Adriana Cavarero in Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi editore) sfida il politically correct che non nomina la donna, che la esclude nella sua specificità sessuale dal linguaggio sostituendo, per esempio, il termine ‘donna’ con ‘persona con utero’ o ‘persona con mestruazioni’. Una prassi emendatoria ormai diffusa, spiega, finalizzata all’uso di un linguaggio politicamente corretto perché inclusivo. Ma soprattutto la filosofa - già ordinaria e ora professoressa onoraria di Filosofia politica all’Università di Verona e visiting professor alla New York University e alla University of California, Berkeley - sfida l’indifferenza della filosofia per il corpo materno. Attraversando la narrativa contemporanea e il pensiero filosofico e tragico greco, con incursioni nell’antropologia, nella biologia e nella teoria critica femminista, l’autrice invita a riflettere sulla gravidanza come verità essenziale esclusivamente femminile. Al riparo da ogni visione rassicurante, estetica, mistica. “C’è un tipo di conoscenza viscerale nell’esperienza della maternità “, scrive la filosofa. “La donna, nel suo corpo singolare che si apre e si lacera nel parto, tocca e conosce la materia infinita della vita che continuamente si rigenera. Il potere femminile di procreare partecipa e si fa complice di questa rigenerazione, incontrandone la dimensione viscerale, animale, potente e oscura”. È il suo lato più inquietante, emarginato da una tradizione che predilige rappresentazioni idilliche e luminose.
Professoressa, nel suo saggio lei ribalta la prospettiva. Il pensiero femminista tende a non parlare di maternità, a non mettere al centro la donna madre
Il mio non è un ritorno all’esaltazione della donna madre, a quella presunta missione procreativa delle donne nella società che perciò le rinchiude nell’ambito domestico. Mi interessa la maternità nella sua datità elementare: tutti nasciamo da donna e questo è un fatto. Ma non può essere tradotto in una prigione biologica: “Tu hai il potere di partorire e questo ti confina in casa a fare bambini”. Propongo un ribaltamento radicale di prospettiva anche rispetto a quella parte del femminismo che non vuole parlare di maternità perché lo ritiene penalizzante. Qualsiasi discorso sulla maternità, tanto più se è un discorso che pone l’accento sul corpo materno, diventa automaticamente sospetto, se non dannoso e, comunque, politicamente scorretto. Come se la maternità o la funzione riproduttiva nella quale la tradizione patriarcale ha ingabbiato le donne ci stringessero in una nuova gabbia di matrice femminista. Ma è una trappola.
Lei stessa dichiara nel testo di aver faticato a confrontarsi con i testi critici del femminismo
È stato per me difficile sforzarmi di dimenticare che gran parte della lettura critica femminista sul tema della maternità produce un effetto censorio su qualsiasi studiosa femminista che, come me, voglia scrivere sull’argomento in termini positivi e non in quelli negativi di penalizzazione del libero affermarsi della donna. Quando si scrive sulla maternità fungono innanzitutto da dispositivi censori sia il rischio di celebrarla secondo l’immagine della luminosa Madre di Dio, come dice Elena Ferrante, sia quello, più generico e popolare, di descrivere l’esperienza in toni idillici e accattivanti, facendosi così complici di una tradizione patriarcale che dipinge come felici e beate le donne confinate in casa a figliare e accudire. La mia prospettiva è diversa: tutti gli esseri umani su questa terra sono nati da un corpo di donna. Ciò non significa che le donne debbano per forza generare. La maternità ci riguarda in ogni caso, sia che diventiamo madri sia che non lo diventiamo. Questo merita una riflessione profonda.
Come si superano le barriere culturali?
Per scrivere sulla maternità bisogna uscire dall’astuzia sdolcinata delle trappole patriarcali. Ma anche da quelle che scattano, per esempio, quando il discorso sulla maternità è collegato alla biologia. L’inimicizia della teoria femminista per il dato biologico di una funzione riproduttiva che diventerebbe per la donna ‘destino’ va superata. Sulla questione dei rapporti fra biologia e teoria critica femminista racconto nel saggio una vicenda esemplare che mi è capitata di recente. Nel corso della revisione editoriale di un mio testo sulla maternità, scritto in inglese, mi è stato suggerito di evitare la parola ‘women’ sostituendola con ‘persons with uterus’ o ‘menstruating persons’. Si tratta di una prassi emendatoria ormai diffusa, finalizzata all’uso di un linguaggio politicamente corretto perché inclusivo. Detto in breve, la correttezza consisterebbe nel fatto che il termine ‘donne’ esclude coloro che transitano dal sesso biologico femminile a un’identità sessuale diversa e coloro che, pur possedendo caratteristiche dell’essere umano adulto di sesso femminile, non si identificano nel significante ‘donna’.
