So che può sembrare strano, ma c’è stato un momento nel passato in cui Cindy Lauper sembrava potersela giocare alla pari con Madonna. Era lo stesso periodo in cui, pensa te, si discuteva se fosse più bello Simon Le Bon o Tony Hadley, forse qualche anno dopo. E anni dopo ancora se la sarebbero vista, che so?, Gary Barlow con Robbie Williams, molti a pensare che ce l’avrebbe fatta quello che Elio chiamerà “il bomba dei Take That”, in fondo le canzoni le scriveva lui. Le cose sembrano spesso destinate a andare in un modo, poi, zac, succede qualcosa e la vita prende un’altra forma. Intendiamoci, la storia che sto raccontando non si può certo dipingere come quella di un insuccesso, oltre sessanta milioni di copie vendute, copie vere, di quando per comprare un disco toccava uscire di casa, cercare un negozio di dischi, tirare fuori dei soldi e comprartelo davvero, non son certo bazzecole. Solo che i Simple Minds, è di loro che parlo, per un po’ sembravano destinati a essere la band più popolare del mondo, poi qualcosa è cambiato, e si sono limitati a essere delle star planetarie adorate da una intera generazione, la mia, ma niente di più (se vi sembra poco). Siamo negli anni Ottanta, quelli che ingiustamente vengono indicati come gli anni della musica vacua, di plastica, usa e getta. Anni che in realtà ci hanno regalato un mucchio di musica strepitosa, faccio qualche nome al volo, segnatevene almeno uno, the Smiths, the Cure, i Depeche Mode, i R.E.M., gli U2. Jim Kerr e soci, da Glasgow, Scozia, sono già attivi da qualche anno, si sono formati nel fatidico 1977, anni che tutti associano al punk, ma loro fanno new wave. Una new wave particolarmente melodica, la voce di Kerr in questo aiuta, e con la doppietta New Gold Dream (81-82-83-84), del 1982, e Sparkle in the Rain, 1984, trainati da singoli quali Someone Somewhere (In Summertime) e Waterfront, stanno conquistando classifiche e quindi pubblico. New Gold Dream (81-82-83-84), a parte quel titolo un po’ curioso, era stato prodotto da Peter Walsh, una certezza negli ambienti musicali. Io Peter l’ho conosciuto nel 2007, quando nello studio di Rubbiera, in Emilia, L’Esagono, ha prodotto La quinta stagione di Cristina Donà. Non credo sia un caso che proprio in quel lavoro sia presente Universo, universalmente riconosciuta come la migliore canzone di Nostra Signora del Rock italiano. Torniamo a parlare dei Simple Minds.
Arriva il 1985, e di doppietta ne arriva un’altra, potentissima. Prima la band incide un brano non scritto da loro, destinato a diventane parte della colonna sonora del film Breakfast Club, ricordato ormai quasi solo per la musica che ha veicolato, la canzone si intitola Don’t You (Forget About Me), da loro sempre poco apprezzata, ma presenza fissa in scaletta, visto il grande successo avuto sin da subito, poi il fortunato album Once Upon a Time, trainato dal mega successo Alive and Kicking. Una consacrazione, che proietta gli scozzesi nell’Empireo, non più solo band culto per chi segue il rock, ripeto è una stagione floridissima, ma anche di chi segue il pop. Io, come tutti quelli che ai tempi erano ragazzini, li conosco attraverso Deejay Televion, ma è poi un mio amico, nonché vicino di casa, ormai ex vicino di casa, Paolo Bartola, a farmeli amare. A lungo sarà lui, Paolo, a passarmi la musica migliore, almeno finché non cambierò casa. A quel punto, cambiato quartiere come un Ivano Fossati ormai classico, sarà Stefano Renzi, un altro mio amico con cui passavo le giornate a giocare a Subbuteo, d’inverno, e calcio, dalla primavera in poi, a introdurmi a altra musica, lui più vicino a certo rock americano, i R.e.m, i Dream Syndicate, Guadalcanal Diary. Sarà lui a farmi conoscere gli U2, ricordo ancora il suo entusiasmo a riguardo, lui, patitissimo di calcio, a lasciare il campetto dell’oratorio di San Francesco alle Scale per andare a seguire in Tv il Live Aid. Ecco. Gli U2 saranno Madonna per Cindy Lauper per i Simple Minds, neanche troppi mesi dopo, il tempo di tirare fuori The Joshua Tree giusto un paio di anni dopo, nel 1987. Tornando a loro, i Simple Minds, nel 1985 erano popstar assolute, e lui, Jim Kerr, era il leader indiscusso della band, uno che stava con Chrissie Hynde dei Pretenders, mica chiacchiere, e che di lì a breve si sarebbe sposato con Patsy Kensit degli Eight Wonder, da noi più che altro famoso per aver mostrato una tettina in eurovisione ospite al Festival di Sanremo del 1987 e per aver duettato con Eros Ramazzotti in una improbabile La luce buona delle stelle, nel medesimo anno. Una delle band più rilevanti di questo quarto di secolo, il Novecento. Vorrei dire che sto pensando al Novecento, e all’apporto che gli anni Ottanta hanno dato alla sua cultura popolare, mentre parcheggio la macchina al Park A del Forum di Assago in questo sabato sera che mi vedrà tra i diecimila accorsi al concerto dei Simple Minds. Ma invece sto pensando che quando loro, nel 1985, erano al top io facevo le superiori, la quinta ginnasio, a occhio, mentre oggi sono un critico musicale, fatto che mi agevola almeno per quel che riguarda arrivare fin qui in auto senza dover fare la fila al parcheggio pubblico. Penso a questo e a Paolo e Stefano che mi hanno fatto conoscere prima i Simple Minds e poi gli U2, aprendomi a un mondo dal quale avrei poi faticato a staccarmi, infatti stasera sono qui.
