Sarebbe spaventoso e, al contempo, antropologicamente interessante sapere cosa avrebbe potuto fare Ed Kemper se solo avesse avuto accesso a internet, così come Charles Manson o Ed Gain passando per Ted Bundy e John Wayne Gacy. Tutti persi nelle maglie della banda larga non più soli e incapaci di affrontare una società che li definisce sbagliati, ma compresi, giustificati e accolti da molteplici utenti con altrettanti disturbi della personalità, sicuramente in qualche forum o una serie di gruppi online dove poter condividere gli stessi valori di ultra-violenza, misoginia, disprezzo per gli altri e manipolazione psicologica. Ma il ventunesimo secolo è un’altra epoca del mondo, sicuramente una stagione sottotono rispetto al passato, così negli ultimi anni dobbiamo accontentarci della pagina de Il redpillatore e del Forum dei brutti.
Per chi negli ultimi anni ha passato a setacciare i bassifondi di internet, è naturale chiedersi cosa ne avrebbero pensato di certi fenomeni di oggi gli intellettuali di ieri, ben lontani dalle bagarre social e dei trend su Twitter. Soprattutto di fronte a La scuola cattolica di Stefano Mordini, che ha portato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia - e dal 7 ottobre nelle sale - il lavoro gargantuesco di Edoardo Albinati. La scuola cattolica, tra l’autobiografia e il saggio, è l’amara coming-of-age story di un gruppo di ragazzi dell’alta borghesia romana, studenti dell’istituto maschile San Leone Magno dove Edoardo è il filo conduttore tra i suoi coevi cresciuti in un ambiente disfunzionale, un mondo analizzato solamente dopo il massacro del Circeo. Angelo Izzo, Gianni Guido e Andrea Ghira gravitano attorno al buco nero di quell’educazione che più che cattolica oserei definire italiana. Nel film di Mordini non si punta il dito contro i dogmi del cattolicesimo quanto a un insieme di fattori che hanno avuto una influenza su un gruppo di persone già instabili: la famiglia, le prime pulsioni sessuali, l’omosessualità latente, le pressioni sociali sul sesso, la classe di appartenenza, gli anni di piombo, la televisione e una rivoluzione culturale che l’Italia povera e ricca, alta e bassa, non riusciva a interiorizzare ché priva dei mezzi per stare al passo con un mondo che stava accelerando. Non è un caso che la madre di uno dei ragazzi (interpretata da Valentina Cervi) rischi di farsi investire quando, uscita dalla Chiesa, vede il manifesto de I racconti immorali.
Il cattolicesimo che s’insegna a scuola, soprattutto nella pregevole scena sulla natura del male col professor Golgota (Fabrizio Gifuni), è tutto quanto c’è più lontano dagli insegnamenti di Cristo, ed è esattamente la grammatica su cui si fonda la Chiesa: lo stesso personale scolastico sembra incolpare la natura perversa del bene, e il male non sarebbe altro che un mezzo per chi lo subisce di raggiungere le più alte sfere celesti in un cammino che rende vittime e carnefici, a braccetto, uomini. A rileggere il carteggio tra Calvino e Pasolini dopo i fatti del Circeo ci si rende conto che per cogliere la realtà oggettiva di un presente, quello del 1975, tanto complicato quanto disastroso, ci voleva il sacrificio di Rosaria Lopez e Donatello Colasanti, quest’ultima sopravvissuta perché si è finta morta. E sempre in quel brevissimo e memorabile scambio tra i due intellettuali, Pasolini morirà poco dopo quell’evento, si può tristemente notare che tra la critica alla borghesia di Calvino e l’analisi delle conseguenze del capitalismo sulla cultura e sui valori umani di Pasolini, si eviscerano tutte le cause a monte delle 35 ore di sevizie, ma l’accento non è quasi mai sulla misoginia. Così come non viene approfondito il completo disprezzo per la vita delle donne: ‘pezzi di carne erano e pezzi di carne sono’ per dirla con Guido, e la totale incapacità degli uomini di relazionarsi alle donne nonostante la liberazione sessuale fosse passata, pochi anni prima, anche per l’Italia.