Nel saggio cita Simone de Beauvoir, che ebbe la fortuna di vivere in un tempo in cui era ancora concesso usare il termine ‘donna’
Beauvoir riduce la maternità in quanto fatto biologico del generare a una gabbia. E apre a un filone femminista che è per l’emancipazione da tutto ciò che distingue la donna dall’uomo, quindi soprattutto la maternità. La mia tesi si basa invece sull’assunzione del fatto biologico della maternità non come elemento negativo bensì positivo, di conoscenza. Questa conoscenza apre a una visione biocentrica della natura, ossia acquista una valenza ecologica dirompente. L’esperienza del generare porta infatti a confrontarsi con la complessità e vastità di tutti gli esseri viventi: al superamento della superbia dell’ottica antropocentrica che pone l’uomo come essere superiore, signore e padrone della natura.
La sostituzione del termine “donna” con “persona con utero” fa venire in mente la Gpa
Rimanda allo stesso meccanismo che riduce le madri surrogate a un utero. Il tema della maternità, trattato da Beauvoir in termini negativi, quasi una maledizione naturale dalla quale la donna deve affrancarsi, è il punto su cui ragionare. Non serve negare lo statuto dell’organismo femminile, biologicamente asservito alla riproduzione, serve riflettere sulla portata conoscitiva di questo fatto. Beauvoir, secondo la quale la biologia costituisce uno dei fattori principali su cui il sistema di oppressione per millenni ha soggiogato la donna, sostiene che la disgrazia della donna è di essere biologicamente votata a ripetere la vita. La scienza neo-evoluzionista mostra però proprio il contrario: lungi dall’essere mera e monotona ripetizione il ciclo della natura non ripete mai se stesso, è cambiamento, alterazione, differenziazione. La rigenerazione è generazione del nuovo.
In questa visione come vede la Gpa?
È strumentalizzazione della capacità generativa della donna. Uno degli aspetti più orrendi della contemporaneità: una manipolazione complessa per cui degli aspiranti genitori, al 90 per cento eterosessuali bianchi, comprano un bambino che abbia possibilmente i loro tratti somatici. Ovuli espiantati da donne bianche, fecondati in vitro e impiantati nell’utero di donne asiatiche e povere. La madre gestante non fornisce un patrimonio genetico ma un contenitore corporeo, e deve perciò assumere medicinali molto pesanti per non avere il rigetto dell’embrione. L’attaccamento della gestante al feto viene ostacolato anche con sedute di psicologi che convincono la madre a ritenere quel feto un estraneo. Per contratto quelle donne non possono abortire e nemmeno ripensarci, perché il loro utero è proprietà dell’agenzia che le ha assoldate.
In futuro ci saranno solo nascite in uteri artificiali?
Questa è fantascienza. È il vecchio sogno del patriarcato che spera non ci sia bisogno delle donne per procreare. Come nella mitologia greca, che narra di Athena nata dalla testa di Zeus o di Dioniso nato dalla sua coscia. Nella nostra contemporaneità al posto dei miti ci sono tecniche di appropriazione dell’utero di donne povere. Una donna non è felice di fare figli per una coppia in cambio di soldi: queste sono narrazioni di marketing. Certo, ci può essere il caso, avvenuto in passato nelle famiglie contadine, di una donna con dieci figli che ne dona uno alla sorella sterile. Ma non accade quasi mai che oggi una donna faccia un figlio per solidarietà con un’amica. Anche questa è una narrazione di marketing.
Cosa pensa delle coppie omosessuali e del loro diritto ad avere figli?
Che bisognerebbe agire sulla legge dell’adozione. La prima cosa da fare sarebbe promulgare una legge sull’adozione per le coppie gay stabili. E anche una sulla fecondazione artificiale per le donne single. L’Arcilesbica ha combattuto molto per questo. La madre surrogata è ora definita ‘donna gestazionale’: inventare nuovi vocaboli, sostituire ‘desiderio di genitorialità’ a ‘maternità’ serve solo a cancellare la differenza biologica. Non è la maggioranza della popolazione o degli intellettuali a chiedere questo ma una minoranza molto ben organizzata che ha accesso ai media e si presenta come avanguardia.
La sinistra come affronta la questione a suo avviso?
C’è una sinistra, di cui fa parte Elly Schlein, che considera la Gpa come un traguardo importante verso il progresso civile. Anche la modificazione del linguaggio fa parte di questa malintesa idea di progresso. C’è la convinzione che essere progressisti significhi stare sempre con le avanguardie, con i rivoluzionari alfieri delle libertà. Ma libertà, a mio parere, non è comprare un utero. Questo è un abbaglio, un malinteso che offende la dignità delle donne e va contro la storia dell’emancipazione femminile. Le maggiori correnti del femminismo infatti sono contrarie. È oggi soprattutto la cosiddetta corrente del trans-femminismo a insistere sulla maternità surrogata.