Vivo a Los Angeles da qualche anno. Mi sono fidanzata con un cantante e chitarrista blues di colore che si chiama Henry Harris e che successivamente diventerà il padre di mio figlio, Maximus Giuliano. Al momento siamo crazy wild e senza figli e viviamo le nostre rispettive vite da film a West Hollywood. Decido di passare un week end a Las Vegas e senza nemmeno confrontarmi con lui vado online e cerco le varie opzioni. Prenoto una junior suite al Bellagio, hotel a cinque stelle con all’interno un bellissimo teatro che ospita tra i più interessanti spettacoli del Cirque du Soleil. Prenoto infatti anche due biglietti per vedere lo spettacolo. Ovviamente pago tutto io, in quanto da sempre ho un indiscutibile talento nel trovarmi uomini con cui o paghi tutto tu o non fai assolutamente nulla, perché tanto loro non hanno la possibilità né di pagare né di sostenere il tuo tenore di vita, tenore di donna piuttosto esaltata non importa se ricca o povera (basti pensare che a me gli hotel a quattro stelle mettono un certo disagio). Poi ovvio, se devo dormo pure per strada, mi adatto a tutto, ma se scelgo io si salvi chi può. Scelgo solo il top, gli hotel a cinque stelle, gli abiti firmati, le borse e le scarpe di Prada, Fendi e Louis Vuitton. Insomma, non sono proprio San Francesco d'Assisi che rinuncia alla sua condizione agiata per vivere con “fratello sole e sorella luna”, ma nemmeno sono un essere superficiale che vive per queste cose, o una che non ama Pier Paolo Pasolini, Anaïs Nin, Charles Baudelaire e molto altro (non sto qui a dimostrarvi quanto sono colta, ma la sono più di quanto chiunque possa pensare). Henry torna a casa nervoso in quanto è saltata la data di un importante concerto a San Francisco. Teneva molto a quel concerto e non sembra essere entusiasta del fatto che ancora una volta ho deciso tutto io per tutti e due e programmato il week end a Las Vegas. Io invece saltello qua e là per l'appartamento, dopo aver espresso il mio dispiacere per la data saltata, certa del fatto che ce ne saranno altre.
Il condominio di Larrabee Street, dove vivo, si chiama Mediterranean Village e si trova nella zona gay di West Hollywood e lo adoro. Ha piscina, palestra aperta 24 ore su 24… e una lavanderia meravigliosa sul tetto da cui si vedono le colline di Hollywood. Questi privilegi nei condomini di Los Angeles sono piuttosto normali. Quasi tutti, infatti, hanno piscina e palestra più o meno belle, a seconda del prezzo (in alcuni più economici la piscina è in una specie di garage), ma per me che sono un’italiana (buongiorno Italia, buongiorno Maria, con gli occhi pieni di malinconia...) questi sono lussi da apprezzare e di cui godere il più possibile. Il giorno dopo ci aspetta Vegas (gli americani la chiamano così, sembrano fare fatica a dire pure Las, e io mi adatto). Vegas arriviamo e sarà tutto meraviglioso! Luci, spettacoli, ristoranti di tutte le cucine del mondo, casinò, Cirque du Soleil, lusso, sesso e rock and roll ...sembra tutto troppo bello. Purtroppo litighiamo durante il viaggio quasi in continuazione e mettiamo entrambi il broncio, decisi a non provare più ad andare d'accordo. Siamo pervasi entrambi da quella sorta di insofferenza e nervosismo che hanno bestie simili che si annusano, si riconoscono, ma poi, non per cattiveria, ma per istinto si attaccano senza pietà. Facciamo subire al partner i nostri silenzi passivo-aggressivi estremamente puntivivi. In realtà stiamo punendo i nostri padri che non ci hanno ascoltati abbastanza quando eravamo piccoli. Una volta atterrati dopo un volo di turbolenza che, ahimè, c’è quasi sempre quando si vola in Nevada, riconosco l'aeroporto pieno di slot machine. Questa è la mia seconda volta qui e sono determinata a vivere la situazione fino in fondo e con tutto lo stupore e l’entusiasmo di cui sono capace. Non è la mia prima volta in questa città e non sarà neanche l'ultima, in realtà di prime volte credo di non averne quasi più, avendo girato il mondo e provato di tutto, ma questa è un'altra storia. La vita ci può comunque sempre stupire. Entriamo in taxi verso l'hotel, Henry finalmente parla ma provoca, era meglio quando mi faceva subire il silenzio passivo-aggressivo. È frustrato dal fatto che, siccome pago tutto io, ovviamente decido tutto io. Ci mancherebbe pure che decida lui, in questo mondo cinico e crudele decide chi detiene il potere.... in America poi non ne parliamo… it' s all about money! Quindi rassegnati amore, quando pagherai tu avrai voce in