoprire oggi i PSB può essere una goduria, ti si spalancano davanti quattro decadi di limpida memorabilità, come se attraversassi la storia recente a cavallo di un purosangue. Ritrovarli, forse, è ancora più remunerativo, perché avere in mano le mappe dei territori che ci si accinge a percorrere può rendere il tutto ancora più appassionante (“Dancing star”, per dire, è New York pura, uno di quei luoghi, specie se declinati in formato anni ’80, già più volte frequentati dai PSB).
Dopo un trittico di album firmati Stuart Price (la palma del migliore se la giocano “Electric”, il primo, e “Hotspot”, l’ultimo della serie, anno 2020), “Nonetheless” suona come uno di quegli album maturi (tornano alla mente “Behaviour” o “Very”) che gioiscono con malinconia. Se il ritmo cresce e sale (“Loneliness”), non significa che ci sia solo da festeggiare. “New London boy” è reminiscenza pura: pensosa, dolce ma inquieta. Ogni brano dell’album è una gemma o quasi. Ogni brano un passaggio indiscutibilmente PSB. Ed è qui che torna, pedante ma inebriante, la serietà di una prospettiva, la serietà di una carriera smaccatamente pop e ben congegnata, singolo dopo singolo, album dopo album, scelta estetica (minimale) dopo scelta estetica (minimale). Ed è qui che torna l’intensità di ballate sospese, celesti (“A new Bohemia”) che giocano – sarebbe delittuoso il contrario – con il ricordo, il rimpianto, l’amore, “la mia vita che è un caos”. “The secret of happiness” è scarna electro-lounge per cuori solitari; “Love is the law” è un finale perentorio, a tratti gelido. Le leggi dell’amore. La professione di amare. Le trame occulte dell’amore, arte antichissima. Più antica della pop music, certo, ma un’arte che la pop music sa talvolta comunicare splendidamente. In modo cristallino. Specie se a farlo sono i Pet Shop Boys.