Uno sguardo americano sull’Italia: su Atrani, Roma e Venezia. Il bianco e nero pulito in ogni inquadratura. Le scelte precise e affilate della regia di Steven Zaillian (già sceneggiatore di Schindler’s List e regista di Alla ricerca di Bobby Fischer). Ripley, l’adattamento Netflix de Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith riesce a discostarsi dall’immaginario evocato dal film con Matt Damon e Jude Law. Lo fa con la lentezza e i lunghi dialoghi tra i personaggi, quasi sedute psicanalitiche, interrogazioni sull’identità di Thomas Ripley. Chi è Ripley: un assassino, un narcisista o solamente il ladro dell’identità del ricco Dickie Greenleaf, giovane americano fuggito dall’America in cerca di sé stesso? A indagare su questa sua natura è anche l’ispettore Pietro Ravini, interpretato da Maurizio Lombardi. Accanto alle grandi prove di Andrew Scott, nei panni proprio di Tom Ripley, e di Dakota Fanning, che si cala nella parte di Marge, la fidanzata di Dickie, c’è lui. I suoi occhi che si alzano interrogativi dall’agenda nera, l’inglese perfetto con cui dialoga con i vari indiziati. “May I?”, chiede ogni volta prima di accendersi una sigaretta durante i colloqui. Una prova che non ha niente da invidiare a quella dei colleghi (nel cast, tra gli italiani, c’è anche Margherita Buy). E Maurizio Lombardi sta benissimo con l’estetica, gli interni, l’aria di classicità che si respira in ogni ambiente. Ma questa è solo l’ultima prova di Lombardi, un attore che già da tempo si esprime con i più grandi del cinema. Tra le sue performance migliori c’è senza dubbio quella in The Young Pope e The New Pope, la serie di Paolo Sorrentino che racconta l’ascesa di Jude Law come pontefice. In quell’occasione Lombardi era il cardinale Mario Assente, già culto per quella danza sulle note de L’orchestrina di Paolo Conte. È poi nel cast di Romeo è Giulietta di Giovanni Veronesi e ne Il Vangelo secondo Maria di Paolo Zucca. Tutti ruoli, però, da non protagonista.
“Poche cose ma scelte bene. La casa non la puoi riempire troppo, sennò perde identità e diventa volgare e piena di polvere”, ha detto Lombardi in un’intervista a Rolling Stone a proposito dell’estetica della propria abitazione. Una sintesi che riflette quella della sua prova in Ripley: essenziale, dritta al punto, senza sbavature. Le linee dei movimenti studiate geometricamente: la sigaretta portata alla bocca, la mano che scrive e che appoggia sulle carte delle indagini. Il “click” della penna: “Il fatto è che mi piace proprio il gesto, perché il gesto è tutto”. Eppure il suo Ravini è un detective imperfetto, incapace di leggere tra le righe dell’essenza di Tom Ripley: uno stratega preciso, ma limitato dal suo stesso rigore. L’eccezione della perfezione. Lombardi, oltre a recitare, è anche regista teatrale (per anni è stato nella compagnia di Ugo Chiti) e produttore. Basta farsi un giro sui suoi profili social per capire che la sua non-naturale eleganza (è lui stesso ad ammettere di essere un “ladro” di gestualità), non è sinonimo di piatta formalità. Ci sono i colori, le magliette che stonano con il suo volto deciso, le pose “glam”. E rimane, quindi, il quesito: non è forse il caso di rendere Maurizio Lombardi protagonista? Dopo le interpretazioni in cui ha spalleggiato i grandissimi (da non dimenticare la sua presenza ne Il nome della rosa a fianco di John Turturro) ed essere passato tra le mani di Matteo Garrone e Ridley Scott, pensiamo sia il momento per lui prendersi la scena. Stavolta come frontman. Apparire in Ripley è certamente uno degli apici della sua carriera, ma la prossima volta Maurizio Lombardi può essere ambire a essere il volto della storia.