capitolo. Ammesso che io ti permetta di pagare (arma a doppio taglio perché in quel caso perderei tutti i miei magici poteri). Ci installiamo dopo il check-in alla reception in cui sorridenti ragazze ti augurano “good luck” (vogliono che giochi e che gli lasci un sacco di soldi). Questa camera è in pieno stile Vegas. Ovvero pacchiana e claustrofobica. Nelle stanze degli hotel di Las Vegas, per questioni di sicurezza, non si possono aprire le finestre. La giustificazione è che hanno paura che la gente si suicidi, il che, considerando che siamo nel regno mondiale assoluto ed indiscusso del divertimento, ti fa porre delle domande sul posto ma anche sul senso della vita in generale. Un divano enorme in velluto rosso fuoco impera nel salottino intonato alle tende, anch'esse sono di una fantasia rosso fuoco-rosso bordeaux con qualche macchia di viola. A terra l'inevitabile moquette che gli americani, nonostante non vada più di moda dagli anni settanta, sembrano ostinarsi ad amare. Anti igienica, tra l’altro, perché trattiene acari e mostriciattoli simili. Qua e là, sparsi, vasi orientaleggianti finto-antichi di varie grandezze con disegni piuttosto pacchiani di fiori che si intrecciano con teste di leopardi ruggenti in un misto tra barocco e Versace rivisitato. Mi accendo una sigaretta. Da quel preciso istante in poi inizia la tragedia.
Henry parte con un monologo, che quasi sarei tentata di riscrivere e recitare al Teatro Eliseo a Roma. Il monologo parla del fatto che, innanzi tutto, non si può fumare in stanza, ma soprattutto di quanto la mia psiche sia prepotente, ribelle, malata, incurabile, di quanto io pensi di poter fare come mi pare in America, dove non si scherza perché questa non è l'Italia (paese di scherzi, mandolini, spaghetti e tarantelle, appunto). Il monologo verte in particolare sul fatto che io sono stupida, viziata, arrogante, che cerco una mia identità al di là di mio padre, ma che senza mio padre non sarei nessuno, che la vita è stata troppo facile per me e che.... Alla vita troppo facile scatta qualcosa in me di irrefrenabile, afferrò un vaso leopardato e grido: "Bastaaa". E lo frantumo contro lo spigolo di un tavolo con tutta la forza che possiedo. E in quel “basta” ci sono tutte le umiliazioni subite, le offese, le porte in faccia, il tumore incurabile di mia madre, l'incidente fatale di mio padre, l'essere stata ricchissima e poverissima e l'aver sempre sopravvissuto a testa alta il peso della mia dignità, l' essere considerata tutto quello che non sono, fraintesa, bullizzata, odiata, mai assolta, mai amata, mai consolata. In quel “basta” c’è il basta alle banalità, alle luci troppo accese, ai discorsi corretti che non fanno paura a nessuno, ai matrimoni combinati in Afghanistan, alle povere donne iraniane senza libertà di parola, alla fame nel mondo, basta a tutto quello che in questo cazzo di mondo crudele mi fa vomitare e, soprattutto, basta a te caro Henry che mi provochi da stamattina all'alba senza paura di farmi del male, senza preoccuparti che, forse, potrei piangere per tutte le cose offensive che mi dici. Basta giocare con il fuoco perché questa donna ricca e viziata ti fa un culo ora che neanche negli angoli più infimi e nascosti di South Central, quartiere malfamato dal quale più volte ti sei vantato di provenire, neanche lì riescono ad avere il dolore e la rabbia che io posseggo in corpo, il desiderio di riscatto, di rivendicazione e di violenza, il senso dell’onore per cui sono pronta a morire. Stai attento. Sono una siringa d'aria sparata in vena che uccide senza lasciare tracce, perché l'aria non è tangibile, l’aria non lascia tracce ma può essere più cattiva di uno sparo. L'aria può essere più violenta ed assassina di una pistola fredda e pesante. L'impatto del vaso è talmente forte che le schegge volano dappertutto ed il caso (infame) vuole che una di esse ferisca Henry. La sua caviglia, infatti, sta sanguinando ma lui sembra essersi calmato. Credo conosca la velocità in cui mi posso trasformare come nemmeno uno dei Fantastici 4 riuscirebbe a fare (non ricordo quale, ma uno diventava invisibile, un altro si trasformava, poi c'era l uomo di gomma che si allungava). Comunque, anch’io mi sono calmata dopo aver frantumato il vaso (pacchiano) e gridato argomenti validi di difesa, con lo sguardo chiedo scusa per il mio scatto d’ira. Penso che tutte quelle chiacchierate a 70 euro l'ora con la psicologa Giulia siano andate a farsi fottere come nel miglior film porno di Las