Nella mia carriera di scrittore ho pubblicato con un numero abbastanza incredibile di editori. Incredibile perché (sono piuttosto pragmatico e laico nel guardare a quel che faccio, non lasciatevi ingannare da quel che spesso faccio dire o fare al mio avatar) non vengo percepito, almeno dal pubblico, come uno scrittore di successo. Sono uno che si occupa prevalentemente di musica, sicuramente eccentrico, che scrive strano. Nei fatti ho pubblicato a mio nome novantadue libri, vendendone anche parecchi, tanti da continuare a ricevere proposte di pubblicazione, ho vissuto esperienze bizzarre quali finire primo in classifica, più di una volta, sono stato un caso letterario in luoghi nei quali non ho mai messo piede, molto lontano da qui, alcuni di quei testi hanno avuto svariate edizioni, insomma, pur non apparendo tale, ho una carriera da scrittore decisamente soddisfacente. Certo, ho iniziato inseguendo il sogno di diventare una narratore, parlo di un narratore di professione, cioè uno che campa scrivendo romanzi o raccolte di racconti, poi nel corso degli anni ho aggiustato il tiro, complice l’aver passato qualche anno a scrivere libri per altri, facendo cioè il ghost writer, quello che un tempo si chiamava “neg*o”, e complice anche aver dato una lingua italiana ad alcuni autori americani, ho anche tradotto svariati libri, ma alla fin fine oggi scrivo di quel che mi piace, con lo stile che voglio, senza il problema di dover star lì a dire se io stia facendo narrativa, saggistica, varia, scrivo e di questo campo. Di questo e di quel che l’essere uno scrittore attivo principalmente nel settore musicale, quindi uno scrittore e un critico musicale, mi permette e consente di fare, videocast, radio, tv, teatro, anche cinema, toh, ho anche scritto canzoni, pubblicato un disco. In tutti questi anni, però, c’è solo un mio libro che non ha trovato spazio presso nessun editore, un libro che partiva con grandi ambizioni e che forse proprio per quelle grandi ambizioni è rimasto fermo al palo, pagato addirittura per ben due volte da editori che, però, all’ultimo, hanno deciso di tornare sui propri passi e non pubblicarlo. Partivo da un paio di considerazione, evidentemente sbagliate. No, ecco, forse sbagliate proprio no, comunque discutibili, perché pretendevano che chiunque non fosse me, che avevo avuto quell’idea, capisse esattamente cosa avessi in mente, e lo condividesse, senza tener in conto l’opinione degli altri, e soprattutto senza tenere conto che magari non tutti avevano esattamente fatto i miei medesimi passaggi logici per poter approdare a quella decisione.
Insomma, senza girarci troppo intorno, perché anche questo mio girare in tondo pur di non arrivare al punto, in fondo, attesta che poi così sicuro non lo sono, metteteci pure che poi il libro in questione non è in effetti mai stato pubblicato, comunque, senza girarci troppo intorno, anni fa ho scritto Il libro nero del pop italiano. Libro che è stato anche intitolato Pop Babilonia, perché da Rock Babilonia, e ancor prima da Hollywood Babilonia, vera e propria Bibbia cinematografica scritta da quel pazzo eversivo di Kenneth Anger, muoveva i suoi passi. Un libro, dai chiari intenti narrativi, questo forse il mio primo errore, che metteva in scena tutta una serie di voci, leggende metropolitane, rumor, chiamatele come volete, che riguardavano artisti di chiarissima fama del pop italiano. Voci quasi sempre malevole, piccanti, feroci, anche, che tiravano in ballo azioni che se confermate, e ovviamente non lo erano, erano voci, appunto, avrebbero potuto avere conseguenze legali, sicuramente avrebbero portato a una messa al bando dei protagonisti. Voci che (sono uno scrittore, ma opero nel mondo della musica da che praticamente scrivo) avevo raccolto negli anni, consapevole che fossero appunto voci, quasi sempre inventate, gossip spesso maligni, atti a ferire i protagonisti, e che nella mia visione, grazie proprio al fatto di essere scritte, e di essere scritte come storie, narrazioni, avrebbero perso quell’aura da leggenda metropolitana, finendo per essere racconti di narrativa. È noto, credo, che la narrativa può permettersi cose che la vita non potrebbe mai rendere reali. Lo diceva bene Stefano Benni una vita fa, io adesso potrei scrivere che irrompono in scena centinaia di elefanti, ma nella vita reale sto scrivendo in sala, in casa mia, al settimo piano di una zona semicentrale di Milano, centinaia di elefanti non ci sono, e anche ci fossero non potrebbero mai irrompere in scena, perché sto al settimo piano di un palazzo. Rendere una storia vera narrativa, così la pensavo e così la penso, non la rende più reale, anche se io scrivessi in una lingua e uno stile che miri al realismo, la rende appunto narrativa, scritta, e la scrittura è per sua natura mediazione, finzione, il punto di vista di chi racconta a dare di volta in volta una prospettiva che la vita non offre, mai e poi mai. Un modo, credevo, e credo ancora, per disinnescare quelle voci. Certo, agli editori che io intendessi disinnescare quelle voci non l’ho mai detto, e loro non hanno certo letto incuriositi il mio scritto, pensando a questo. Pensavano, a ragione, che un libro che mettesse in pagina racconti piccanti su nomi famosi avrebbe fatto il botto, perché la gente è assetata di gossip. È assetata, più che altro, del desiderio di accedere a qualche luogo segreto della vita di chi segue, di chi ammira da lontano, non avendo appunto accesso a quei luoghi nascosti. Io, lo dico chiaramente, in tanti e tanti anni di frequentazione di quel luogo, di storie vere su artisti famosi ne ho conosciute tante, in alcuni casi ne sono stato anche testimone diretto. Essere un critico musicale, certo, ma anche uno scrittore, anzi, soprattutto uno scrittore, mi ha quasi sempre posto in una condizione, parlo per me, di non sudditanza psicologica nei confronti degli artisti, che ho sempre trattato da pari, e al tempo stesso, forse il mio essere scrittore, o questa assenza di remissività, ha fatto sì che da pari a pari venissi trattato. Quindi, tra pari, mi è capitato di assistere, o sentire di prima mano, storie che in un libro del genere potrebbero detonare, più che fungere di disinnesco. Ma nel libro avevo messo trentatré storie e mezzo, come i giri dei vecchi vinili, che erano appunto leggende metropolitane. Facendo nomi. Mettendo date.