Peraltro, vedi tu come si dipanano certi pensieri, io Chrissie Hynde l’ho vista una sola volta dal vivo, Patsy Kensit mai, lei che dopo di Jim Kerr si è sposata con uno dei fratelli Gallagher, non ricordo quale. L’ho vista, ironia della sorte, proprio durante il tour di The Joshua Tree, nel secondo dei concerti che gli U2 hanno tenuto a Modena nel maggio del 1987, a aprire, prima dei Pretendes, i Lione Justice di Maria McKee, e i Big Audio Dynamite di Mick Jones, ex chitarrista dei Clash. In quell’occasione, mi sono già trovato a raccontarlo in passato, ero sul prato dello stadio Braglia, a due passi dal palco, ho assistito prima al pubblico che provava a spogliare con gli occhi Maria McKee, spavalda col piede sull’amplificatore, la gonna corta in balia del vento, a fronteggiare una folla che le faceva il gesto della figa con le dita, pollici e indici a toccarsi, poi, un po’ meno vicino, sollevato letteralmente da terra dal flusso di persone che si muoveva, ho visto proprio Chrissie Hynde rispondere ai medesimi gesti infilandosi letteralmente il microfono tra le gambe, come fosse uno strap-on, più esperta e smaliziata della collega, infine ho assistito al concerto degli U2 da una ventina di metri di distanza, incapace di avvicinarmi quanto avrei voluto, la sera precedente, nella prima delle due tappe modenesi. Qui Bono aveva invitato uno spettatore a salire sul palco a suonare con lui, non ricordo che brano, e io contavo di fare lo stesso, povero ingenuo di provincia che non ero altro... E poi in quella seconda serata, per non ripetersi, Bono inviterà una ragazza a ballare un lento con lui, mentre la band suonava, anche qui non ricordo cosa, mi sarebbe comunque andata male anche se la calca non mi avesse allontanato dal palco. Tanto per dire che qualcosa ho studiato anche di mio, a parte i suggerimenti a suo tempo di Paolo e Stefano, Chrissie Hynde è stata introdotta al mondo del rock inglese, lei che era americana, di Arkon, Ohio, dal critico più punk di tutti, Nick Kent, suo fidanzato a inizio anni Settanta. Tra lui e Jim Kerr, per la cronaca, anche Ray Davies dei Kinks, altra band inglese composta da due fratelli che se le sono sempre date di santa ragione, come gli Oasis di Patsy Kensit, Patsy Kensit che a sua volta era stata sposata di prime nozze con Dan Donovan dei Big Audio Dynamite, il mondo è proprio piccolo, specie quello del rock britannico. Sempre per la cronaca, prima del rock suonato e cantato, Chrissie avrà un passaggio per la redazione del Nme, come giornalista musicale, e uno anche come commessa da Sex, negozio di vestiti sadomaso di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren, in King’s Road, a Londra, negozio intorno al quale nascerà il progetto Sex Pistols, proprio in quel 1977 in cui nascevano anche i Simple Minds, a Glasgow, Scozia. Chi di voi avesse visto la brutta serie Pistol, ai Sex Pistols dedicata e diretta dal Danny Boyle di Trainspotting, saprà che lei, Chrissie, ha avuto una storia anche con Steve Jones, dalla cui autobiografia Lonely Boy ha tratto tutte le informazioni per la sua storia, e saprà anche che lei. Chrissie, ha avuto un ruolo pure nella storia della band, seppur si sia poi trovata a dare una versione un po’ diversa da quella del chitarrista, sbolognando il tutto con un “Si, ricordo che una volta abbiamo scopa*o”. Tornando a quel fatidico 1985, annus mirabilis per i Simple Minds, la consacrazione mondiale avverrà sul palco del Phiadelphia Stadium, a luglio, con la partecipazione al Live Aid organizzato da Bob Geldof, la band era stata assente dal progetto che l’ex Boomtown Rats aveva messo su con Midge Ure degli Ultravox, Band Aid e il brano benefico Do They Know (It’s Christmas Time)?, evento cui avevano preso parte eccezionalmente anche i Pretenders, eccezionalmente perché quell’anno Chrissie Hynde partorirà la figlia Yasmin Paris, i due si erano sposati l’anno precedente.
