“Non credo che agli avvocati piacerà molto”: è Anita Pallenberg a dirlo nel manoscritto che ha lasciato, intitolato Black Magic. Anita ha avuto delle storie con Keith Richards, Brian Jones e Mick Jagger. È stata la loro “musa”. Le definizioni, però, le sono sempre state strette: “Mi hanno dato della strega, della sgualdrina, dell'assassina. Sono stata perseguitata dalla polizia e calunniata dalla stampa. Ma non ho bisogno di pareggiare i conti. Sto reclamando la mia anima”. Decisa a vivere la sua vita rock’n’roll, senza stare dietro alle stelle che aveva amato. Per il suo stile e il carisma, venne idolatrata da Kate Moss, e come le leggende del rock visse dipendenze e distruzione. E condivise le tragedie: la peggiore forse, quella che portò al suicidio una ragazza diciassettenne, che si sparò in testa nel letto di Keith Richards. È il Guardian che riporta la sua storia, mettendola in fila con quella di altre donne che hanno sconfinato i limiti della categoria “muse di”. Tra le testimoni di questa riduzione c’è anche Patty Boyd, moglie sia di George Harrison che di Eric Clapton (ha messo all’asta le lettere d’amore di quest’ultimo, ottenendo quasi tre milioni di sterline). L’esperienza che il Guardian decide di riportare, però, è quella di Suzi Ronson al seguito di David Bowie durante il Ziggy Stardust Tour. È lei, infatti, che propose di tingere i capelli di rosso a Bowie: prendendo ispirazione, per il taglio, da una sfilata dello stilista Kansai Yamamoto, Suzi decise che quello Schwarzkopf Red Hot (così si chiama quella particolare tinta) sarebbe stato il colore del Duca. Eppure, al contrario di quello che si potrebbe pensare, lei non condivise il letto con David. Fu una delle poche a non farlo: “Andava a letto con tutte”, ricorda, “cioè, tutte andavano a letto con David e Angie (la moglie di Bowie, ndr) sembrava incoraggiarlo”.
Accanto al palco dove Bowie si esibiva, aspettava lei, “con una Gitanes in bocca e un calice di vino”, pronta a rimodellare l’immagine del cantante, i suoi vestiti, il trucco o i capelli. In poco tempo, era diventata una delle artigiane che costruivano le icone di quegli anni, testimone della voglia di Bowie di diventare famoso, anche a costo di “vendere la propria anima”. Ed era ancora lei che decideva quali ragazze potevano incontrare la band. Non tutte, purtroppo, raggiungevano la maggiore età. Su questo il Guardian sottolinea un fatto che turbò la stessa Suzi Ronson: “Ronson scrive di aver presentato a Bowie una ragazza di 16 anni. I due finiscono nella stanza d'albergo di Bowie e la madre della ragazza arriva in albergo arrabbiata chiedendo di sapere dove si trova la figlia”. Nel caos che dovevano essere quei tempi, non fu in grado di distinguere il lecito dal suo contrario: “Oh Dio. Riesce a immaginare se fosse stata mia figlia. Avrei dovuto controllare l'età delle ragazze quando salivano sull'autobus, ma quella ragazza era completamente truccata e sembrava una ventenne”. Se Anita Pallenberg ispirò Gimme Shelter dei Rolling Stones e Suzi Ronson colorò la figura di David Bowie, Yoko Ono è un’artista che va al di là della sua influenza sui Beatles e John Lennon. Arte e politica, estetica e visione del mondo si intrecciavano nelle sue opere, nelle sue parole. In un’intervista alla Bbc del 1980, è lo stesso Lennon a sottolineare come il libro di Ono, Grapefruit, fosse stato fondamentale per la realizzazione di Imagine. Il riconoscimento, però, fu omesso: “A quei tempi ero un po' più egoista, un po' più macho”, disse John, “e in un certo senso ho evitato di menzionare il suo contributo”. Il suo posto nella storia della musica, però, Yoko Ono se lo è preso lo stesso. Il potere era condiviso con loro: Yoko Ono, Suzi Ronson, Anita Pallenberg. Niente affatto ornamenti, ma icone. E la storia non le dimenticherà.