Nella città ci annoiamo, non c’è più il tempio del Sole. Partirei da qui. Partendo da qui, a occhio, le cose non potranno che migliorare. Perché si parla di noia, in città, e di una assenza, o meglio una mancanza, un vuoto che prima era presenza e ora assenza, e perché, più in generale, gioca con una citazione colta, coltissima, dal testo Écrits retrouvés par Ivan Chtcheglov di Jean-Marie Apostolidès e Boris Donné, testo che non ho letto, ma trovato citato in Accelerazione di Edmund Berger, riguardo il passaggio anche violento dal Dada all’Internazionale Situazionista. Il fatto è che sì, in città ci annoiamo, è un sabato pomeriggio di dicembre, fuori tira un vento forte che ha reso l’aria cristallina, ma anche tagliente come certi fogli quando li maneggiamo con poca attenzione, e sì, il tempio del sole è sparito da tempo, decisamente da prima che io arrivassi in zona, ventisei anni fa, sostituito prudentemente dal Concilio dei Santi, in San Babila. Ci si annoia, noi umani, mentre nel cielo, incuranti del freddo e del vento forte, volteggiano centinaia, forse migliaia di stormi, lì a disegnare traiettorie inintellegibili al nostro sguardo, immagino in attesa di andare altrove, come in quella canzone di Morgan. Sul tablet, che quotidianamente accompagna le mie sessioni di scrittura scorrono le immagini già viste di Truman Capote-A sangue freddo, scelta d’obbligo dopo aver visto il documentario The Capote Tapes, diretto da Ebs Burnough, basato su filmati d’epoca e interviste a noi contemporanee, come quella a Jay McInerney, del 2019 (Truman Capote-A sangue freddo, che racconta di come Truman Capote ha scritto il libro che regala al film metà del titolo, con un gicantesco Philip Seymour Hoffman nei panni dello scrittore americano, è invece del 2005, ma la cosa è poco rilevante ai fini di quanto sto scrivendo). In genere le mie sessioni di scrittura, giornaliere, weekend compresi, sono accompagnate dalla visione di serie Tv o di film, attraverso una delle tante piattaforme che la contemporaneità ci ha messo a disposizione. Quasi mai scrivo con la musica come sottofondo, perché la musica mi distrarrebbe, quando la ascolto è l’ascolto la mia sola attività. Scrivere col tablet che manda in scena serie Tv o film, invece, mi permette di stare concentrato su quello che scrivo, al punto che spesso mi capita di decidere di accompagnare una sessione con una serie che credo di non aver visto, salvo poi scoprire che ne ho viste magari anche sei o sette stagioni, visione che non ha lasciato in me alcun segno o alcuna memoria. Sul tavolo, alla mia sinistra, sono appoggiato sul tavolo della sala, essendo da tempo lo studio diventato terreno di mia moglie Marina, che dal Covid in poi passa parte della settimana lavorativa in smart working e che ha la necessità di fare di continuo call o telefonate, fatto che esclude categoricamente che io possa nel mentre stare seduto nell’altra scrivania, il nostro studio ne presenta due, ma figuriamoci, se mi distrae un disco, quanto mai potrebbe distrarmi la voce di mia moglie che parla di cose sue di lavoro? Sul tavolo alla mia sinistra, oltre al già menzionato tablet, posto su uno di quei gingilli di metallo atti a sorreggere i tablet, una serie di libri che sto consultando metodicamente per i miei studi, passo in genere le giornate non solo scrivendo o passando tempo al telefono, parlando e organizzando, ma anche studiando, come fossi ancora ai tempi della scuola. Adesso, se sposto lo sguardo a sinistra, e posso farlo continuando a digitare sulla tastiera le parole che state leggendo, dal momento che non necessito di guardare la tastiera per scrivere, vedo in una piccola pila le versioni Urania dei romanzi di Douglas Adams della saga di Arthur Dent, Guida Galattica per Autostoppisti, quindi, e poi Ristorante al termine dell’universo, La vita, l’universo e tutto quanto e Addio, e grazie per tutto il pesce, di fianco un’altra pila appena più alta, seppur composta di meno libri, il già citato Accelerazione- Correnti utopiche da Dada alla CCRU di Edmund Berger, di Greil Marcus, nell’edizione de Il Saggiatore, anche se da qualche parte, nella mia libreria, lì anch’essa a sinistra, oggi agghindata con una cascata di luci intermittenti natalizie, ce n’è un’edizione col titolo in italiano, Tracce di rossetto-Storia segreta del XX secolo, e infine Inventare il futuro di Nick Srnicek e Alex Williams. La mia agenda grigia, una delle mie agende, quella grigia appunto, nella scrivania del mio studio ce ne sono almeno un’altra decina, in una pagina facilmente reperibile perché ci ho lasciato una penna arancione, regalo di Riccardo Vitanza di Parole e D’intorno, appuntato il nome proprio di Truman Capote, con sotto scritti i nomi di Norman Mailer, Tom Wolfe, Ken Kesey, Jack Kerouac, Hunter Thompson e Bret Easton Ellis.
