Giorni fa ho avuto un’illuminazione. Io passo le giornate in cerca di illuminazioni. O quantomeno di stimoli, di input, di idee che poi mi trovo a sviluppare nel resto delle medesime giornate, più spesso delle giornate seguenti. Avendo scelto di occuparmi nella vita di raccontare cose, spesso inerenti alla musica, ma avendo anche deciso che la musica avrebbe occupato, nei miei racconti, quasi sempre una porzione marginale, in termini di spazi occupati, non certo di centralità, sono costretto a passare le giornate cercando appunto illuminazioni, ispirazioni, input, idee, chiamatele come volete. E giorni fa ho trovato uno spunto molto interessante, chiamiamolo così, guardando un vecchia puntata di Tintoria Podcast, neanche troppo vecchia tenendo conto il numero spropositato di puntate che Daniele Tinti e Stefano Rapone, i due padroni di casa, hanno registrato e pubblicato. La puntata è quella che ha Dario Brunori, in arte Brunori Sas, come ospite. Una puntata molto divertente, cosa che non mi ha affatto sorpreso conoscendo Dario e avendo visto come anche i suoi concerti siano in realtà spesso un perfetto mix di stand-up comedy e musica, seppur non dichiarata. A un certo punto, tra un aneddoto divertente e l’altro, Dario ha iniziato a parlare con Stefano Rapone di reflusso gastrico, tirando in ballo il famosissimo professor Fussi. Non è di reflusso gastrico che intendo parlare, ma nel raccontare questa sua unica visita foniatrica, avvenuta tipo quindici anni fa, quando cioè gli è stato diagnosticato il medesimo, Dario ha detto una cosa che mi ha letteralmente spiazzato. Ha detto che le corde vocali, che il professor Fussi ha studiato attraverso strumenti vari, compresa qualcosa che sembrava una pistola, sono molto simili, per forma, all’apparato genitale femminile, leggi alla voce figa. Lo so, ci avete già pensato da soli, avete cioè momentaneamente smesso di leggere queste mie parole, siete andati su Google e avete scritto “corde vocali”, spostando nel mentre la ricerca nella sezione “immagini”, giusto per avere riscontro della veridicità di quanto affermato da Dario Brunori, forti comunque di una vaga memoria a riguardo, frutto di non so che visione o situazione nella quale avete già visto come sono fatte le corde vocali, in effetti molto simili a una figa, ma nel caso non lo aveste fatto, o nel caso vi faccia sentire più a vostro agio con il vostro lato cattolico, quello che poi aziona con una certa violenza i sensi di colpa, dirvi che non lo avete già fatto andate ora a vedere su Google come in effetti sono le corde vocali, così che potrete riscontrare che sono esattamente simili a una figa. Se non avete negli anni accudito il vostro lato cattolico, quello che aziona in maniera violenta i sensi di colpa, ma al contempo avete avuto scarsa o nulla frequentazione di fighe, magari siete donne e per questioni meramente tecniche avete dei vostri genitali una conoscenza dall’alto, quindi che si ferma al monte di Venere, appunto, più o meno provvisto di peli, queste sono scelte personali che esulano il racconto in corso, potreste anche andare a chiedere a Google Immagini di mostrarvi come sia fatto l’apparato genitale femminile, vi consiglio di non chiedere di mostrarvi come sia fatta una fi*a perché ho idea, neanche troppo vaga, che le suddette immagini attingerebbero in maniera corposa al mondo della por*ografia, più che a quello dell’anatomia, quindi con ampio corredo di ca*zi, ca*zi che per altro impedirebbero di osservare con attenzione l’esatta conformazione della suddetta fi*a. Comunque, fidatevi, c’è una certa attinenza tra corde vocali e apparato genitale femminile, questo senza nulla voler togliere alla battuta di Brunori, che a Tintoria parlava di una visita foniatrica molto simile a una visita ginecologica, la sua indubbia potenza e efficacia.
