Troppo Azzurro scritto, diretto e interpretato da Filippo Barbagallo, è la storia di Dario, 25 anni, un ragazzo romano ancora aggrappato al suo equilibrio da adolescente che non se ne è mai andato da casa sua e ha gli stessi amici dai tempi del liceo. Durante l’estate Dario conosce Caterina (Alice Benvenuti), una ragazza incontrata al pronto soccorso e poi Laura, “l’irraggiungibile” (Martina Gatti). Troppo Azzurro è l’ennesima commedia di cui non avevamo bisogno? Assolutamente no, ed esordio più potente per il suo autore, regista e interprete non era possibile. La critica lo avvicina a un giovane Nanni Moretti, ma gli somiglia davvero? Non proprio, in comune con il regista di Ecce Bombo ha soltanto Angelo Barbagallo, padre di Filippo e produttore storico di Moretti che, con lui, fonda la Sacher Film nel lontano 1987, e il merito di essere riuscito, come il regista di Monteverde, a parlare di sé e dei suoi coetanei in una fase di vita in cui tutti si realizzano e qualcuno si ferma e si crede perso per sempre ma non lo è. Filippo Barbagallo in un’intervista ha detto: “Il mio primo film è come una birretta leggera sulla difficoltà di crescere”. E in parte è così. Si ha la sensazione vedendo Troppo Azzurro di scorgere una serie di segni, di simboli che rimandano a loro volta a qualcosa che conosciamo, a sentimenti che noi, venticinquenni, comprendiamo senza troppi giri di parole. “La prima volta, quando in ogni cosa che vedevo cercavo un segno, e mi pareva che nulla fosse abbastanza grigio e squallido per come mi sentivo. Anche adesso il mio sguardo cercava solo dei segni; altro non ero mai stato capace di vedere. Segni di cosa? Segni che si rimandavano l'un l'altro all’infinito”. (Italo Calvino, Amori Difficili)
Il regista dice di aver scritto un film pensando a una conversazione tipo con i suoi amici, ha recitato cercando di essere più vicino a com'è nella realtà, indagando sempre una certa leggerezza. In Troppo Azzurro si parla anche di cambiamento, della paura di fare un salto nel vuoto, di alberi che, contrariamente a noi poveri uomini, non si devono adattare alla vita nuova che cambia. E poi, finalmente, traspare un'innegabile voglia di sperimentare fregandosene dei possibili errori, di pensieri senza senso, e così costruire immagini meravigliose, come il gioco visivo che appare subito dopo la scena d’amore tra Dario e Caterina, in cui i due vengono sporzionati in più riquadri. Si ha l’impressione che Filippo dietro la macchina da presa e Dario nel film siano due uomini non così diversi ma soprattutto consci del desiderio di andare oltre, di fare qualcosa di nuovo per la settima arte, per loro stessi e per noi spettatori. Nei modelli a cui guarda Barbagallo c’è anche Woody Allen sì, e lo dicono in molti, eppure lasciando da parte migliaia di altri possibili riferimenti, resta di Troppo Azzurro una ventata di aria fresca per il cinema italiano e pure una bella lente d’ingrandimento su chi siamo noi, nell’età un po’ di mezzo, e felici? Nel film Dario di ritorno a Roma legge L'occhio di Nabokov e tra sé e sé ripete: “L'unica felicità a questo mondo sta nell'osservare, spiare, sorvegliare, esaminare sé stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio vitreo, leggermente iniettato di sangue”. Dario è iscritto alla facolta di Architettura, ha lo stesso amico fraterno di sempre (Brando Pacitto) e ben due ragazze che gli ronzano attorno, è molto carino, ha anche due genitori (Valerio Mastandrea, che sembra avergli consegnato un vecchio capolavoro, Tutti giù per terra, e Valeria Milillo) che lo coccolano e lo amano. Eppure lui non sa se è felice. Ed è normale che sia così. Ci chiamano la generazione che ha tutto e ha tante scelte, e in parte è vero. Però la felicità è un affare più complesso.
Troppo Azzurro è un film che si guarda con il sorriso stampato sulle labbra dal primo fino all’ultimo minuto, perché a debuttare con quest’opera sul grande schermo sembra essere un nostro amico. I suoi drammi, le sue insicurezze che non sono dovute a un disagio familiare o a uno specifico dolore da superare, è il perfetto riflesso di chi, a venticinque anni, sente di non essere completamente felice e non sa neppure perché. Ed è qui che torna il dolceamaro di Allen, tra timide risate e aspre domande su chi siamo e cosa vogliamo.
Rimase accanto alla finestra senza piangere
E ballando si mise a scrivere
Parole magiche e pensieri senza senso
Né attitudine
Particolari misteriosi così
(D'Annunzio, Pop X)
Se Troppo Azzurro fosse musica verrebbe dal repertorio dei Pop X. E difatti canzone migliore di D'Annunzio non la si poteva scegliere. D'Annunzio è uno di quei brani che quando li ascolti senti dentro di te qualcosa che si muove, fa simpatia, ma dopo poco ha la potenza di farti piangere. Ed è qui che si rivela l'insensatezza del nostro disagio che tutti i più grandi dicono di sapere e a cui loro riescono a dare un nome mentre noi no. Ed è qui, su questo sentimento intraducibile, a metà tra il tragico e il comico, che Filppo Barbagallo, volente o nolente, ha gridato al mondo del cinema italiano: “Ci sono”. E noi pure.