Ho ascoltato il nuovo disco di Billie Eilish e, non so come mai, alla fine la mente mi ha portato a pensare: perché noi facciamo cantare l’Inno d’Italia ad Al Bano? Steccate o meno, che fosse disturbato dagli urli degli spettatori nello stadio oppure soltanto un po’ arrugginito, per quale atavico motivo noi italiani - che sia la finale di Coppa Italia o una ricorrenza istituzionale qualsiasi, abbiamo così poco coraggio nel valorizzare i giovani artisti? Se l’Inno di Mameli l’avesse cantato Madame, non sarebbe stato meglio? Non è forse lei la “nostra Billie Eilish”? E nel dirlo non le faccio un complimento, visto che Madame è Madame e alla collega americana ha poco da invidiare (a parte il budget per produrre la propria musica). Non solo, perché intanto che noi siamo qui a chiederci qual è il segreto di Taylor Swift - e a cercare di copiarlo con scarsi risultati - Billie Eilish ci dimostra che ancora esiste la differenza tra quello che vende e quello che rimane. E in alcuni casi, come il suo, i due aspetti coincidono. Sentite il disco Hit me hard and soft, che è tutto il contrario di quello che ci si aspetta da una popstar nell’epoca della musica fluida e dei singoli sparati ogni mese in rete. Un album vero, un concept - se non fosse diventata una definizione da boomer - che ha un fil rouge sia concettuale che musicale. Ma soprattutto, che se ne frega di andare incontro alle aspettative del pubblico e ha invece il desiderio (riuscito) di trasportarlo altrove, come ogni artista dovrebbe avere l’ambizione di fare. Altrimenti ben venga l’IA e la replica all’infinito.
In un sol colpo, però, Billie Eilish ci sbatte in faccia anche un’altra realtà: i giovani non sono tutti lobotomizzati dai social, gretini con la moda di inseguire i trend o scansafatiche che cercano il guadagno facile con i fuffa guru online. Altrimenti non si spiegherebbe perché con il brano Lunch abbia raggiunto il primo posto della classifica dei singoli globale di Spotify con oltre 9 milioni di stream nelle ultime 24 ore. Che è, sì, un pezzo pop, uptempo, provocatorio e sexy, ma anche complesso, più parlato che cantato e senza un momento ‘what the fuck’, con una vena di inquietudine che lo attraversa nonostante l’apparente giocosità e un testo pieno di allusioni non immediate. E siamo al primo singolo, perché il resto dei 9 brani - tutti in classifica - sono decisamente più oscuri, come Chihiro o la dark pop The dinner, romantici ma senza smancerie in The greatest, oppure midtempo in Birds of a feather. Come se non bastasse, c’è un ritorno all’analogico (persino le chitarre) che si sposa con il digitale dal quale dovrebbero prendere esempio un po’ tutti: dalla ballata Skinny alla soft-rock Wildflower, passando per la raffinata dance L’amour de ma vie, la dolceamara Bittersuite, fino alla sofferta Blue. C’è chi l’ha definito “il suo miglior album ad oggi” (The Telegraph) o “un simbolo di un mondo musicale che resiste alla superficialità” (Repubblica). Tutto vero, però mi sembra che manchi qualcosa che non dipende soltanto dagli artisti. Perché anche la società che si trovano attorno conta, e non poco, sia nel farli emergere che nel sostenerli. Così l’America, che è criticabile da mille punti di vista, si conferma una terra fertile per chi ha qualcosa da dire a livello artistico, e non solo per vedere prodotti musicali. L’Italia, invece, che addirottura sulla riforma del Premierato ha chiamato come consiglieri Pupo e Amedeo Minghi - quando persino Sfera Ebbasta o Lazza avrebbero avuto migliori consigli da dare alla politica - continua a dimostrarsi un paese con il complesso di Medea verso i suoi figli migliori.