Gli editori, che inizialmente erano attratti dalle potenzialità di questo libro, si sono poi ritirati per questioni legali, perché, dicevano, la natura spuria dell’opera, e il fatto che io facessi nomi, quindi, rendeva quell’oggetto passibile di non so quante querele, credo almeno una a capitolo, ma forse anche di più. Il fatto che molti dei protagonisti fossero nel tempo diventati miei amici, in alcuni casi miei cari amici, rendeva il tutto ancora più delicato, come se io di colpo fossi impazzito e avessi voluto fare del male a persone che frequento, non solo per ragioni professionali. Il fatto è, torno a me, che la natura di questo libro mi era chiarissima, e partiva proprio da quanto detto sopra: un libro, anche un libro che metta su pagina fatti di cronaca, è per sua natura una pratica di finzione. Poi può essere una finzione che vuole indicare una verità, ma la finzione è parte stessa della scrittura. L’io che scrive, quello che sta scrivendo anche queste parole che state leggendo, mica è un caso che sono passato a usare una neutralissima terza persona, è un io diverso da me stesso, e nello scriverlo anche il me stesso che sto tirando per la giacchetta è diverso dal vero me stesso, e qui entriamo in un loop. Sono in ciabatte, in sala, le finestre socchiuse fanno entrare i rumori di una betoniera che impasta cemento sette piani più sotto. Vi tocca fidarvi di quel che dico, però vi sto raccontando di come da anni io frequenti quello che, fossi un Truman Capote, chiamerei il jet set del pop italiano. Lo sapete già, forse, perché ne parlo spesso, e non sono solo io a parlarne, ci sono video, foto, racconti, libri appunto, che dicono come io sia amico di certe popstar e rockstar di casa nostra, al punto che chi mi insulta spesso ricorre alla formula “parli bene solo dei tuoi amici”, come a volermi sminuire, contribuendo invece ad alimentare l’ego del mio avatar. Ecco, avatar, questa è la parola giusta. Sono in ciabatte e tuta da ginnastica a scrivere in casa, mentre il mio avatar è vestito di pelle, i capelli lunghi, gli occhiali rosa, e magari se ne sta in compagnia di Tizio o Caio, sostituite voi i nomi di Tizio e Caio con chi pensiate siano le popstar e rockstar che sono mie amiche. Io in ciabatte, io nel jet set. Ecco, io partivo da questa semplicissima immagine qui. La traslavo dentro un libro. E traslandola davo vita a una implosione. Come dire, tutto quello che state leggendo è falso, anche questa affermazione. Frase vagamente alla Inception che era per altro scritta in bella vista nel mio terzo romanzo, nel quale, ahimé, avevo deciso di fare la stessa cosa con la mia vita, andando a rendere narrativa una serie di fatti e avvenimenti che erano capitati a me, ai miei cari, ai miei amici, dando per assodato che loro, i miei cari, i miei amici, come me sapessero che la scrittura era finzione, e non solo non si sarebbero offesi per come io prendevo fatti veri e li distorcevo, a uso narrativo, ma anche non distorcendoli davo loro un significato diverso da come loro e io stesso li avevamo vissuti. Nei fatti, ai tempi, si incazzarono tutti, e probabilmente, se Il libro nero del pop italiano dovesse mai venire pubblicato si incazzerebbero tutti anche gli amici attuali, figuriamoci quelli che amici non sono, di cui apparentemente parlo.
