Quando nel 2016 Bob Dylan ricevette il Nobel per la letteratura, oltre che raccontare, stizziti o divertiti, i goffi tentativi prima di comunicarglielo - lui che non rispondeva al telefono - poi di consegnarglielo, infine mandò in sua vece Patti Smith - lui aveva da suonare nel Mid-West - molti ebbero da dire o da ridire, sul fatto che i testi delle canzoni non erano esattamente ‘letteratura’. Si aprì un vero e proprio dibattito, e seppur il nome di Dylan fosse in lizza da tempo, si giunse alla conclusione che non c’era un’idea comune e condivisa: per alcuni, immagino anche per l’Accademia del Nobel, i testi delle canzoni sono letteratura, per altri no. Per parte mia, che non tendo a dare troppo peso ai premi Nobel (o ai premi in generale), direi che la forma canzone può essere, esattamente come la narrativa o la poesia, una forma di letteratura. Può, non è. Nel senso che a volte lo può essere, a volte no. Non è letteratura certa narrativa o certa poesia, non lo sono certe canzoni. Tutto questo per dire, essenzialmente, che seppur ci siano forme musicali nelle quali il testo ha un peso specifico interno molto alto (quelli di Dylan, tra questi, e più in generale quelle dei cantautori), giudicare una canzone, leggendo il testo slegato dalla musica, è spesso un esercizio sterile, se non crudele. Siccome però, Sanremo è Sanremo, cioè una sorta di non-luogo, in cui quel che succede lì - come nelle canzoni cantate a suo tempo proprio a Sanremo da Mietta (musica di Amedeo Minghi, testo di Pasquale Panella) - non può succedere in nessun altro posto del mondo. Si parla di canzoni, manco da esse dipendesse il futuro dell’umanità, e tutto diventa serio, anche il circo Barnum che ci gira intorno, e chi, come me, dovrebbe occuparsi di analizzare le musica e al limite il sistema musica, di colpo si trova a dare voti in pagelle, manco fossimo a scuola. Ecco, siccome Sanremo è Sanremo, eccomi qui a leggere i testi dei trenta brani, da poco pubblicati da TV Sorrisi e Canzoni, provando a tirare delle sommarissime somme. Il tutto, lo torno a sottolineare per l’ennesima volta da queste colonne, seppur io abbia sentito i trenta brani già qualche giorno fa, in occasione dei preascolti per la stampa. Un ascolto indegno, trenta canzoni di fila, con cinque minuti di pausa in mezzo, con noi che dovevamo scrivere mentre ascoltavamo, prestando quindi un’attenzione relativa, non certo attenta ed efficace.
Per questo, anche per questo, nel redigere un commento a quei primi ascolti ho bollato, per dire, la canzone di Dargen D’Amico, Onda alta, come una cosa frivola, alla Dargen D’Amico, appunto; non cogliendo invece che si trattava, a suo modo, di un atto di denuncia intorno al mondo degli sbarchi. La citazione del “navigare verso Malta” è appunto un chiaro riferimento a questo. Leggendo il testo, senza la musica divertita e danzereccia che lo accompagna, io questo grande impegno ho faticato comunque a trovarlo, mi sembrava molto più chiaro quello del periodo del lock down, contenuto un paio di anni fa in Dove si balla (lì si parlava di stare sul divano con la copertina, finendo per morirne), ma suppongo sarà un problema mio. Del resto le canzoni impegnate, a Sanremo 2024 - parlo di impegno civile e sociale - sono davvero pochissime. Amadeus lo ha detto chiaramente: meglio non parlarne, piuttosto che parlarne in maniera meno efficace, senza aggiungere poi quel tradizionale “e grazie al cazzo” che in genere si appone alla fine di una frase che esprime un concetto talmente ovvio, da essere usurato.
