Dua Lipa a Milano canta A far l’amore comincia tu e l’Italia si scioglie di fronte all'omaggio della grande popstar. La folla presente esulta, i giornali la esaltano, le Instagram stories sono virali con caption tipo “iconica” e “Queen”. Ma se ci fermiamo un attimo a pensare, non resta anche a voi quella sensazione di déjà-vu, la stessa che ci lascia la visione de La grande bellezza di Paolo Sorrentino? In particolare quando i protagonisti ballano su una terrazza romana, ridendo tra fiumi di alcol e lampadine colorate, ma sotto sotto c’è un fastidio che non si scrolla di dosso. Dua Lipa non ha scelto una canzone italiana. Ha scelto quella canzone italiana: frivola, catchy, ultrapop. Iconica, certo. Ma anche inflazionata e banalizzata, simbolo da esportazione della nostra italianità più superficiale. Esattamente come ha fatto Paolo Sorrentino dieci anni fa, infilando il pezzo di Raffaella Carrà nella sua giostra estetica fatta di nani e ballerine che si dimenano in un luogo simbolo dell'italietta da cartolina, bella e perduta, dove la nostalgia è la scusa per non cambiare mai.
Ma mentre Jep Gambardella citava Céline e sapeva benissimo che quella terrazza era una trappola, Dua Lipa e il suo team sembrano crederci davvero. Hanno scelto la Carrà come se fosse l’unico ponte possibile tra l’Italia e il pop internazionale. Hanno aperto l’enciclopedia dei cliché, sono arrivati alla voce “Italia” e si sono fermati lì: mandolino, pizza, l'amore estivo in spiaggia. Fine. E dire che alternative ce ne sarebbero, eccome. David Bowie, già nel 1986, ha cantato Volare di Domenico Modugno e non Fin che la barca va di Orietta Berti, e lo ha fatto sapendo di calarsi in una storia musicale complessa e struggente. I Coldplay, molto più recentemente nel 2023, hanno cantato Pino Daniele con Napule è, con Chris Martin che ha faticato col napoletano ma si è sforzato e il pubblico infatti ha apprezzato. Tempo prima, nel 2010, Mike Patton ha ri-arrangiato e cantato, portandola in giro per il mondo, Senza fine di Gino Paoli, dimostrando che il cantautorato italiano può avere un respiro internazionale. E persino un grande regista come Wim Wenders ha incluso Quello che non ho di Fabrizio De André nella colonna sonora di Palermo Shooting perché aveva capito che quella voce parlava un linguaggio universale. E Dua Lipa?

Non è colpa della popstar britannica. La verità è che noi italiani, quando arriva lo straniero di turno, ci sentiamo ancora in dovere di fare i simpatici, di essere ospitali, di non disturbare. E così, quando un'artista da milioni di follower ci serve sul palco un’immagine da varietà anni ’70, invece di prenderla come una semplificazione pigra, ci mettiamo in fila a fare il trenino. Proprio come nella terrazza di Jep Gambardella. Perché l'italiano, in fondo, pensa sempre: “Sull’orlo della disperazione, non ci resta che farci compagnia, prenderci un po’ in giro!”. E allora balliamo, che tanto la disperazione la conosciamo bene. Ma smettiamola di credere che A far l’amore comincia tu sia l’unico modo che abbiamo per raccontarci al mondo. Perché la musica italiana, quella artisticamente di qualità, è nei testi di Battiato, nelle versioni di teatro-canzone di Gaber, negli arrangiamenti di Battisti, nelle poesie musicali di De Gregori e nelle imprevedibilità geniali di Dalla. Nessuno chiedeva a Dua Lipa di cantare La locomotiva di Guccini all’Ippodromo, ma nemmeno di fare la turista da selfie mossi. E l'aspetto più preoccupante è che, a forza di trenini, persino noi italiani ci siamo convinti che quello sia il massimo che sappiamo esprimere.