Al momento dalla finestra, affacciata sulla piazza sottostante, sono al settimo piano, vedo un gruppo ristretto di storni, saranno anche loro una decina, come le mie agende, in formazione da stormo di aerei da guerra, staccatisi dallo stormo più grande, i rumore del vento talmente forte, convogliato nella tromba dell’ascensore, da risuonare come una piccola orchestra di ottoni che gioca con le note più gravi. Sto scrivendo questo, cioè quello che avete letto, nel mentre il Truman Capote interpretato da Hofmann è in carcere, dove i due assassini protagonisti del suo romanzo sono rinchiusi in attesa che venga eseguita la pena capitale per quegli efferati quanto inspiegabili omicidi, sto scrivendo questo, tutto questo, i libri sulla scrivania, le luci di Natale, le mie abitudini quotidiane, non per tergiversare, sempre che scrivere non sia un continuo tergiversare, io almeno lo intendo così, un portare a spasso il lettore, seminando il cammino di indizi, suggestioni, deviazioni, per poi arrivare alla fine e dire “bene, per oggi è tutto, quel che c’era da dire l’ho detto”, adesso sta parlando, Truman, con Harper Lee, interpretato da Catherine Keener, ma perché mi sto interrogando sulla scrittura, su quella che è la mia idea di scrittura, ovviamente, e su quella che era l’idea di scrittura di personaggi come Truman Capote, certo, e gli altri citati in quella lista appuntata sulla mia agenda grigia. Un’idea di essere strumento se non parte di una contro-cultura, certo pop, la consapevolezza non sempre accompagnata da sereno distacco di essere sempre e comunque percepito come un critico musicale, magari un critico musicale che ha anche scritto qualche libro, se la si guarda sul fronte di chi di musica si occupa, un critico musicale e basta sul fronte di chi si occupa di libri, seppur di libri ne abbia scritti anche parecchi, sempre da un’altra parte, altrove, appunto. Giuro, proprio adesso, in questo preciso momento, quando ho messo un non metaforico punto all’affermazione che precede questa frase, Truman Capote, il Truman Capote interpretato da Hofmann, sta leggendo per la prima volta un estratto del libro A sangue freddo, a New York, ricevendo una estatica standing ovation, la voce stridula, femminea, a rendere le parole fredde come l’orrore che va a descrivere a cristallizzare un paradosso, un attimo dopo lui a gigioneggiare con amici e conoscenti, parlando di uno sbrego che si è procurato dallo scroto fin sopra il taglio del culo, parole sue, come a prendere le distanze dal suo essere un letterato, un intellettuale, uno scrittore da standing ovation, e questa concomitanza, che potreste legittimamente prendere per inventata di sana pianta da chi scrive, cioè da me, ma che è in realtà vera, la metanarrativa a volte è facilitata dal caso, sembra qualcosa di voluto, di cercato, io che parlo del mio essere percepito costantemente come un outsider, e lo scrittore che ho scelto, perché di scelta si tratta, come contraltare al mio narrare, a fare di tutto per vivere la medesima esperienza, per me assolutamente involontaria. Non che Capote sia esattamente un punto fermo del mio pantheon letterario, sia chiaro, di quella lista appuntata sulla mia agenda è il solo che ho letto a fatica, più attratto dalla sua biografia che dalla sua scrittura, Preghiere esaudite, il suo romanzo postumo che tratteggia un ritratto crudele dello star stystem che così tanto lo ha coccolato e vezzeggiato qualcosa di a me molto caro dato che mi muovo anche io nei medesimi ambienti, sarà mica un caso che per qualche tempo i miei scritti sono stati raccolti in una rubrica che si chiamava Monina Tapes... Certo senza voler omaggiare un documentario che ancora doveva uscire, era semmai ai Basement Tapes che a suo tempo Bob Dylan, in convalescenza, incise nella Pink House in compagnia di Bob Robertson e gli altri della Band, la musica è pur sempre il mio core business, da qualsiasi punto di vista mi si guardi.