Mentre con mia moglie Marina andiamo incontro al cantautore Paolo Marrone, che ci ha invitato al concerto, intenzionati poi a farci un aperitivo, in attesa che il concerto abbia inizio, ragiono fugacemente sul ruolo che Glasgow ha avuto nella storia del rock. Un ruolo decisamente centrale, secondo solo a Londra, forse in coppia con Manchester, tante le realtà che negli anni da lì sono partite per conquistare il mondo, dai Teenage Fanclub ai Gan, dagli Aztec Camera ai Franz Ferdinand, di Primal Scream ai Jesus and Mary Chain, dai Del Amitri ai Travis, dai Belle and Sebastian ai Deacon Blue, dai Mogwai ai the Fratellis, partendo proprio dai Simple Minds. Niente a che vedere con Dublino, che però ha partorito gli U2, la band che ha scippato a Jim Kerr e soci lo scettro in quel volgere degli anni Ottanta, in qualche modo cristallizzandoli in quel decennio. Un decennio che ha visto la totalità dei presenti al Forum di Assago oggi nei panni dei teenager, è evidente, età media di stasera tra i cinquanta e i sessanta, forse più sessanta che cinquanta, tutti fintamente non nostalgici, gente che la sa lunga, se invece che andare a qualche evento della Design Week ha scelto di essere qui, la speranza di ricordarsi buona parte del repertorio di Kerr e soci, e chissà chi ancora è nella Line up originale dopo tutti questi anni, serbato nel cuore. Bere un Negroni sbagliato dopo aver superato uno stuolo di coetanei o gente più vecchia di me, io che ormai quando le rare volte che vado a eventi musicali per lavoro ho intorno solo bimbiminkia che fanno storie e reel con lo smartphone, vedi alla voce influencer, fa uno strano effetto, tanto più se si considera che appunto il Salone del mobile offriva oggi un sacco di alternative anche per i boomer. Non fa invece uno strano effetto, anzi era del tutto prevedibile, il dolore alle articolazioni dovuto all’aver passato la mattinata a cancellare le macchie di vernice marrone dal balcone dove ho ridipinto un paio di poltrone e un tavolino d esterno a suon di acquaragia e Cif, oltre che di quello che un tempo avrebbero chiamato olio di gomito, sono pur sempre un quasi cinquantacinquenne che ha votato la sua vita alla parola, non certo al lavoro fisico. Siamo in una lounge che si trova sopra gli spalti, dietro una vetrata che ci offre una bella visuale del Forum, che nel mentre si sta riempiendo. Sempre parte dei benefit di essere critici musicali, ovviamente, ma soprattutto critici musicali amici di gente che lavora qui. Mentre beviamo e chiacchieriamo stanno suonando i Del Amitri, band che lo stesso ho conosciuto a suo tempo, per merito di Stefano, sempre lui. Mi isolo per ascoltarli, facendo quel tipo di viaggio nel passato che solo la musica, credo, e forse i biscottini, se si è Proust, è in grado di offrirci. Da quassù non riesco a vedere quanti membri della band originale sono ancora tra noi, ma il tiro ce l’hanno sempre. Loro, forse per quel nome buffo, Del Amitri, sono sempre stati tra i miei preferiti. Bella sorpresa. Scendiamo, e scopriamo di avere un balconcino tutto per noi, dove per noi intendo questo piccolo gruppetto che si è creato intorno al nostro ospite, Paolo Morrone, cantante dalla gran voce e gran simpatia. Ci siamo io e Marina, già detto, lui, ovviamente, e poi Pippo Kaballà, che mi dice che proprio ieri è uscito il nuovo album di Mario Venuti, con cui ancora una volta ha scritto tutte le canzoni, titolo Tra la carne e il cielo, come dice lui dal titolo “pasoliniano”, e poi Renzo Chiesa e sua moglie, fotografo di lungo corso, cui, per intendersi, si deve la copertina, tra le altre, del disco Dalla, quello che mostra una porzione del viso di Lucio, gli occhi, la coppola con su i caratteristici occhialini tondi, per altro ci farà dono proprio di un libro fotografico che raccoglie parte delle sue opere e una t-shirt con quella copertina, e poi Sergio Sgrilli e sua moglie, Sergio Sgrilli che mi dice che prossimamente presenterà un nuovo inatteso testo di Sandro Luporini, storica firma di tutti i testi di Gaber, sia lato canzoni che lato teatro, dal titolo Lo stallo. Siamo in una saletta interna, con cose da mangiare e da bere. Chiacchieriamo. Poi di colpo si alza un boato, stranamente non stentato, vista l’età media degli astanti.