Vegas. Henry chiama la reception e chiede se, per cortesia, hanno un cerotto. Sembrano chiedergli dall'altra parte del telefono cosa sia successo e lui risponde (risposta sbagliata) “c'e' stato un piccolo incidente”. Invece del cerotto sale in stanza direttamente la security e pochi secondi dopo un uomo ed una donna in divisa. Ovvero la polizia, baby. Proprio loro. Dovete sapere che in Nevada ci sono leggi severissime sul litigare e alzare la voce, oltre che alzare le mani. Rompere un vaso e ferire qualcuno (anche senza volere) in seguito ad un litigio è considerato un atto illegale da racchiudere nel reato abbastanza grave di "violenza domestica". Dove c’è gioco, alcol, sesso e rock and roll, bisogna mantenere calma e legalità più che negli altri stati d'Americ, ecco perché, prima di urlare, alzare la voce, gridare per strada come facciamo normalmente in Italia, prima di litigare in tutto il Nevada, fidatevi amici, pensateci due o anche tre volte. I poliziotti sono due, un uomo e una donna, ora io vorrei fare la femminista a tutti i costi, cosa molto di moda e un po' in ritardo oggi, nel senso che abbiamo già ottenuto diritto al voto, all’aborto, al divorzio e molto altro, ma il mio senso di verità scomoda mi impone di affermare con pochi dubbi che le donne in divisa sono delle stronze tremende. È come se entrassero in uno stato di esaltazione ed ostentazione del potere che le rende finalmente protagoniste scomode, pronte a distruggere la giornata di chiunque pur di vendicarsi della loro infelicità. Come se si dicessero: "Vai cara, adesso o mai più, vendicati pure di quel calcio in culo che ti diede papà (che c'aveva visto lungo) a tre anni. Vendicati di tutto!”. La poliziotta afferra un asciugamano da terra sporco di sangue. Osserva me come una vittima idiota che per secoli non si è ribellata e lui, il fidanzato nero e cattivo come il peggiore dei criminali (razzismo? Nooooo!). Dopodiché, guardandomi, mi chiede: “Questo sangue, signora, appartiene a lei?". Sorpresa poliziotta! Sono io la cattiva del film, nonostante sia bianca e abbia diversi anelli d'oro alle dita, nonostante la suite pagata da me, il Rolex al polso e questi jeans di Dolce & Gabbana, sono io la colpevole di quel sangue e rispondo per dovere di verità: “No, quel sangue è del mio fidanzato” e aggiungo che "ho rotto un vaso e una scheggia, non so neanche come, l'ha ferito, ma non volevo fargli del male".
La poliziotta mi guarda delusa, se potesse mi direbbe che non posso cambiare le sceneggiature dei film americani dove i neri spesso o muoiono o sono cattivi! Io a quel punto incrocio lo sguardi di Henry e per una strana reazione nervosa (assolutamente sbagliata e fuori luogo) e una complicità di cui a questo punto abbiamo tutti e due bisogno, scoppio a ridere e lui con me. È una di quelle tipiche risate nervose fuori luogo, lo so, in realtà la situazione che stiamo vivendo ci sembra assurda e surreale e molto più grande di noi. Siamo semplicemente una coppia che ha litigato nella propria stanza, probabilmente nell’arco di un paio d'ore tutto sarebbe tornato sereno, saremmo andati a cena in un bel ristorante e poi a vedere il meraviglioso Cirque du Soleil pieno di acrobati talentuosi. Ma la poliziotta sembra non avere affatto gradito la risata isterica: “Non c' e' niente da ridere, perché adesso vi arrestiamo tutti e due per violenza domestica", grida. E in effetti siamo in arresto come fossimo due criminali veri. I due cops ci invitano a seguirli in modo poco gentile e entriamo in due macchine diverse, questa cosa di separarmi da lui non mi piace affatto ma sto zitta ed eseguo gli ordini. Arriviamo in dieci minuti alla prigione di Las Vegas. Io già dal percorso in macchina sono in uno stato di choc, esco dal corpo come solo io so fare e guardo la protagonista (che sarei io) di questo assurdo film dal di fuori e con una certa indifferenza. Non la osservo proprio come una spettatrice, con i pop corn, ma posseggo quel sano distacco emotivo senza il quale, a questo punto del film, morirei di paura. I miei ricordi dell'accoglienza sono offuscati, l'immagine dopo sono tutte donne a destra di una stanza sedute su sedie piuttosto scomode e uomini raccolti a sinistra in altre sedie. Vedo Henry che mi guarda e mi sorride e con il labiale mi dice: “Pago io tranquilla" e io istintivamente ringhio "No! Pago da sola!". Suppongo si riferisca alla cauzione. Perché me la dovrebbe pagare lui? Nessuno mi paga niente a me! Sono indipendente, non voglio favori.