Specificato quindi, a partire dalla mia visione di una puntata di Tintoria di qualche mese fa, ospite Brunori Sas, io amo molto Tintoria Podcast e cullo sempre dentro di me l’idea che prima o poi prenderò il coraggio per andare a fare stand-up comedy, che è poi quello che da anni faccio in forma scritta, senza quindi correre il rischio di avere di fronte un pubblico che non ride, se voi non ridete alle mie battute io non ne sono messo a immediata conoscenza, e il fatto di scrivere mi consente comunque in corsa di correggere il tiro, cosa che dal vivo suppongo avverrebbe con più difficoltà, questo a prescindere dal fatto che per fare stand-up comedy dovrei comunque uscire di casa, previo essermi vestito per l’occasione e essermi sfilato le amate ciabatte per infilare scarpe, sarei dovuto andare in un locale o in uno studio televisivo e fare tutta quella serie di microazioni, come socializzare con gente, sottopormi comunque al giudizio diretto di gente che non solo è lì in quanto pubblico, ma è lì perché fa in effetti stand-up comedy, quindi teoricamente colleghi e colleghi che, a differenza mia, è riconosciuta ufficialmente come stand-up comedian, io me lo racconto e tengo questa cosa in serbo laddove prima o poi dovesse piovermi addosso una querela per diffamazione, scrivere articoli ti rende più soggetto a querele che fare stand-up comedy, dove la battuta greve è comunque parte del discorso, coerente al discorso. Specificando quindi, a partire dalla mia visione di una puntata di Tintoria di qualche mese fa, ospite Brunori Sas, non fatemi perdere il filo, che sì, le corde vocali sono simili a una fi*a, per sicurezza proprio ora ho momentaneamente smesso di scrivere e sono tornato a guardare su Google Immagini le corde vocali, sulla fi*a mi picco di non aver bisogno di ripassi, ecco, mi è venuto in mente un film che ho visto, si fa per dire, oltre venticinque anni fa, durante una cena fatta con la mia compagnia di amici di allora, in quella che era allora la casa dei miei genitori e mia, miei genitori assenti in quello specifico momento. Era il periodo in cui facevo l’obiettore di coscienza in un dormitorio di Falconara Marittima, dico questo non perché sia un aspetto che in qualche modo impatterà nella trama, ma più che altro perché in effetti sono cresciuto con una forte educazione cattolica, e nonostante quel che si possa evincere dal leggere quel che scrivo continuo a fare giorno dopo giorno i conti con i miei sensi di colpa, nello specifico tirati in ballo per il mio raccontare più che per la trama del racconto, credo che dopo oltre venticinque anni la faccenda sia in effetti entrata in prescrizione. I miei allora erano responsabili di un gruppo legato alla Società San Paolo, quello che editava Famiglia Cristiana, per cui si trovavano spesso a essere via nei fine settimana, in giro per l’Italia a fare incontri con altre famiglie. Quando loro non c’erano, quindi, mi capitava di fare cene con gli amici, sempre alla presenza di Marina, all’epoca la mia fidanzata, oggi mia moglie e madre dei nostri quattro figli. I miei turni nel dormitorio per senza fissa dimora di Falconara presso il quale svolgevo il mio ruolo di obiettore di coscienza erano in realtà spalmati quasi tutti i giorni tra ora di colazione e ora di cena, lasciandomi libero tutto il resto del giorno, fatto che ovviamente circoscriveva non poco le possibilità di fare dette cene. Comunque una sera in estate ci troviamo a cena a casa mia, e decidiamo di vedere insieme un film. Stiamo parlando della prima metà degli anni Novanta, non c’era internet, o almeno era faccenda che riguardava pochi eletti, non c’erano quindi le piattaforme come Netflix o Sky, se volevi vedere un film che non passava in quel preciso momento in tv, ancora erano dittatorialmente vigenti i palinsesti televisivi, dovevi andare da un noleggiatore di film e augurarti di trovare esattamente la videocassetta che cercavi. I più ricchi, magari, usavano già i DVD, non io. Di videonoleggiatori, in Ancona, la città dove sono nato e dove sono vissuto fino al 1997, anno nel quale sono partito in esilio per Milano, ce n’erano diversi, a parte i noti Blockbuster, uso il plurale anche se a memoria ce n’era uno solo, in via De Gasperi, per altro in un palazzo che da anni versa in rovina, senza più né Blockbuster, sparito da tempo e poi sostituito da una catena di quei negozi che vendono poltrone e divani, ma neanche appartamenti, roba degna del centro di una città come Detroit, affollata di zombi in balia del fentanyl da che ha chiuso l’industria