Il Forum si è fatto buio, lo spettacolo sta per cominciare. Una scaletta affilata, con buona parte delle canzoni più famose, a memoria mancava solo Biko, mentre erano presenti sia Mandela Day, eseguita per terza, sia Alive and Kicking, uno dei due bis, assetti dalla scaletta che girava prima del concerto. Jim Kerr salta, si inginocchia, fa quei gesti che gli ricordavo fare sin da quando appariva nei video dentro la mia televisione, ai tempi di Deejay Television, televisione in bianco e nero, mi gioco anche io la carta pasoliniana, quella a colori arriverà in casa Monina solo nel Novanta, per i Mondiali di calcio. In realtà dichiarerà quasi subito di avere problemi fisici, prima parlerà, in italiano, lui vive a Taormina da tempo, di aver mal di schiena, ma credo fosse ironico, viste le evoluzioni da ginnasta che sta facendo, poi ci racconterà di essere influenzato e quindi giù di voce. Dirà qualcosa, “Devo darvi una buona notizia e una cattiva notizia. La buona notizia è che la band suona da paura, la cattiva è che io canto di merda”. Se inizialmente la cosa non si noterà, poi, in effetti, lo vedremo faticare, al punto che la scaletta, non troppo lunga, presenta alcuni pit-stop studiati apposta per lui. Un paio di brani strumentali, un solo di batteria, della giovanissima e bellissima batterista Cherisse Osei, il primo dei bis eseguito in solo dalla corista, Sarah Brown, una soulissima Book of Brillant Things. Della line up originale, appunto, ci sono solo lui, Jim Kerr, e il chitarrista Charlie Burchill, e la scaletta, va sottolineato, è tutta incentrata, o quasi, nel periodo che ruota intorno agli anni Ottanta, la loro Golden Age. Il concerto, però, malanni a parte, fila via che è un piacere, con la gente che canta in coro, si alza quando arrivano i brani più amati, e su Don’t You (Forget About Me) e poi nella finale Alive and Kicking, dà vita a un coro su quei caratteristici la-la-là che sarebbero potuti andare avanti per ore. Uno dei momenti più toccanti, con Belfast Child, coincide anche con la prova più faticosa, vocalmente, per il frontman, che chiede scusa a metà di una strofa, confortato dall’applauso di tutti noi presenti. Tra un “minchia” e un “forza ragazzi”, detti così, in italiano, si arriva alla fine, tutti soddisfatti. Un gran concerto, che sprizza vitalità e ci ha regalato ottima musica, il confronto con gli U2, ovviamente presente per certe sonorità piuttosto simili, in parte del repertorio, specie quello iniziale, fugato proprio dalla presenza scenica di Kerr, che nulla ha da invidiare al Bono più gigione. Finito, mentre la gente lentamente scivola verso l’uscita, senza fretta, il concerto finisce alle ventidue e trenta, un’ora e venticinque di durata, come in effetti dovrebbe sempre essere, direbbe il secondo marito di Patsy Kensit Liam Gallagher, ci fermiamo a chiacchierare nel parcheggio del Forum, prevalentemente del signor Giannasi, quello dei Polli Giannasi che si trovano in piazza Buozzi. Scopriamo così, dalla acuta e vivace voce di Kaballà, che oltre a aver scritto i testi di Mario Venuti, e quelli di tanti altri, da Eros a Antonella Ruggiero, passando per l’ultima Anna Oxa, è a suo nome autore di almeno un paio di album di world music di tutto rispetto, che il titolare della polleria in questione, la più nota di Milano, è tale Dorando Giannasi, e come avrei mai potuto non citare uno che si chiama Dorando, imprenditore che dal 1967 opera in zona Porta Romana, dove si presenta spesso vestito in doppiopetto, con Borsalino bianco in testa, bastone con testa di levriero incastonato e varie e eventuali. Una sorta di personaggio di un film di Scorsese che, nei racconti di Kaballà, diventa di volta in volta, vestito con un cappotto di cammello, con un cashimire bianco, con un completo di tweed, con un principe di Galles, come se fosse cangiante, il momento in cui ha chiesto di abbattere il platano secolare che minacciava il suo negozio, l’abbattimento del quale ci è stato raccontato nei minimi dettagli, avrebbe meritato un articolo a parte, forse una docuserie su Netflix.
