Per chi oggi, in Italia, scrive o parla di musica, provare a dare una dimensione al fenomeno Taylor Swift potrebbe essere, innanzitutto, un’ottima occasione per fare pace con il pop puro. Per molti, troppi, il vero e unico nemico. Perché piace alle ragazze, sbanca le classifiche e tiene conto di quale sia il battito cardiaco di una moda. Così il nostro Paese, landa di santi, poeti, navigatori, allenatori della nazionale di calcio e, perché no?, critici musicali, spesso preferisce non misurarsi affatto con il pop. Riavvolgiamo il nastro: la nostra critica ha faticato con i Beatles formato “Ed Sullivan Show” (1964), non ci ha neppure provato con Abba e Madonna. Con Michael Jackson si è esposta più del solito perché Jackson portava con sé il “fenomeno” di un artista nero in heavy rotation su MTV. Ma è durata poco: Beyoncé – salvo sporadici casi – non l’abbiamo raccontata. Quindi risulta involontariamente equivoco chi sostiene, con un incipit solo all’apparenza a prova di bomba, che il nostro Paese sia “musicalmente isolato”. Perché poi, in genere aggiunge: “Non ascoltando abbastanza una Taylor Swift, non contiamo artisti che siano anche figli suoi”. Qui credo caschi l’asino, però. Ammettendo pure che serva, a noi e al mondo, una Taylor Swift italiana, come verrebbe trattata? Ci accorgeremmo del suo talento o dovremmo aspettare che ce lo dicano gli americani come di recente è accaduto con Sabrina Impacciatore? Di che stampa hanno goduto, per dire, Paola & Chiara (che con Swift c’entrano poco o nulla, sia chiaro), quando facevano un pop dal sapore straniero e per nulla pausinesco? E una Taylor Swift italiana dovrebbe cantare in italiano, precludendosi quindi ogni altro mercato sulla faccia della Terra (se non la solita America Latina dopo opportune traduzioni dei testi), o dovrebbe andare a incrociare le spade, in inglese, con la Swift originale? Qui si intravede uno stallo alla “Comma 22”, mi spiace: ossia, nessuna soluzione positiva all’orizzonte. L’unica – a lungo termine e forse anacronistica – potrebbe prevedere la folle idea di spendere qualche ragionamento sul pop e chi – ciclicamente – ne diventa il simbolo più contemporaneo. Sì, oggi Taylor Swift è un simbolo. Perché incarna tutto ciò che una popstar deve essere e tutto ciò di cui il pop ha bisogno: scrive ottime canzoni, canta da dio, è attraente e sa stare sul palco come tanti rocker che giocano di scazzo e strafottenza si sognano di fare. Fa anche guadagnare, aggiungiamo pure, un sacco di soldi all’industria discografica americana (e non solo, perché la sua musica – notizia di qualche giorno fa – “darà una spinta da 5 miliardi di dollari al pil americano, calcolando la vendita dei biglietti dei concerti, gli alberghi prenotati dai fan e gli effetti a cascata, dai ristoranti agli aerei”). E lo diciamo pur consci che, facendo rimare il verde dollaro con la sacra musica, qualcuno avrà già alzato le sopracciglia come per avvisarci di un’imminente scomunica.
Cercare il nuovo David Bowie laddove qualcuno esibisca un’estetica prettamente bowieiana è un altro marchiano errore. Una che forse sarebbe piaciuta, a Bowie, ce l’abbiamo sotto gli occhi e vende le sue canzoni come fossero fresche brezze per capannoni-sauna con il condizionatore rotto. Si chiama Taylor Swift e ogni album che pubblica fa storia a sé, prendendosi anche gioco del sopravvalutato valore dell’autenticità – valore molto rock parzialmente smontato, più di quindici anni fa, da “Faking it: the quest for authenticity in popular music”, vitale volume di Hugh Barker e Yuval Taylor. Swift esordisce con un album omonimo che è un crossover profumato di Nashville, neanche fosse destinata a una residenza al Grand Ole Opry. Tutto un tranello: Swift non è una giovanissima Shania Twain. Album dopo album, news dopo news, Taylor cresce fino a “Red” del 2012, l’album che definisce un prima e un dopo. Perché qui abbiamo tutto il necessario: le melodie, le canzoni vere. Che scaldano il cuore dei teenager, ma anche di tutti quei giovani adulti che fingono “indifferenza cool” davanti a una splendida ragazza che scrive con disarmante limpidezza e canta ancora meglio. “Red” non è un segreto per nessuno, eppure è un album che potrebbe essere di nuovo “scoperto”. Per esempio dalla nostra critica seria e seriosa, a cui le belle facce, in genere, stanno sulle palle (George Michael, in tal senso, guadagnò davvero attenzione con “Listen without prejudice vol. 1”, appena tolse il suo sguardo migliore dalla copertina di un disco). “Red”, di belle facce, ce ne offre una. In controluce, conturbante. Quella di Taylor Swift, ovviamente.