automobilistica, pur essendo invece in Ancona, ecco, a parte i noti Blockbuster, quindi, ce n’erano di più piccoli, oggi diremmo romanticamente di quartiere. Piccoli negozi che ovviamente nulla avrebbero potuto contro un gigante come Blockbuster, girava leggenda di proprietà di Berlusconi, e quindi afferente all’universo Fininvest, non fosse stato per quel che in genere tenevano occultati in un angolo, dietro una tenda di stoffa pesante, lo spazio dedicato ai film a luci rosse. Tempo fa ho raccontato di un noleggiatore che si trovava vicino a quella che, cronologicamente rispetto ai fatti che vi sto raccontando, era il terzultimo appartamento nel quale eravamo vissuti, parlo sempre della mia famiglia di origine, in via Vittorio Veneto, zona centralissima a due passi dall’altrettanto centralissima piazza Cavour. Appartamento, anche questo l’ho raccontato anche troppe volte, nel quale la mia famiglia era andata a vivere nel 1972, quando avevo tre anni, dopo che il terribile terremoto che aveva devastato Ancona a gennaio, rendendo inagibile il nostro appartamento sulle scale di San Francesco, in centro storico, un tempo luogo popolare, oggi ovviamente iperelitario. Essendo parte della città andata in rovina, pur in assenza fortunatamente di vittime, il Comune aveva deciso di chiedere a chi avesse appartamenti sfitti, appartamenti non resi inagibili dal terremoto, di metterli a disposizione di quelli che, come noi, erano sfollati. Noi finimmo quindi nell’appartamento lasciato sfitto da colui che nel mentre era diventato prefetto di Macerata, col che potrete ben capire quanto quel quartiere fosse lontano dal nostro status sociale. Io ero figlio di un ex controllore dei tram, entrato poi in ufficio sempre nell’azienda tramviaria locale, e di una casalinga, che saltuariamente batteva a macchina tesi di laurea, io ultimo di tre figli, non esattamente l’alta borghesia anconetana. Via Veneto era invece una via da alta borghesia, ma questo, a parte aver acuito un mio senso di fastidio nei confronti delle classi più abbienti, nonché un senso di rivalsa che ho chiaramente poi riversato sul mio lavoro, non credo sia attinente a quel che sto raccontando. Lì a pochi passi da dove abitavo c’era il Palazzetto dello sport, ormai da decenni spostato in periferia, e anche un videonoleggio, Venere Video. A gestirlo un omino basso di statura, che avrebbe poi passato gli ultimi anni della sua vita facendo il sagrestano della Cattedrale di San Ciriaco, questo, attenzione, è invece un dettaglio fondamentale. Venere Video, infatti, occupava una stanza piuttosto ampia proprio a due passi dal Palazzetto dello Sport, dove si trovavano in prevalenza vecchi film d’essai. Sì, forse per differenziarsi proprio dal repertorio di cassetta di Blockbuster Venere Video proponeva videocassette di film d’autore, in bianco e nero, quasi mai presente negli store berlusconiani o presunti tali. In realtà questa è una ricostruzione ex post che non può rispondere al vero, perché Venere Video è stata la prima videoteca di Ancona, quindi la scelta di dedicarsi al cinema d’essai era precedente all’arrivo di Blockbuster in città e in Italia. Quel che però ha reso Venere Video leggendaria è appunto è la leggenda mai confermata che il gestore della videoteca fosse in realtà un produttore di pellicole a luci rosse, di qui la scelta del nome da dare al suo negozio, pellicole che inizialmente trovavano spazio in una stanza laterale dell’ampio locale dove si trovavano i film d’essai, e che soprattutto avevano per protagonisti e soprattutto protagoniste personalità dell’Ancona bene, molto bene. Non c’è città di provincia, credo, che non abbia leggende del genere. Il radicale passaggio del tipo da produttore e noleggiatore di pellicole porno a sagrestano della Cattedrale credo sia qualcosa che invece supera ogni tentativo di applicare la fantasia alla cronaca locale. Comunque, è proprio lì, a Venere Video, che abbiamo noleggiato il film che volevamo vedere, non per una qualche forma di anticapitalismo, aspetto che comunque caratterizzava più o meno tutti i miei commensali, chi più chi meno, quanto piuttosto perché quella sera avevamo deciso di pasteggiare guardando