È indubbiamente impegnata la canzone Mariposa di Fiorella Mannoia, che per altro come quella di Dargen, trova tra le altre la firma di Cheope, al secolo Alfredo Rapetti Mogol, autore di un sacco di hit solitamente non proprio impegnatissime, ma stavolta decisamente sul pezzo. Mariposa ha forse il testo migliore, sulla figura della donna nella storia e nella quotidianità; qualcosa, mi ripeto, che mi ha richiamato alla mente la struttura di O que serà di Chico Buarque de Hollanda, portata al pubblico italiano dalla stessa Mannoia, in una traduzione di Ivano Fossati. Un gran bel testo, che dona spessore a una musica latineggiante, giocando evidentemente su contrasto tra leggero e consistente, perché in fondo la profondità si trova sempre sotto la superficie.
È impegnata anche la canzone di Bigmama, La rabbia non ti basta, anche lei a parlare di donne, in maniera decisamente più autobiografica, par di capire, e di emarginazione e discriminazione, non certo senza qualche recriminazione. A leggerlo, slegato dalla musica, il testo risulta ovviamente meno poetico, perché il genere che accompagna, il rap, è più verboso e quindi slegato dal ritmo, perde un po’ di efficacia.
Stesso discorso vale per Ghali, che gioca con un brano che mescola rap e pop, qualcosa che sa fare decisamente molo bene. La canzone, Casa mia, mette in risalto come “sotto il cielo blu”, citato più volte, non ci dovrebbero essere differenze, e così dovrebbe essere per l’idea di casa e per l’accesso al pane. Il tutto in maniera efficace su musica, meno su foglio, perché la ripetitività di alcune parole rende il tutto un po’ troppo elementare. Sono canzoni, lo so, ma questo passa oggi il convento, ovvero il fatto che io ne legga i testi e ne parli, sprovvisti di musica sotto. E quattro. Su trenta. Poi si passa a parlare d’altro.
Un tema piuttosto diffuso, ultimamente, è quello della fragilità e del dolore. E della fragilità di fronte al dolore. E del dolore di chi è fragile. Ci siamo capiti. L’anno scorso Mr Rain su questo ci ha portato a casa un bel risultato. Su questo e sui bambini e sulle ali dell’angelo, oltre che sulla canzone super pop. Quest’anno ci torna su, con Due altalene, canzone che parla ancora di dolore, ma non nello specifico di depressione. Anzi, in qualche modo lui che di depressione ha sofferto, parla di come ci sia speranza, e questo è di suo encomiabile.
Chi invece si dice fragile, già dal titolo, è Il Tre, che anzi usa il plurale, Fragili. Lui parla di demoni e di errori, anche se poi in conferenza stampa ci ha spiegato che si tratta di piccole cose, litigi coi genitori, corna con la ragazza, ma lo dice convinto, quindi non possiamo che credergli. Anche nel suo caso il testo slegato dalla musica, urban, con parti rappate anche in extrabeat, diventa un po’ difficile da seguire. Roba che sembra scontata, ma che magari con la musica appare meno scontata, magari. Duetta con Fabrizio Moro, a sua volta fragile, vedi tu il destino.
È fragile anche l’Alessandra Amoroso di Fino a qui. Lei cita Kassovitz e il suo odio, “questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. A ogni piano si ripete, fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio”. Frase bomba, la conosciamo tutti. Chi non la conosce si vergogni, e rimedi. La canzone della Amoroso è una ballad, e ai preascolti io questo tema non l’avevo colto, sembrava una canzone d’amore. Il testo è suo, di Federica Abbate e di Jacopo Ettorre, la prima con un’altra canzone in gara, il secondo con ben quattro brani, di cui questo è il solo che non è tunz tunz. Niente che possa far presagire un Nobel per la letteratura per i presenti, ma nella vita non si può mai dire.
Già che ci siamo, vediamo gli altri brani a cui ha preso parte Ettorre, che insieme a Davide Petrella in questo festival è l’autore mattatore. Ha scritto Tuta gold di Mahmood, insieme allo stesso Mahmood e a Catoo, un brano molto originale, che però non saprei dire esattamente di cosa parla. Credo di una storia successa a Budapest (la città viene citata in esergo), roba di discoteche, con fumo, lui che non vuole essere chiamato bitch, l’altro che ha cinque cellulari nella tuta gold, forse un pusher. Non ho capito nulla, ma resta che Tuta gold è un gran titolo, e la canzone, seppur complicata, funziona. Mettiamola così: come me, non la capirà nessuno che abitualmente guarda Rai 1. Io non rientro nel novero, ma chi se ne frega.