Da tempo si ragiona sul futuro della musica e una delle ipotesi più probabili è che col tempo questa faccenda della gratuità dello streaming, perché così la musica è gratis, diciamolo, contrapposta all’eccessiva proposta di grandi eventi dal vivo che spesso, quando a animarli sono coloro che con lo streaming fanno numeri pazzeschi, si rivelano dei flop, salvo pochi riconoscibili casi, porterà verso una sorta di doppio binario. Da una parte chi ascolta la musica con gli smartphone, un brano al mese, tanti featuring, poca qualità e tanti numeri, dall’altra chi ha costruito o costruisce un repertorio alla vecchia maniera, e poi quel repertorio va a proporlo con costanza dal vivo, in giro per il mondo, magari anche a prezzi non alla portata di tutti, ma comunque giustificando l’investimento con la resa. Un doppio binario che, come direbbe Enrico Ruggeri, che se non fosse in giro a sua volta a suonare oggi sarebbe indubbiamente stato dei nostri, che fa venire in mente quel che accadeva alla musica classica un tempo, l’uscita di cofanetti celebrativi, di versioni destinate a un pubblico di elite, guarda esattamente in quella direzione. In fondo chi oggi era al Forum ha una età tale da indicare, a grandi linee, un profilo di adulto che lavora, quindi che può spendere, più o meno, la gratuità non dovrebbe far parte del suo approccio alla musica, e se proprio la vede così stasera se ne sarebbe presumibilmente stato in centro in visita a una delle tantissime situazioni gratuite che il Salone del Mobile ha regalato a Milano questa settimana. Arriva il momento di salutarci, e di salutarvi. A pranzo, oggi, per l’ennesima volta, io e mia moglie siamo rimasti perplessi di fronte alla pubblicità che passa su La7 di pannoloni contro l’incontinenza maschile. Non legati alla terza età, attenzione, quanto più alla mezza età, una pubblicità che mostra un uomo che potrebbe essere mio coetaneo, che indossa un pannolone, a stento coperto da un paio di improbabili boxer blu, il rumore di un acquario a stimolargli evidentemente di rendere sensata la presenza di quel pannolone. Guardandolo, ogni volta, oltre a rimanere perplesso, ancor più perplesso dal fatto che questo spot vada a nastro durante le ore dei pasti, il pensiero mio corre a un pezzo comico di una stand-up comedian che si chiama, credo, Giorgia Fumo, o qualcosa del genere. Una comica che parla della differenza tra i boomer e chi boomer non è, lei credo abbia intorno a quarant’anni, quindi è una Generazione X, tecnicamente come me. Parla di come un tempo, aprendo la tv, c’era Tonino Guerra che parlava di ottimismo con tale Gianni, Farinetti di Eataly, per altro, ai tempi di Unieuro, mentre oggi è tutto uno spot di emicranie a grappoli, prostatiti e affini. Vero. Verissimo. Guardandomi intorno, mentre raggiungiamo la macchina, la gente che scema lentamente verso le auto nel parcheggio pubblico o verso il ponte che porta alla metropolitana, il Forum oggi era pieno in ogni ordine e grado, mi viene da pensare che solo una generazione cresciuta sotto il segno dell’ottimismo avrebbe potuto concepire un pop rock così melodico e enfatico come i Simple Minds, così epico a suo modo. Mi viene anche da chiedermi se tra i diecimila presenti, età media la mia, quasi cinquantacinque anni, ci sarà qualcuno con indosso quel pannolone per l’incontinenza maschile, l’ottimismo, come diceva Guerra, sarà sì il sale della vita, ma fare la fila al bagno del Forum, immagino, è una gran rottura di cogl*oni, specie se nel mentre corri il rischio di perderti un qualche classico dei Simple Minds. Credo comunque, che tutti voi dovreste essermi grati per non aver fatto nessun gioco di parole tra la loro performance e la conclusiva Alive and Kicking, non che voglia farvelo pesare troppo, ma stava lì, a portata di mano, e ho preferito non abusarne.