Certo, va detto, aver scelto un film che parli di uno scrittore non è stata la mossa dell’anno, la distrazione inizia a prendermi in ostaggio, io che già fatico a non perdermi dentro i miei pensieri, nel mentre è sceso il buio, il Genoa, ho letto su un sito sportivo, ha buttato via una vittoria che davo per scontata con l’Empoli, inutile il rientro di Retegui, quest’idea di fare refresh in un sito che presenta una diretta scritta, non video, il vero blocco di partenza di questo scritto, costruito intorno a una divagazione intorno alla scrittura, in realtà costruito raccontando quasi cronachisticamente, ognuno fa le cronache che sa e vuole fare, le linee possono essere sì rette, ma anche arzigogolate, la tentazione di lasciar perdere questo mio pezzo per dedicarmi a provare a mettere nero su bianco quell’idea di format che parte dai romanzi di Adams e che portano a una idea tutta mia di raccontare il Food, l’idea di usare il geniale autore della Guida galattica per autostoppisti come matrice, frutto di un ragionamento tutto mio, immagine anche piuttosto incomprensibile agli altri, come spesso capita alle mie idee prima che le atterri e diventino fatti o eventi poi raccontabili, penso ai vari progetti quali le Bikinirama, il crowdfunding Monina Sì vs Monina No, Rock Down-Altri cento di questi giorni. Una Guida galattica per autostoppisti che sposti l’attenzione sul cibo, la psicogeografia a lasciar spazio alla psicogastronomia, ne parlavo tempo fa proprio quando cominciavo la mia perlustrazione di questo ambiente, mi sembra offra grandi opportunità, talmente tanto legate a me che ne posso far cenno senza timore che qualcuno arrivi e mi scippi l’idea, anche perché l’idea non l’ho a ben vedere raccontata. Ho un’idea tutta mia di racconto, lo si sarà capito, e se anche è vero che con gli anni, ora ne ho cinquantaquattro, mi capita sempre più spesso di dimenticarmi le cose, entri di colpo in una stanza per un motivo specifico che però poi al dunque non ricordi più, dire che mi capiti, scrivendo, di perdere il filo del discorso è dire il falso, perché quel filo, in fondo, non credo di averlo mai trovato, lasciando più spesso che le parole, esattamente come il me stesso che viaggia, vadano alla deriva, se vi è capitato di leggere il mio diario albanese, questa estate, ben potrete capire di cosa sto parlando. Divagare, perdersi, andare alla deriva, errare, ecco, errare nel senso di perdersi, non certo di sbagliare, è tutto parte della mia idea di scrittura, un’idea non troppo diversa dalla navigazione online, quel passare di link in link, andando magari in un sito nel quale non si pensava di andare, magari pentendosene e uscendone subito, o passandoci del tempo. Fatto, questo, che determina, mi par di capire, il film arrivato quasi alla fine, una netta differenza nel modus operandi rispetto al Truman Capote che è diventato, suo malgrado, coprotagonista di questo mio pezzo, quattro anni passati su un unico caso, come un’ossessione che sicuramente non era del tutto legata solo alla storia da raccontare. Di A sangue freddo, che ho letto da giovane, ho tre edizioni, lì sotto le luci intermittenti di Natale, una di una ventina d’anni fa, una prima edizione trovata non ricordo più in che bancarella di libri usati e quella contenuta nel Meridiano Truman Capote, ma credo proprio che non lo riprenderò in mano, bel film, intendiamoci, ma non abbastanza da convincermi a tornarci sopra. Penso invece che, vedi tu come funziona la mia testa, mi andrò a rileggere un altro libro di Douglas Adams, il postumo Il salmone del dubbio, di cui ho una edizione per la collana Strade Blu e una di Urania, nel periodo in cui gli Urania uscivano in versione più vicina ai Miti, altra collana economica della Mondadori. In quel libro, ricordo, costruito editorialmente con materiali inediti trovati nei quattro computer dello scrittore, morto all’improvviso l’11 maggio del 2001 di infarto, a quarantanove anni. Alcuni racconti, qualche saggio e un buffo reportage di quando, per una campagna di salvaguardia dei rinoceronti, animali a rischio d’estinzione, il nostro se ne andò in giro per l’Africa con indosso un ingombrate, era già lui stesso piuttosto ingombrante, alto quasi due metri, costume da rinoceronte. Di qui all’avere un’idea per un reportage anomalo in Africa, magari tra gli animali di un safari, lo so, non passerà poi molto tempo, del resto sono quello di Bestiario Pop, e fortuna che non è stato il titolo del libro a sviarmi andando a ragionare su un viaggio in Islanda, magari per parlare con Bjork dello stato di salute dei locali salmoni, alla loro salvaguardia, o meglio, alla salvaguardia della popolazione locale che prova a salvarlo dall’invasione di non so che tipo di salmone russo, una sorta di granchio blu dei salmoni, la cantante ha girato i proventi del suo ultimo singolo Oral, inciso con la popstar delle popstar Rosalia, una canzone tutta ancestrale a suon di flauti e archi che lei aveva escluso dai suoi vecchi lavori Homogenic e Vespertine. Il dubbio del rinoceronte, questo il titolo del mio progetto safaresco, da qualche parte si deve pur partire, o tanto per citare uno dei miei veri idoli letterari, David Foster Wallace, Considera il rinoceronte. Il resto, lo so, verrà strada facendo.