finalmente un grande classico del porno, Gola Profonda. Il film di Gerard Damiano, del 1972 come il terremoto di Ancona, vai a capire se ci sia una quale correlazione tra le due cose, racconta la storia di Linda, interpretato da Linda Lovelace, una prostituta che non riesce mai a raggiungere l’orgasmo. Dopo vari tentativi, passati quasi sempre attraverso le dimensione spropositate dei suoi partner, tutte comunque insoddisfacenti, Linda va da un medico che scopre che in realtà Linda ha il clitoride nella gola, di qui il titolo. Da quel momento la ragazza inizierà a praticare fellatio a gogo. Gola Profonda, a parte per la sua protagonista, l’esperta di apnee Linda Lovelace, in realtà attrice dalla vita particolarmente tragica, a partire dal fatto che la stessa protagonista dichiarerà anni dopo di essere stata sottoposta a minacce durante tutte le riprese del film, ai tempi non lo sapevamo, altrimenti avremmo stigmatizzato la cosa, e ai tempi non era poi così chiaro come funzionasse l’industria della tripla X, parliamo di trent’anni fa, ripeto, senza internet, senza piattaforme televisive, nessuno aveva ancora visto The Deuce, per dire, Gola profonda, quindi, a parte per la protagonista, Linda Lovelace, è famoso per essere stata una delle prime pellicole a luci rosse con una trama, fatto fino a quel momento praticamente inconsueto (e credo anche oggi, non sono un appassionato del genere, confesso). Un film divenuto un culto, quindi oggetto di trattati nel campo della controcultura, anche di quella più spesso impegnata nel raccontare la scena musicale. Di qui l’idea di vederlo, una sera d’estate, a cena, in compagnia. Scelta quantomai sbagliata, provateci voi a vedere enormi ca*zi e Linda Lovelace che li affronta con pervicacia, mentre state mangiando prosciutto e melone o un’insalata di riso fresca. Non per tenere a bada i nostri sensi di colpa, ripeto, dopo venticinque anni è scattata indubbiamente la prescrizione, ma abbiamo mollato quasi subito la visione, anche piuttosto infastiditi, prendendo a programmare invece la vacanza che avremmo affrontato di lì a breve, in vespa e auto, dalle parti della Toscana. Vacanza durante la quale io mi sarei rotto la clavicola sinistra, saltando come un coglione su una panchina di plastica, di quelle leggerissime da giardino, durante un concerto dei Kunsertu, band siciliana di folk-rock, scivolando di conseguenza a terra e passando il resto della vacanza dolorante a provare a dormire in sacco a pelo, in tenda, e guidando poi durante il giorno, una vera vacanza di dolore. Dolore poi culminato al mio ritorno con una visita fatta al pronto soccorso dell’allora ospedale di Ancona, l’Umberto I, in centro, io nel mentre non abitavo appunto più in centro, ma nella periferica Posatora, accompagnato da mio padre. Dove prima mi applicheranno una fascia a cerotto, perché ho scoperto che le fratture alle clavicole non prevedono fortunatamente gesso, fasciatura che mi ha però causato un potentissimo eritema, con nuova visita al pronto soccorso, fasciatura a cerotto strappata violentemente da un infermiere che mi ha sostanzialmente praticato una ceretta a tutti i peli del petto, e nuova fasciatura, molto simile al simbolo dell’infinito, in una sostanza simile alla gommapiuma, imbragatura che per un paio di settimane mi ha permesso di non tornare a svolgere la mia attività di obiettore di coscienza, maledetti Kunsertu, band che ho scoperto proprio ora, qualcuno candidi Google al Nobel, essersi sciolta esattamente un anno dopo quel mio incidente, nel 1995, salvo poi riessersi messi insieme ne 2016, Dio non voglia che mi capitino a tiro.