Passano due ore e siamo sempre lì seduti, arrivano nuove persone in continuazione, ma quanta gente arrestano ogni notte a Las Vegas? Tantissima. Poliziotti passeggiano in mezzo a noi per impedirci di comunicare. Nessuno può parlare con nessun altro. Intorno a noi ci sono una serie di telefoni con appesi sopra dei fogli con i numeri da chiamare qualora non avessi i soldi per la cauzione. Chiamando uno di questi numeri, infatti, ti viene pagata immediatamente, solo che poi devi restituirli con gli interessi talmente alti che quasi è meglio restare dentro, mi spiega una signora seduta vicino a me. La donna, che sembra conoscere tutto di questa scomoda situazione, ha un'aria borghese ed elegante, di un’eleganza piuttosto classica. Le chiedo cosa ci fa lì e mi risponde, come se niente fosse, che truffa le slot machine. Le chiedo come fa e ovviamente mi risponde "adesso vuoi sapere troppo". Chissà come l'hanno beccata, in che modo si sono accorti che truffava. Il suo aspetto da donna innocua mi ricorda mia zia Ione, la sorella di mia madre. Il suo modo di muoversi e di parlare sono lontani dall' idea della delinquente. Eppure sembra essere nota nell'ambiente dei casinò, è evidente che questo non è il suo primo arresto. Il mio sguardo e quello di Henry si incrociano più volte, nella disperazione degli eventi abbiamo fatto pace, lui e le sue provocazioni in questo momento sono l'ultimo dei miei problemi. Il problema unico e solo è quando usciremo di qui. Un poliziotto mi invita a togliermi le scarpe e a indossare delle ciabatte che mi porge senza mai guardarmi negli occhi, per lui sono già colpevole trovandomi lì, non merito il suo sguardo né un po' di sana solidarietà umana. Pare che le scarpe siano pericolose, vanno tolte. Dopo un'ora di attesa lo stesso poliziotto mi accompagna in una specie di ufficio e mi chiudono dentro per un'altra mezz'ora. Cerco di mantenere la calma, sono rassegnata e coraggiosa, consapevole di non aver fatto niente di terribile e abbastanza intelligente da capire che in America persino l'arresto è un business per fare soldi, oltre che una grande lezione di vita che ci dovrebbe rendere migliori. Finalmente entra qualcuno, un uomo dall'aria piuttosto infastidita, si siede di fronte a me e mi dice molto serio: “Allora, lei è qui per violenza domestica. La cauzione per questo reato è di 3500 dollari. Ha i soldi per pagare?”. “Sì, rispondo, ho la carta di credito, spero che funzioni”. E lui: “Perfetto risponde”. Prende la carta che gli porgo e la infila nella macchinetta, ma prima di digitare il codice chiedo: “Se pago poi posso uscire?”. Non immediatamente, ma sì, potrò uscire. Ma quando? Mi chiedo fra me e me, senza osare chiederlo a lui, e digito il codice. Quei pochi secondi di attesa della risposta sono i piu lunghi della mia vita. La carta grazie a Dio funziona. Poi mi accompagna immediatamente in una sorta di cella dove ci sono altre tre ragazze e mi chiude lì dicendo che prima o poi qualcuno verrà a chiamarmi. Una delle tre ragazze è bionda, lentigginosa e sadica. Le spiego di aver pagato la cauzione e lei mi guarda con odio solo perché avevo i soldi per farlo. Quando mi faranno uscire, le chiedo, e lei: “....ehh, purtroppo non si sa” risponde con aria perversa e divertita. Capisco che non sarà lei a rassicurarmi e parlo con l'altra, una moretta piuttosto sexy ancora truccatissima con una lunga coda di cavallo. Si chiama Lola e mi confessa di essere una prostituta. Un poliziotto in borghese ha fatto finta di rimorchiarla nel casinò del Cesar Palace (famoso hotel di Las Vegas). E quando lei ha iniziato a parlare dei soldi che avrebbe dovuto pagarle l'ha arrestata. La cella dove siamo ha una luce al neon fortissima violacea e delle panche in muratura durissime dove è impossibile sdraiarsi. Io sono sfinita e la terza ragazza