Finirei quindi in tribunale, indubbiamente, e quindi in disgrazia, perché se non capirebbero cosa sto facendo loro, che sono artisti e che con quella mediazione che l’arte prevede dovrebbero essere abituati a fare i conti ogni giorno, mica ci vorranno far credere che tutto quello che dicono a nome di un “io” sia vero, figuriamoci se potrebbero mai capirlo giudici e legali, e finirei in disgrazia anche nel mondo che negli anni è diventato il mio mondo professionale, quello dell’editoria, certo, ma editoria che ruota intorno al mondo della musica, dove verrei trattato come un paria, un traditore, un pazzo furioso da tenere alla larga (ruolo che in qualche modo, ciclicamente, mi sono trovato a interpretare, quando ho deciso di raccontare, sempre in quella forma narrativa di cui sopra, fatti relativi al sistema musica, sempre facendo nomi e cognomi, e venendo preso sempre molto sul serio). Per un attimo mi è balenata l’idea di applicare a quel testo, che comunque trovo interessante ancora oggi, dopo circa quindici anni da che l’ho scritto, degli omissis, facendone al tempo stesso un libro e un’opera d’arte, Emilio Isgrò ai tempi neanche lo conoscevo, ma la potenza del nascondere mi era già ben chiara, solo che ne sarebbero risultate intere pagine nere, un dispendio economico per chi mai avesse voluto stamparlo. Del resto, vai a capire se quello che sto scrivendo è vero o a sua volta mediazione, finzione, esagerazione, il fatto stesso che io sia entrato in questo mondo, andando anche a occupare un ruolo riconoscibile, preciso, è parte di un racconto che trovo, a volte, incredibile. Anche questo l’ho raccontato, una specie di grandissima truffa del rock’n’roll portata avanti per anni e anni. Aver raccontato di essere un dj e un ex chitarrista punk, quando ai tempi ho iniziato a scrivere di musica, mi ha aperto le porte per diventare un critico musicale, al punto che oggi è quella la parte del mio lavoro più facile da raccontare, sono un critico musicale. Ma non sono mai stato un dj, semmai uno speaker radiofonico, e l’essere un critico musicale ha fatto sì che io potessi portare dentro il principale network radiofonico italiano, Rtl 102,5, due format come L’Anticonformista, prima, e Monina Against the Machine, poi, altro che chiacchiere, e soprattutto la band punk nella quale ho sì militato, gli Epicentro, non sono mai stati più che una band di provincia, anche se l’aver raccontato di averne fatto parte mi ha portato, ormai una vita fa, a iniziare la mia carriera di critico andando a intervistare gente come Trent Reznor, John Frusciante dei Red Hot Chili Peppers, Beck. Finzione, appunto, finzione letteraria che però mi sembra tutti prendano tragicamente sul serio.
Per questo, non solo per questo ma anche per questo, attendo con grande curiosità di vedermi la seconda stagione di Feud, stavolta dal titolo Feud: Capote vs The Swans, serie ideata da Ryan Murphy che dopo aver raccontato gli epici scazzi tra Bettie Davis e Joan Crawford, in questa seconda stagione racconta le vicende che ai tempi finirono nel libro postumo Preghiere esaudite, libro eversivo dell’autore di A sangue freddo che raccontava il proprio rapporto con le donne del jet-set newyorchese. Una serie che vede una a fianco all’altra star quali Demi Moore, Naomi Watts, Chloe Sevigny, Tom Hollander, Diane Lane, Calista Flockhart e Molly Ringwald, non esattamente gente di passaggio. La serie è stata scritta da Jon Robin Baitz, candidato al Pulitzer e ai Tony Award, e le otto puntate sono dirette da Gus Van Sant. Il tutto ispirato dal libro di Laurence Leamer Capote’s women: a true story of love, betrayal and a swan song for an era, ma è evidente come sia il Preghiere esaudite di Truman Capote ad aver fornito tutta la carne pulsante di questa storia. Il libro, Preghiere esaudite, nei fatti, uscì postumo, ma l’eco di quel che ci era dentro fu talmente potente da fare danni anche prima che il tomo finisse in libreria, con liti furibonde, divorzi, suicidi e scandali a profusione. Anche lì, era letteratura, Capote per quanto avesse avuto un successo clamoroso con il reportage A sangue freddo è sempre stato un grande narratore, non certo un cronista, ma questi sembrano sempre distinguo poetici, incomprensibili ai più. Comunque, se mai prima o poi mi decidessi, e con me un editore votato al fallimento o al darsi alla macchia, di pubblicare quel libro, magari aggiornato, oggi che i trentatré giri non esistono più potrei serenamente allargare il racconto, ho già la foto per la copertina. Ne ho molte a tema, con praticamente quasi tutti i personaggi di cui parlo, ma ne ho molte di più, in tempi di smartphone ho più foto degli ultimi mesi di quante non ne abbia dei miei primi vent’anni. Una però è particolarmente coerente col tutto. Ritrae un me stesso giovane, in camicia bianca, che ballo con un cocktail in mano, di fianco a una altrettanto più giovane Ambra Angiolini, durante il party finale del programma Stasera Niente Mtv, di cui eravamo autori, io capoprogetto, lei starlette. C’è una foto famosa di Capote che balla con Marylin Monroe, a ognuno il gotha che si merita, signora mia.