È ora di dircelo: forse sarebbe stato meglio se “Open” di Andre Agassi non fosse mai uscito. Non per il libro in sé ma per quello che ha generato: un format che si ripete uguale da oltre un decennio e che, visti i risultati, c'è da temere possa durare ancora a lungo. Funziona così: si prende uno sportivo di successo arrivato a fine carriera; gli si affibbia un ghost writer che si sobbarca l’onere della scrittura anche se il suo nome non appare in copertina; si identifica una ragione per trasformare la storia in una storia di riscatto; si rilascia qualche sugosa anticipazione ai giornali; e poi si pregano gli dei dell’editoria che il colpo riesca. Se riesce, bene. Sennò, poco male: sotto con un altro, e si ricomincia da capo. Nel caso di Federica Pellegrini, il prodotto ha funzionato eccome, tanto che il "suo" Oro è in testa alle classifiche. Del resto, l’anticipazione era di quelle gustose, l’indimenticabile triangolo Pellegrini-Magnini-Marin del 2011, una manna dal cielo per i giornaletti di gossip di allora, con quella rivendicazione neo-femminista - “posso scopare con chi voglio!” - che Federica Pellegrini ricorda con orgoglio, come si trattasse di una novità dirompente: forse qualcuno dovrebbe informarla che “l’utero è mio e lo gestisco io” è roba di cinquant’anni fa.
Se si pensa che chi vende ha sempre ragione, la questione potrebbe finire qui: Oro di Federica Pellegrini (anzi: Oro di Elena Stancanelli, basato sulla vita di Federica Pellegrini) non è un libro, ma un prodotto, e come tale andrebbe giudicato. E siccome sta vendendo molto, è bravissimo chi lo ha immaginato in sede di progettazione editoriale.
Questa recensione, dunque, va prese tra le virgolette, in quanto parte da un presupposto sbagliato: ovvero, che Oro sia un libro, e che se ne possa parlare nei termini di un’opera letteraria, nella fattispecie appartenente al genere memoir, o come va di moda dire in Italia oggi, di “auto-fiction”. Da questo punto di vista, allora, Oro è un fallimento colossale, l’ennesima iterazione del format Open, solo meno credibile e coinvolgente del solito.
Sappiamo che da anni, nel mondo occidentale, vige la dittatura di quello che Giulio Mozzi chiama “il paradigma della vittima”: o uno sventola preventivamente le proprie sfighe, o non ha diritto di parola. E così anche Federica Pellegrini, una a cui la natura ha dato tanto e che poi è stata fantastica a prendersi tutto, deve calare l’asso preventivo della bulimia, grande classico al pari del bullismo. Ora: qui non si sostiene che la campionessa non sia stata, effettivamente, bulimica; ma si sostiene che il racconto di questo disturbo sia narrato con tale superficialità che fa l’effetto della spezia, del prezzemolo messo sulla pietanza per seguire alla lettera una ricetta.
Per esempio: Federica scrive (o Federica dice a Elena, la quale scrive) che da bambina non aveva mai sentito parlare di bulimia. Io ho, più o meno, la stessa età della Pellegrini ma ricordo chiaramente come da adolescenti fossimo bombardate di informazioni sui disturbi alimentari. È ovviamente possibile che Federica fosse rimasta all’oscuro, ma allora sarebbe interessante sapere perché. E aldilà delle considerazioni sul senso di colpa, la dismorfia, il vomito come modo per ripulirsi la coscienza – tutte cose drammatiche, ma che si trovano su una qualunque pagina wikipedia dedicata ai disturbi alimentari – sarebbe stato interessante leggere come questo disturbo influisse nella sua routine quotidiana, nel suo rapporto con gli altri; sapere cioè come è stata la bulimia di Federica Pellegrini, non cos’è la bulimia in quanto tale, perché per quello basta un manuale di letteratura scientifica.
In Open, Agassi parla (o meglio: J.R. Moehringer parla) della dipendenza dalla metamfetamina, e racconta come quella droga ne ha condizionato la carriera, le liti con Brooke Shields, le camere di albergo devastate. Al lettore, insomma, non viene spiegato cosa voglia dire essere, genericamente, “drogati”: si racconta come una sostanza specifica influisse su un uomo specifico. Il problema principale di Oro è proprio questo: il suo non essere mai specifico, il suo accontentarsi di essere cronaca, senza mai cercare di scavare a fondo, alla ricerca della letteratura.
Questo esempio della metamfetamina, peraltro, è utile a identificare quella che resta la differenza decisiva tra Open e Oro, o per meglio dire, tra Open e tutte le opere uscite nell’ultimo decennio che a Open si sono richiamate.
Nel suo libro, Agassi non aveva paura di raccontare il proprio lato oscuro, di mostrare il peggio di sé, e questo creava un tremendo effetto di identificazione, di vicinanza tra il lettore e il narratore, cosa che rappresentava la principale ragione di successo del libro.
Noi invece, per ragioni culturali, siamo ancora fermi all’agiografia: gli sportivi sono ossessionati dal voler fare bella figura, e una volta pagato il dazio socialmente accettabile del disturbo alimentare (o del bullismo, o della vulvodinia o di quello che volete voi) la narrazione è una marcia trionfale in cui il protagonista pare capace di compiere solo il bene. In “Un capitano” di Francesco Totti il passaggio più sconveniente per il narratore è quando ammette di aver nascosto le ragazze durante il ritiro; in Oro quando la protagonista rivendica il diritto di avere rapporti sessuali con un altro uomo due giorni dopo essersi lasciata (quindi non sono manco corna, chissà mai che si faccia brutta figura). Facezie, marachelle: la vita, con le sue miserie, resta fuori, e con lei il lettore, che sperava di aprire una finestra sull’interiorità di una persona di cui per anni ha ammirato le opere, e si ritrova con una lezioncina moraleggiante sul vivere, in pieno accordo con lo spirito dei tempi.
Ma c’è un aspetto aggiuntivo per cui Oro risulta un libro sostanzialmente inutile (ma, come già detto, un prodotto eccezionale): il suo ostinato rifiutarsi di dialogare col presente e con l’attualità. C’è un passaggio, forse il più riuscito, in cui Federica Pellegrini racconta le difficoltà dell’essere un’atleta donna, obbligata a competere anche nei giorni che precedono il ciclo mestruale: la batosta rimediata alla finale delle Olimpiadi di Rio la spiega proprio con l’imminente arrivo del ciclo.
Ma cosa pensa Federica Pellegrini del fatto che oggi nello sport, e soprattutto nel nuoto, ci siano atlete donne che non hanno questo problema, in quanto nate uomini? Pensa che sia giusto? O lo ritiene sbagliato nei confronti di quelle che invece devono far fronte a questo aspetto?
Sarebbe stato interessante sapere l’opinione di una delle più grandi nuotatrici e sportive della storia, che proprio per via delle mestruazioni ritiene di aver visto sfumare una medaglia che sarebbe stata leggendaria. E quel pezzo manca non certo per dimenticanza, ma perché’ sarebbe stato personale, specifico, avrebbe creato divisioni, critiche, prese di posizione, che avrebbero rischiato di farlo funzionare meno come prodotto, diminuendo le copie vendute.
Di sicuro lo avrebbe reso un libro più interessante: proprio quello che Oro non vuole rischiare di essere.