È difficile che un remake (se così possiamo definirlo) riesca meglio dell’originale, ma questo è il caso de Il colore viola che diretto da Blitz Bazawule supera la versione di Steven Spielberg (qui in veste di produttore) degli anni Ottanta. La storia ha tutta la grandezza tipica dell’epica americana o, almeno, del lato oscuro di quella storia che sembra non cambiare mai in nessuna latitudine del mondo. Il colore viola non è solo un racconto di vite che attraversano l’entropia del secolo breve, è una storia che ci ricorda che una disgrazia più grande di nascere neri nella Georgia di inizio Novecento, è nascere una donna nera poco piacente (eh no, non è bodyshaming). Due sorelle estremamente legate, Nettie (Fantasia Barrino) e Celie (Halle bailey), vengono separate da un padre violento e incestuoso che, dopo avere dato in adozione i figli avuti con Nettie, costringe la bruttina e succube Nettie a sposare Mister (Colman Domingo), vedovo e padre di tre figli, alcolizzato e violento. Una sera Celie, in fuga dalle attenzioni morbose del padre, cerca rifugio dalla sorella e dal marito prima che quest’ultimo la cacci via dopo essere stato respinto sessualmente da lei. Celie promette a Nettie di scriverle ogni giorno e, invano, Nettie aspetta per anni notizie di una sorella che crede morta. Il colore viola ci accompagna nella via crucis di Nettie, in una vita di silenzi e solitudine, così come ci fa intravedere i corpi celesti, dolenti eppure pieni di vita, che le gravitano attorno: dalla moderna e femminista Sofia (Danielle Brooks) alla cantante jazz Shug (Taraji P. Henson) passando per il dolce Harpo (Corey Hawkins) marito di Sofia e uno dei figli di Mister. È un mondo nuovo quello che si crea attorno a Nettie che, ancora legata alle vecchie tradizioni, sembra essere incapace di togliersi dalle pastoie di un marito retrogrado; non è un caso che le persone che la circondano siano esattamente il suo opposto e, al contempo, lo specchio di un’epoca che cambia velocemente tra due guerre mondiali
La bellezza de Il colore viola non sta tanto nelle musiche di Brenda Russell, Stephen Bray e Allee Willis, ma nelle interpretazioni di questo cast di dive, capace di dosare momenti di comicità alla sofferenza che le donne ereditano sin dalla nascita; la candidatura all’Oscar a Danielle Brooks (ve la ricorderete per Orange is the New Black) ha perfettamente senso. Se i numeri musicali non funzionano del tutto, esclusa ‘Hell No’ che è un vero manifesto femminista, la fotografia di Dan Laustsen è un viaggio nel tempo, in quel tempo ormai perduto e nei paesaggi meravigliosi e stanchi del sud degli Stati Uniti. Purtroppo, anche questa versione del premio Pulitzer di Alice Walker rimarrà a secco di premi come il film di Spielberg (a fronte di undici candidature non vinse manco un Oscar), ma è un ritratto brillante, tenero senza risultare stucchevole di un mondo femminile che, indipendentemente che decida di subire o ribellarsi a una società maschilista, dimostra una resistenza e una solidarietà alle avversità in un’epoca ottusa. È una lezione che trent’anni fa non avrebbe colpito nessuno mentre oggi, paradossalmente, ne abbiamo bisogno più che mai.