Se ne Le vergini suicide lo sguardo maschile sulle donne è pieno di curiosità, tenerezza e, al contempo, impotenza di fronte alla realtà; ne La scuola cattolica lo sguardo è inclemente, perché pregno del disprezzo che i ragazzi provano per quelle figure passive incarnate dalle madri, le loro e quelle degli altri. Lo stesso vale per l’esercizio della violenza: in quel gioiello di If… diretto da Lindsay Anderson l’elemento scatenante del massacro è la lotta contro una classe privilegiata che rimane sempre impunita, e la violenza è un mezzo romanticizzato per purificare il mondo. Nell’opera di Mordini la violenza è semplicemente l’esternazione della più profonda natura umana che emerge in condizioni di assoluta libertà, perché come sottolinea Edoardo la sua ‘era la prima generazione a godere della libertà in modo assoluto’. Edoardo, colui che ci fa strada nei gironi infernali della sua adolescenza, non è mai del tutto spietato con amici e compagni: in un certo senso ricorda i borghesi romani che sui social lamentano della loro condizione sociale, alcuni definendosi fuori tempo massimo flâneurs, ma che discostandosi di un grado da quello stesso status crollerebbero come un castello di carte. Risulta difficile, se non impossibile, empatizzare col narratore.
Un’altra mancanza è la durata troppo breve della prima parte - la seconda è dedicata al massacro ma non è mai morboso - con poche scene nell’incubatrice emotiva dell’ambiente scolastico che dalla prima elementare fino al diploma è la casa di tutti lontano da casa. La scuola come luogo deputato alla costruzione della personalità e di quella catena alimentare su cui si fondano i rapporto interpersonali: dominare o essere dominato. Eppure le imperfezioni e le sbavature si perdonano perché permane la sensazione che chiunque nella classe di Edoardo, senza esclusioni, sarebbe potuto arrivare alle stesse estreme conseguenze del trio del Circeo: un lancio di dadi e, forse, il libro sarebbe stato scritto da Gianni Guido e non da Edoardo Albinati. È un ritratto impietoso e chirurgico di una intera generazione: una istantanea dell’orrore come la foto annuale di classe da riguardare con nostalgia o grati di essere usciti incolumi da quelle aule piene di sadismo e con troppe lacrime abbandonate sui diari.
La regia di Mordini riporta nelle ultime essenziali battute il discorso sulle vittime, che risulteranno sempre all’opinione pubblica meno interessanti dei carnefici. Nello sguardo finale in camera di Donatella (Benedetta Porcaroli) non c’è il totale fraintendimento semantico di chi oggi si definisce survivor (si sopravvive a un evento catastrofico, a un incidente, le sevizie subite da Donatella e Rosaria sono state premeditate), ma di una final girl -se vogliamo proprio ragionare in termini cinematografici- che ha avuto la forza in via Pola, chiusa nel bagagliaio di una Fiat 127, di affrontare le proprie macerie personali in un paesaggio devastato da tre assassini, aiutati da una società coi paraocchi che oggi pensa di annullare la natura umana con la neutralità, allontanandosi sempre di più dalle cause, e anche dalle soluzioni, che portano ai femminicidi. Una società dove si censurano i capezzoli, ma non si chiudono pagine dove si fomenta l’odio, dove le donne vengono definite non persone, dove si viene ridotte un numero (i voti), da personaggi che pretendono di scopare con gli angeli di Victoria’s Secret perché credono che la donna abbia un qualche dovere atavico nei loro confronti. Cercare la parità lessicale è provare a fermare il vento con le mani, ricordarci di come un insieme di fattori antropologici, sociali e culturali facciano emergere lo stato di natura è una parte, forse, della risposta; l’altra è ripensare alla dignità e alla grazia di Donatella Colasanti - recuperate su Youtube l’intervista che le fece Enzo Biagi - nell’affrontare questa barzelletta, con risate pre-registrate, che è la società italiana.