La notizia della morte di Paolo Benvegnù è di quelle che lasciano sgomenti. Tutte le morti dovrebbero lasciarci così, dirà qualcuno, ma è indubbio che la morte di un artista lasci un segno ulteriore, anche in chi non lo conosceva direttamente, di persona, ma solo attraverso le sue opere (sempre che sia possibile dire “solo” in questo caso). Sono quindi sgomento, o forse sconvolto, non saprei dire. E lo sono perché Paolo lo conoscevo anche di persona, da oltre venticinque anni, e come un po’ tutti hanno scritto nel pomeriggio, la sera del 31 dicembre, e hanno continuato a scrivere alle prime luci dell’alba del nuovo anno, Paolo Benevegnù era una persona speciale: colta, ironica, umile, e soprattutto capace di evocare bellezza con la sua sola presenza. La mia bolla, per citare Marracash e il suo recente album, ne è ovviamente rimasta stravolta, e passare la sera dell’ultimo dell’anno, con la mia famiglia e amici, nella mia Ancona, scorrendo il suo viso sui social è stato al tempo stesso consolatorio e dolorosissimo, presa di coscienza del tanto amore che negli anni ha raccolto intorno a sé quanto del fatto che tanto amore non ci preservi comunque dal poter morire. Lo so, so bene che quando muore qualcuno di famoso non se ne dovrebbe scrivere se non cercando di svicolare la retorica, anche quando muore qualcuno che magari famoso famoso non è, ma comunque molto amato da una comunità nutrita come quella che ama la bella musica, Zerocalcare su questo ha detto tutto quanto era da dire. E so anche che tirare fuori episodi personali, quindi spostando l’asse del racconto su di sé è da considerare opera disdicevole, ma Paolo Benvegnù è morto nella notte, per un infarto, e la cosa mi ha letteralmente tirato via la pelle. Parlavo di lui giusto il 30 dicembre, con mia moglie, raccontando appunto come essere un grande artista comportasse ancora oggi il doversi sbattere, agitare, come a dover sempre dimostrare l’ovvio, perché il nostro è un sistema musica che non riconosce i meriti. O non li riconosce del tutto. Ne parlavamo perché giusto un paio di giorni prima ero al telefono con Sara Mazo, che con Paolo ha condiviso il microfono in quella incredibile avventura che porta il nome di Scisma, lei da tempo lontana dal mondo della musica anche per questo specifico motivo.
Li ho conosciuti entrambi a fine anni Novanta, oltre venticinque anni fa, negli studi di Radio Popolare, quando ancora era in via Stradella, loro per registrare un programma, credo Patchanka, io per provare a coinvolgerli nel progetto editoriale che poi avrebbe visto Manuel Agnelli, Cristina Donà, La Crus e Mau Mau pubblicare loro libri per la Piccola Biblioteca Oscar. Un incontro infruttuoso, da quel punto di vista, niente libro, ma che avrebbe però acceso un’amicizia poi proseguita negli anni. Paolo, era, è, mi scuserete se non riesco a usare il passato, considerato unanimemente un artista indiscutibile, di quelli nei confronti dei quali non si può far altro che togliersi un metaforico cappello. Ben lo sa chi lo conosceva e lo apprezzava, e ben lo sa, da ieri, magari, chi lo ha visto da Stefano Bollani e Valentina Cenni a Via dei Matti numero zero, ironia della sorte un’ospitata televisiva importante a poche ore dalla propria morte (Paolo, oltre che molto dolce era anche molto ironico, va detto). O chi l’altro giorno l’ha visto dal vivo, anche l’espressione “dal vivo” sembra uno scherzo del destino, a Cave. Paolo infondeva bellezza, su questo siamo tutti d’accordo, e la infondeva con la sua penna e la sua voce, ma anche solo con la sua presenza. Se gli Scisma, band da lui fondata sulle rive del Lago di Garda, precisamente a Salò, è stata la prima realtà della scena underground di metà anni Novanta a approdare a una major, il Tora! Tora! e tutto il resto lì da venire, la sua carriera solista, celebrata da poco con la Targa Tenco per il Miglior Album ricevuta per È inutile parlare d’amore, ma anche con una nuova edizione di Piccoli fragilissimi film - Reloaded, album d’esordio pieno stavolta di amici e colleghi, lì a indicarne il talento assoluto, da Paolo Fresu e Ermal Meta a impreziosire la già preziosa Mare verticale, opening della tracklist, per poi passare a Tosca in Cerchi nell’acqua, Malika Ayane in Io e te, Giovanni Truppi ne Il sentimento delle cose, Motta in Brucio, Piero Pelù che canta in Fiamme, Appino in Only For You, I Fast Animals and Slow Kids in Suggestionabili, per poi andare a Dente in Quando passa lei, Veronica Lucchesi de La Rappresentante di Lista in È solo un sogno, suo il recitato finale, Lamante in Catherine. Ennesima volta in cui Paolo ha guardato a un astro nascente provando a portare parte della sua luce in quella direzione, tre gli inediti. Preferisci i silenzi con Giulio Casale, Le gioie minime con Irene Grandi e Isola Ariosto con Max Collini, ecco, tutta la sua carriera dimostra come si possa essere poeticamente se stessi senza cedere un centimetro al diavolo, chiamiamolo così, tutti capirete, rimanendo belli e puri.