Di lì a breve, comunque, la mia vita sarebbe totalmente cambiata, perché ripreso a fare il mio servizio nel dormitorio sarei stato aggredito da un ex ospite, espulso a vita dalla struttura, che proverà a ferirmi con un taglierino una volta finito il mio turno, in realtà prendendole di santa ragione, erano anni vagamente hardcore per me, con conseguente mio spostamento presso gli uffici della Caritas, a non fare praticamente un cazzo, fatto che, congiunto alla fine dell’avventura degli Epicentro, band punk nella quale ho militato per qualche anno come principale autore e chitarrista, ha portato alla mia scelta di fare della scrittura la mia arte, e quindi il mio mestiere, e eccoci qui. Eccoci qui a parlare di una estate di trent’anni fa, certo, ma a partire dalla visione recente di una puntata di un podcast, Tintoria, ospite Brunori SaS. Perché è stato quel dire di Dario Brunori riguardo le similitudini tra corde vocali e apparato genitale femminile che mi ha spiegato da dove è nata la faccenda del clitoride di Linda, la protagonista di Gola Profonda interpretato da Linda Lovelace, o almeno così credo di aver intuito. Vallo a capire se l’illuminazione di aver dato una spiegazione a Gola Profonda partendo dal professor Fussi che indaga nella gola di Brunori sia stata scusa per parlare di Tintoria, di videonoleggi, della storia del tipo di Venere Video che poi va a espiare facendo il sagrestano alla Cattedrale di San Ciriaco, del mio servizio civile, dei Kunsertu, del mio ritenermi uno stand-up comedian non praticante o di come ho cominciato a scrivere. La mia scrittura funziona così, da una intuizione, un punto di partenza, e poi procede per strattoni e deviazioni, fino a arrivare al punto che l’intuizione iniziale mi ha fatto vedere. Questo, ovviamente, senza tenere conto di quello che nel mentre, mentre cioè sto scrivendo queste parole, succede intorno a me, sia a livello fisico, vivo in casa con altre cinque persone, che virtuale, mi arrivano messaggi, commenti ai miei post, cercando cose su Google mi spuntano fuori cose inaspettate. Tutto materiale che tengo lì, da qualche parte, a meno che non siano in qualche modo attinenti a quel che sto scrivendo, e Dio solo sa in base a che logica io stabilisca cosa sia o non sia attinente a quel che scrivo. Attinenza e punto di contatto, inteso come labile linea di confine, anche un punto, impercettibile alla vista, ma sufficiente a farti dire, le Marche confinano con Emilia Romagna, Repubblica di San Marino, Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo. Convincere chi ho di fronte, nello specifico chi mi legge o ascolta, ma prevalentemente chi mi legge, chi mi ascolta è più facilmente convincibile per le facce, le pause, il tono della voce, ecco, convincere chi ho di fronte, nello specifico chi mi legge, che quei labili punto di contatto, inteso come labile linea di confine, sia in effetti credibili, assolutamente credibile, di più, sia la sola e unica via per raccontare una determinata cosa, è la parte preponderante del mio lavoro, seconda solo a pensare e sviluppare, quindi scrivere, quei racconti su quei punti di contatto e linee di confine basati. Per dire, è da un po’ di ore che mi gira per la testa l’idea di scrivere qualcosa sul singolo che vede per la prima, e spero ultima, volta assieme Elodie e Tiziano Ferro, o forse dovrei cinicamente dire Tiziano Ferro e Elodie, visto che è evidentemente per rilanciare il progetto musicale di lui che questa canzone ha visto la luce. Feeling, il titolo, brano che è già stato raccontato altrove da altri, più precisi, puntuali e pazienti di me, scritto a quattordici mani, ormai funziona così, e di una bruttezza che rasenta quasi l’inumano, perché puoi concepire una canzone brutta, figuriamoci, in alcuni casi si dice talmente brutta da fare il giro completo e diventare bella, ma una canzone in grado di cominciare a girare in loop, unico caso realmente esistente di moto perpetuo, principio fisico che vuole un corpo in moto infinito, appunto, contro la legge della termodinamica, quindi in assenza di energia, fatto di per sé impossibile per la presenza dell’attrito, attrito evidentemente rimosso grazie all’uso del digitale, un po’ come ai tempi avvenne coi rumori di fondo, salvo poi rimetterli digitalmente per creare quella profondità che erroneamente molti identificavano col fascino analogico della puntina che fruscia sul vinile, ecco concepire una canzone tanto brutta da generare un moto perpetuo, quindi impossibilitato in alcun momento a tracimare nel bello, è cosa rara, priva di fascino ma rara. Lo dice uno che, finito il classico, era quasi convinto di andare a fare Fisica, salvo poi switchare su Storia Moderna, questa cosa del moto perpetuo mi ha sempre colpito, ovvio