Poi ha scritto, Jacopo Ettorre, Il cielo non ci vuole di Fred De Palma, con Boverod e lo stesso De Palma. Una canzone che credo parli di una storia finita, su cassa dritta. Senza cassa dritta le parole sembrano uscite da una chat di ragazzini. Con la cassa dritta, mi è parso, anche.
Passiamo alla quarta traccia ettorriana, Governo punk dei Bnkr44. Ora, premesso che la loro è, insieme a quella di Loredana Bertè, la sola canzone che ho ancora in mente dopo un solo ascolto e a distanza di dieci giorni, un ritornello orecchiabilissimo, e premesso che, per questo, anche per questo, vorrei uccidere tutti a mani nude - quando la ascolterete capirete perché - il fatto che si citi il punk a cazzo mi avrebbe un po’ indispettito, non avessi colto la leggerezza e giovanilità di tutta questa operazione, forse perché lacero nel mio passato, e vista la vecchiaia che avanza, ho rivisto a causa di una perdita di memoria breve. Niente che io, cinquantaquattro anni, possa apprezzare, manco la citazione dei Sex Pistols. Ma non è per me che è stata scritta, senza ombra di dubbio.
Altro mattatore del festival è poi Davide Petrella, che l’anno scorso ha portato a casa tutto il cucuzzaro, firmando le prime due, Due vite e Cenere. Quest’anno ne firma quattro. Oltre alla già citata Casa mia di Ghali, l’autore, che di suo si fa chiamare Tropico, firma Un ragazzo una ragazza dei The Kolors, una sorta di “ITALODISCO parte 2”, brano che a sua volta aveva firmato. Firma poi il brano di Emma, Apnea, insieme Paolo Antonacci, la stessa Emma e Boverod. Una canzone dalle sonorità anni Ottanta, che parla di una storia tormentata, di quelle incasinate ma che poi tolgono il fiato, l’apnea appunto, del titolo. La citazione al chiamare all’avvocato, lusisaliana, è una chicca, vai a capire se volontaria. Poi firma Click Boom! di Rose Villain, a sua volta autrice insieme al marito SixPM. Una delle mie canzoni preferite di questo Sanremo, decisamente la più originale, con un testo che però, letto senza musica, spiazza, per quell’essere onomatopeico nella sua parte più urban. Un brano molto bello che dimostra come leggere i testi da soli sia sbagliato.
Ok, parliamo ora dei brani pretendenti al trono, o quelli almeno che pretendono sulla carta, a parte alcuni di quelli che ho già citato. Tutti sanno che il papa che entra a Sanremo, è in realtà una papessa, ovvero Annalisa, con una canzone che sa di Bellissima e di Euforia, parlando delle hit già uscite e del mood, rispetto allo stile invece di Mon Amour. Le firme sono però sempre quelle, Davide Simonetta, Paolo Antonacci, Annalisa stessa. A scorrere il testo velocemente si vede la reiterazione della parola che offre il titolo al brano: Sinceramente, come quella della parola “quando”, un marchio di fabbrica della nuova Annalisa, la regina del pop, che quindi bene farà anche stavolta. Il testo da solo è illeggibile, infatti va cantato e ascoltato, non letto, maledetto me.
Dai preascolti è uscita molto ben piazzata Loredana Bertè, che è la quota Vecchioni di quest’anno (intendendo con questo un augurio, non un riferimento all’anagrafe). La canzone, Pazza, a firma Bertè, Bonomo e Chiaravalli, è un rockettone autobiografico, che gioca sull’essere ritenuta pazza e l’essere pazza di sé stessa, con un incipit da paura “Sono sempre la ragazza/ che per poco già s’incazza”. Bel testo, che regge anche da solo. Sarà che la musica ancora ce l’ho nelle orecchie.