che invece sarà sicuramente condannata mi dice che lei sta aspettando di essere trasferita nella prigione vera e propria, dove starà per almeno sei mesi, non so cosa abbia fatto e non lo voglio sapere. Mi spiega che lì finalmente ci sarà un letto dove potrà riposarsi ma che intanto dobbiamo stare tutte e tre qui ad aspettare. "Stai tranquilla - mi dice - se hai pagato la cauzione massimo domani mattina ti fanno uscire”. L'altra, la biondina sadica, la guarda male e le dice: “Perché la rassicuri? Pensa al tuo culo che questa non ha problemi”. Né io né lei rispondiamo, mentre un'altra ancora mi toglie le ciabatte, le infila una dentro l'altra e mi racconta: “Ecco, queste sono di gomma, morbide, messe in questo modo le puoi usare come cuscino, noi che siamo state arrestate più volte lo sappiamo. Piccoli segreti da galera…” esclama sorridendo solidale. La ringrazio di questa “dritta". Effettivamente posare la testa sulle ciabatte incastrate una dentro l'altra è molto meglio che posarla sul marmo. Ma questa luce non la abbassano? La ragazza bionda risponde: “No, è una tortura, lo fanno apposta a tenere la luce accesa tutta la notte così ti passa la voglia di tornare qui”. Incredibile ma vero, riesco ad addormentarmi con il neon nel cervello e persino a sognare di quando ero piccola nella mia bella casa in campagna e giocavo a bagnarmi insieme a mia sorella con gli zampilli che servivano ad innaffiare l'erba. Il fatto che il cervello e la mia parte inconscia riproducano momenti sereni legati ad un'infanzia felice è la mia forma di sopravvivenza e di evasione. Stare chiusi in una cella senza poter uscire è la peggiore sensazione che si possa provare. La perdita della libertà è umiliante, offensiva e crudele, ti fa sentire una bestia indifesa senza voce e senza diritti, ti umilia fino a farti perdere le forze. Ti lobotomizza e ti rende un essere innocuo con tanta rabbia e paura da poter esplodere in una frazione di secondo. Una tigre silenziosa che può attaccare a tradimento, ma anche qualcuno che in qualche modo ha fallito e la cui vita non sarà mai più come prima. Non importa se chiuso ci sei stato una notte o anni, basta capire cosa significa, passarci per quell'esperienza, per sentire che nessuno più li fuori ti somiglia. Finalmente vengono a prendermi, saluto le ragazze e gli auguro buona fortuna. Prima di uscire passo per diversi corridoi e diverse porte chiuse. Poi finalmente l'aria. Il mattino, il suono degli uccelli, il sole del deserto del Nevada, il vento, la vita... la libertà. Non esiste dignità senza libertà. Anche Henry è lì fuori e mi sta aspettando, mi sorride e dice: “Mi dispiace tanto, è tutto assurdo, non avrei mai pensato che ci potesse succedere una cosa simile, in fondo non abbiamo fatto niente di grave". “Già - gli rispondo, ma aggiungo -, ma ho fame, incamminiamoci, troviamo un taxi e andiamo a fare colazione". E mi dirigo con passo deciso verso una vita, la mia, che non finirà di sorprendermi. Cercherò di controllarmi in futuro, di fare pace con quel senso di ingiustizia che mi opprime, di non soffrire troppo per quello che tutti hanno e danno per scontato che a me è stato tolto, tipo una madre ed un padre. So per certo che in Nevada non si può litigare, che c’è una ragione per tutto, una lezione da imparare in ogni cosa, so di avere sbagliato in questo mondo pronto a fare giustizia e a punire me, ancora una volta, so di dover far pace con la vita, so che non si scherza quando non sei più libera, so che una di quelle ragazze che ha dormito con me è salita al primo piano tra i condannati e ci starà per almeno sei mesi, so che c’è gente che ci starà per anni lì dentro e prego per loro nella mia mente, sebbene possano essere colpevoli, e so per certo che il mio sguardo, dopo essere stata in quella cella, non sarà mai più lo stesso.