Parlare di musica, vecchia e nuova, al momento mi sembra il solo modo possibile per uscire dallo shock, perché ricevere certe notizie è sempre un dolore, e riceverle così inaspettate ancora di più. Anche il continuo flusso incredulo di messaggi privati, come di post pubblici, conseguenza dell’essere parte di una medesima generazione, di una comunità, quella musicale, è tanto consolatorio quanto doloroso. Perché col passare degli anni ci si ritrova forse più spesso nei lutti che nelle gioie, e perché in fondo la morte è un punto di non ritorno anche per certi sogni, certe chiacchiere, intorno alle quali ci si ritrova a volte come d’estate intorno a un fuoco in spiaggia. Quando, infatti, salutando Sara, l’altro ieri, le ho chiesto se ci fosse speranza per il 2025 di tornarla a sentire cantare e lei mi ha risposto “forse”, laddove di solito c’era un garbato “no, dai, lo sai”, ci avevo quasi sperato. Del resto, quel breve ritorno degli Scisma, nell’ottobre 2015, le date dal vivo (io ho visto quella a Brescia, alla Latteria Molloy) e l’uscita dell’EP Mr Newman, era in parte anche merito mio, che circa un anno prima, il 30 settembre 2014, avevo scritto una lettera aperta proprio a Sara Mazo, una specie di lettera d’amore per la sua voce, implorandole di tornare sui suoi passi. Lettera intorno alla quale gli Scisma si erano ritrovati, e di lì era rinata per poco quella fiamma. Anche questo vantarmi di qualcosa che forse non è neanche così vero, potrebbe essere un balsamo per l’anima, come l’ascoltare compulsivamente la sua musica, la sua voce, anche quando entrambe sono messe al servizio di altre artiste, Paolo Benvegnù ci ha sempre regalato bellezza, anche nell’essere generosamente a fianco di altri. Adesso, per dire, sto ascoltando in loop L’equilibrio degli Scisma, a lungo sostenuto proprio dalla voce di Sara, Paolo a intervenire nel ritornello, sornione e profondo nel cantare “nell’aria, trascendendo l’aria”, il video girato nel loro lago di Garda. E poi Tu mi bruci dei Leda, Paolo e Serena Abrami a fondere le proprie voci come non avessero fatto altro nella vita. Potrei metterci anche le canzoni degli Ariadineve, band di colei che poi diventerà Eleviole?, anche lì Paolo a mettere la sua arte, stavolta nella produzione. Balsamo che però forse non dovrebbe esserci, perché commuoversi per la morte di un grande artista, nello specifico anche un amico, ma il discorso sarebbe valido anche per uno sconosciuto, è forse la prova che ci serve del nostro essere ancora umani. Il 2024 si è chiuso nel peggiore dei modi, perché checché se ne dica, quando muore un artista il mondo diventa indubbiamente un posto più triste e povero. Quando oltre che un artista muore una gran brava persona, poi, la faccenda non può che essere ancora più triste. Se ne approfitti almeno per riascoltare la sua musica, troppo spesso defilata a vantaggio di musichette oscene.