Altro brano che se la giocherà assai bene è La noia di Angelina Mango, che porta la firma anche di Madame e di Dardust, oltre che la sua. Il brano è una cumbia, lo sanno anche i sassi - sempre che i sassi o chiunque sappia esattamente cos’è una cumbia - che parla, didascalica, di noia. Frase significativa, viste le tristi critiche piovutele addosso per la legittima e ottima scelta di cantare nella serata dei duetti La rondine del padre Pino, “Quanta gente nelle cose vede il male/ Viene voglia di scappare come iniziano a parlare”. Sulla musica ci sta sopra a pennello; su carta, ovviamente, meno.
Bello il testo Ricominciamo tutto dei Negramaro, canzone che ho indicato come capolavoro e che continuo a ritenere tale. Il testo, che parla di ricominciare - anche qui un grazie al cazzo ci stava bene - raccontando una storia, arricchita d citazioni multiple di Battisti, da Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi, a quella Canzone del sole che la band andrà a eseguire nella serata dei duetti con Malika Ayane. Anche a leggerlo sta bene in piedi, e con la voce di Giuliano, il suono della band e l’accompagnamento dell’orchestra. Beh, ci sarà da star davvero felici.
Scrivere un pezzo come quello che sto scrivendo, con trenta canzoni davanti, potrebbe risultare sfinente. Per me che scrivo, ma anche per voi che leggete. Perché a nominarle tutte si finirebbe per fare un elenco estenuante di testi che, letti, non dicono molto. Detto quindi che la canzone di Gazzelle mi piace, che quella di Alfa sarà un successo duraturo, che Geolier non lo so giudicare perché non sono di Napoli e a leggerlo il napoletano mi è ostile (ma su musica regge benissimo), mi concentro su due altri testi, poi vi saluto, e applicate la vostra lettura ad minchiam ai testi mancanti, uno vale l’altro, per quel che ho scritto fin qui.
Autodistruttivo dei La Sad, che vede anche la firma di Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari, ha un testo verbosissimo. Pieno di parole, che però, attenzione, non parlano di tendenze suicide, o borderline, ma d’amore. Un testo che si fa notare, seppur io sia stato punk prima di loro che ancora non lo sono, e seppur io potrei essere loro padre. Da tenere d’occhio.
Capolavoro de Il Volo, a firma Edwin Roberts, Marletta e Tenisci, a sua volta racconta una storia, usando parole fuori dal tempo, per descrivere un amore che è un capolavoro che cade dal cielo. Il tutto, però, su una solida base pop, cosa che pensando ai tre cantanti sempre in odor di lirica, stupisce. Anche qui, tenere insieme classico e contemporaneo non è mai facile, provarci è comunque encomiabile, pur rischiando un po’ con frasi fatte come, appunto, il “cadere dal cielo”. Risultato portato a casa con caparbietà, e non era affatto scontato.
Il resto ve lo andate a leggere da soli su TV Sorrisi e Canzoni, sempre tenendo conto che i testi non sono stati scritti per essere letti, ma per essere ascoltati (sarà la centesima volta che lo ripeto - sembro Nonno Simpson), e che comunque, alla fine, per quanto qualcuno finisca per tatuarseli sul polso, le canzoni sono tali quasi sempre solo per le melodie. Testi che stanno in piedi da soli ce ne sono pochi, quello della Mannoia, dei Negramaro e pochi altri. Tutto il resto, sulla carta, sono solo parole. Spesso anche parole povere, non nel senso di semplici, ma proprio che sembrano uscite da un vocabolario cui qualcuno di crudele ha strappato tutte le pagine. Comunque, pensando a cosa resterà di noi dopo averle ascoltate tutte di fila la sera e la notte del 6 febbraio, tra gag, ospitate e quant’altro, viene da citare l’incipit del brano de I Ricchi e Poveri, a firma Cheope, Marletta e Roberts (il testo suppongo tutto di Cheope che per una volta lascia l’impegno a casa): “Che confusione…”, no, senza quel “sarà perché ti amo” che ci verrebbe spontaneo cantare.