La combriccola del Blasco non è mica un’invenzione. È esistita davvero, per anni, e in qualche modo, anche quando è stata in parte sfaldata dall’età adulta e dalle circostanze della vita, ha superato la sua dimensione fisica, reale, per diventare un’idea. Massimo Riva, classe 1963, bolognese, è stato uno dei simboli di questa combriccola. Quando esisteva; e i ragazzi allora andavano su e giù per le notti emiliane a far casino, agganciare, perdersi. E anche ora che quella gang, quel giro, è una proiezione di un passato a tratti eterno. Massimo Riva c’è stato e ancora c’è. Anche se ha lasciato questo pianeta ormai da un quarto di secolo, da quel 31 maggio 1999 in cui l’eroina gli presentò il conto definitivo sotto forma di crisi respiratoria. Tutto letale, tutto senza ritorno.
Il rock italiano, perdendo Massimo Riva troppo presto, non ha perso identità o slancio, bensì ha guadagnato qualcosa di potenzialmente pericoloso: il contegno, la seriosità, una professionalità che appartiene più ai burocrati che alle anime picaresche. Non di certo a lui, membro onorario di quella cricca guascona e un po’ fuorilegge con cui ha interpretato la vita come una corsa veloce, a fendere la notte, con i fari abbaglianti fuori uso. Figura di spicco di una Bologna esuberante, polemica e caotica, Riva conobbe Vasco, di dieci anni abbondanti più vecchio di lui, quando era solo un pischello, ai tempi di Punto Radio (siamo a metà anni ’70). Con l’amico Alfredino, in quei giorni, compose “Seveso”, brano dedicato al disastro ecologico della fuga di diossina che colpì gravemente, nel cuore degli anni ‘70, le popolazioni del nord Italia. Sulla base musicale di quella canzone mai pubblicata, ebbe luogo il primo incontro tra lui e Vasco. E su quella base, da cui poi sbocciò “Albachiara”, iniziò quel rapporto esclusivo e un po’ debosciato a cui Claudia Riva, sorella di Massimo, ha dedicato una bella parte di “Massimo Riva vive! La vita rock dello storico chitarrista di Vasco”, biografia uscita per Baldini & Castoldi qualche anno addietro. Ne ha scritti diversi di brani celebri, Massimo. “Vivere una favola”, “Stupendo”, “Un gran bel film”. La fuga, l’escapismo, una vita “altra”. E poi “Vivere”, che ancora oggi Vasco dedica all’amico perduto.
Ci sono vari video, su YouTube, illuminati dalla luce stramba e divertente di Massimo Riva. Quello in cui imita DJ Miki, storico deejay del Ciak di Bologna, davanti a Miki medesimo e alla telecamera rapace di un Red Ronnie sempre sul pezzo. Quello in cui Riva accompagna il Komandante – sono solo loro due, chitarra e voce – in un Festivalbar ’98, neppure un anno prima di morire. C’è anche il videoclip di “Alzati la gonna”, anno 1988, effimera hit della Steve Rogers Band, un brano trascurabile, invecchiato all’istante, che forse oggi susciterebbe qualche sorriso divertito se solo Riva fosse ancora vivo per ricordare tutta quella goliardia da bar. Vasco e Massimo divisero le rispettive strade un anno prima. Ne parla, Vasco, nel terzo episodio de “Il Supervissuto”, la docuserie targata Netflix che in questi giorni mezza Italia si sta divorando. “La Steve Rogers Band era il gruppo di amici che avevo portato con me sul palco agli inizi degli anni ‘80”, afferma Vasco. “…Quando esco dall’esperienza del carcere, sono una persona diversa, non uso più le sostanze, e mi ritrovo sul palco con della gente che continuava a divertirsi mentre io ero l’unico lucido. Li ho dovuti sostituire, nel 1987, quando io sono diventato un professionista e loro sono rimasti quei simpatici dilettanti allo sbaraglio che pensavano solo a divertirsi e a vivere il concerto come un grande sballo”. Riva e Solieri comunicano a Vasco che è finita, solo che, nonostante l’exploit di “Alzati la gonna”, la Band durerà circa tre anni, mentre Vasco, la vicenda, è ancora qui a raccontarla da vincitore.
Quell’addio è una ferita profonda che determina un prima e un dopo nel rapporto fra i due. Ma non impedisce che sempre loro due, nel 1993, con l’aiuto di Tullio Ferro, partoriscano “Vivere” (narra la leggenda che il brano nacque “da un improvvisato e ripetuto giro di accordi suonato da Massimo Riva e un provocante "na-na-na" di Ferro, durante un breve soggiorno dei tre a Villa Condulmer”). Diego Spagnoli, storico direttore di palco di Vasco, ricorda: “Mi sono ritrovato spesso a dividerli, i motivi delle litigate però me li tengo per me. Quando due persone sono molto legate, si amano ma si prendono anche a scazzottate”. Un rapporto di strada, viscerale, sfacciatamente rock. A fine decennio, terminata la corsa dei ’90, la morte di Massimo Riva giunge come una sorpresa (sempre Spagnoli: “Il vizio nel rock si sa che c’è, ma la sostanza che l’ha ucciso era fuori dalla comprensione di chiunque, infatti quando è successo nessuno sapeva e nessuno immaginava che ci fosse questa cosa nella sua vita”). Una vita veloce, irradiata da cento sogni, spazza via Riva. Resta l’eredità lasciata da quel chitarrista che da giovane, agli esordi, fingeva di suonare lo strumento. Si fingeva rocker, ma lo era già. Poi lo è diventato.