Taylor Swift e l’arte, presa alla lettera, del “crescere davanti al pubblico”. Trascorrono due anni da “Red” e Taylor, nel 2014, venticinquenne, diventa donna con “1989”. Idolo del pubblico e dei tabloid, la cantautrice di West Reading abbandona l’innocenza e abbraccia New York. E se “Reputation” (2017) forse attesta un cambiamento più superficiale che essenziale – un definitivo addio a giorni più spensierati –, “Lover” (2019) è un altro bagno emotivo. Maturo, perché Swift non bamboleggia più e davanti a sé vede obiettivi ovunque: è entrata nelle famiglie americane, è su tutte le riviste e i quotidiani. Quando canta si rivolge a una nazione intera perché anche i “non fan” si inchinano, anche solo per un istante, davanti al suo talento. Ed è qui che chi si ostina – sul piano dell’industria musicale, poi! – a paragonare un villaggio come l’Italia (detto senza alcun giudizio intrinsecamente negativo: al mondo servono i borghi, i villaggi, le province e le metropoli) a una megalopoli come gli States, commette un’imperdonabile scivolone: quando nel 2010 Swift esegue “Love story” ospite di David Letterman, direttamente dall’Ed Sullivan Theatre, c’è una nazione-continente che la guarda, la vuole conoscere, vuole pendere dalle sue labbra, farsi stregare da quel tremendo fascino scaturito dal sublime e inopportuno sfregamento del peccato sull’innocenza. E dietro c’è un’industria, che sa come funzionano queste cose. Sa anche che, là fuori, buona parte del resto del mondo capisce l’inglese e attende l’assist giusto per sintonizzarsi e partecipare all’orgasmo. Un’esibizione simile è un assist globale con conseguenze e ricadute globali. Vogliamo quindi incolpare una cantante italiana di essere nata in Italia e di avere a disposizione, al massimo, la platea di Sanremo per provare a moltiplicare pani e pesci? Con quali reali obiettivi, poi? Con quali reali obiettivi, a meno che non si metta a cantare in inglese per andare a sfidare, kamikaze-style, una Taylor Swift sul suo terreno?
Nel 2020 escono “folklore” e “evermore”. Nuovi passi avanti, nuovi capitoli del più appassionante romanzo pop degli ultimi 15 anni. Nel novembre dello stesso anno Swift si inventa qualcosa di abbastanza alternativo: inizia a ri-registrare i suoi vecchi dischi: “le versioni di Taylor”. Poi lo scorso anno esce “Midnights”, con le sue copertine multiple che ci mostrano una Swift notturna che evoca, almeno a livello fotografico, torbide atmosfere alla Mark Lanegan. La popstar dei millennial ha compiuto 32 anni e ha pubblicato il decimo album. Si misura col passato, canta l’amore e le relazioni in 13 tappe che provengono da altrettante notti insonni. Seguìta anche da parte del popolo indie, si diverte a fare uscire l’album con copertine diverse e collezionabili osando, nuovamente, dove i grandi osano: per continuare ad essere un nome che – pur “di famiglia”, conosciuto da mamma e papà – riesca comunque a stuzzicare tutti quei fan che vogliono ancora sentirsi preziosi depositari di qualcosa di unico. Persino intimo. “Sei da solo, ragazzo. Lo sei sempre stato”, canta in “You’re on your own, kid”. Così a Brooklyn, in un angolo del Delaware o in un altro buco del mondo, qualcuno ascolta “Midnights” convinto di raccogliere le confessioni esclusive di una cantante il cui album, in realtà, è il più ascoltato, su Spotify, in un singolo giorno. Il record è del 21 ottobre 2022. La magia è di quel medesimo giorno. Taylor Swift, intima e universale, è l’ennesimo invito per snob avvizziti e intellettuali prudenti: io sono qui, sono il pop. E voi? Perché non mi guardate negli occhi?