che prima o poi l’avrei piazzato da qualche parte, oggi era il giorno. Perché passi l’idea di fingersi eterosessuale, passi si fa per dire, visto quanto Tiziano ci ha sfranto le palle col suo coming out, il bullismo subito, le parole che sono importanti e tutto il resto, comunque passi quello, la narrazione anche attraverso le canzoni è figlia della finzione, ma vedere un ultraquarantenne pronunciare l’accrocchio di parole Ghetto Blasta, dai, non si può sentire, come non si può sentire citare il Dom Perignon come un Guè o uno Sfera Ebbasta qualsiasi, la Porsche, Dio santo, la Porsche, roba da trappettaro che ha coscienza che nella vita il cash lo farà col product placement, non certo con gli streaming. Una cosa imbarazzante, al punto che mi viene quasi da provare affetto per Elodie, evidentemente chiamata a fare la crocerossina del caso. Intendiamoci, stando alle prevendite dei biglietti negli stadi credo che una certa crocerossinitudine serva anche a lei, ma almeno a livello discografico lei è decisamente più in salute di lui, e anche nel pezzo, diciamolo, lei esce con le ossa decisamente meno rotte del suo collega. Collega che a quarantaquattro anni, quindi relativamente giovane, paga lo scotto di essere incredibilmente vecchio in un mondo ipervelocizzato, dove l’urban, che lui ha indubbiamente contribuito a portare in Italia, ormai una vita fa, è nel mentre diventato decisamente mainstream ma dove quel modo piacione di porsi, posticcio, risulta assolutamente finto e fuori tempo massimo. Ma sto parlando seriamente, per quanto proceda per flussi sono comunque sufficientemente lucido per accorgermi della piega che le mie parole prendono mentre lo stanno facendo, in presa diretta, dopo aver parlato di me e i miei amici che mangiamo prosciutto e melone mentre Linda Lovelace interpreta la pornostar con il clitoride in fondo alla gola direi che sono decisamente andato fuori pista. Fugherò, ovviamente, il rischio di collegare in qualsiasi modo l’aver poco fa citato Elodie, titolare del culo che ha fatto sbottare un novantenne e non lucidissimo Gino Paoli riguardo la musica contemporanea, lei stessa gli ha velatamente risposto, a Gino Paoli, confermando che era del suo culo che si stava parlando, lei che il culo lo ha in effetti ben esibito tra video, foto e live, ecco, fugherò il rischio di collegare in qualsiasi modo l’aver poco fa citato Elodie, titolare del culo divenuto oggi simbolo di una presunta scorciatoia dell’ondata di popstar femminili che proprio recentemente si sono affacciate al mercato dopo decenni di assenza ingiustificata, e l’aver io in qualche modo allestito un parallelo, complice il cantautore Brunori Sas, quello che nell’ultimo singolo La ghigliottina cita espressamente la parola “fi*a”, attenzione, fugherò il rischio di collegare in qualsiasi modo l’aver poco fa citato Elodie, titolare del culo divenuto oggi simbolo di una presunta scorciatoia dell’ondata di popstar femminili che proprio recentemente si sono affacciate al mercato dopo decenni di assenza ingiustificata, e l’aver io in qualche modo allestito un parallelo tra corde vocali e apparato genitale femminile, genericamente indicato come figa, figuriamoci, mi piace forzare la mano al lettore, lo avrete notato, ma sono consapevole che esiste comunque un limite invalicabile, questo. Però, siccome dal parallelo tra corde vocali e apparato genitale femminile sono partito, e per mestiere sono uso ricondurre, prima o poi, i miei testi scritti a qualcosa che abbia a che vedere con la musica, e siccome ho a un certo punto di questo testo scritto, io i miei testi scritti li chiamo pezzi, proprio per questo ambiguo rapporto con la musica, è noto, e siccome ho a un certo punto di questo pezzo detto che a interferire con il dipanarsi delle trame che racconto intervengono a volte fattori esterni, indicando distrattamente il mondo virtuale della rete e dei social come ipotetica fonte, credo che non ci sia miglior modo per onorare un pezzo come questo, cominciato parlando, per bocca di un cantautore colto e ironico come Dario Brunori, in arte Brunori Sas, dell’estrema somiglianza morfologica tra le corde vocali e l’apparato genitale femminile, in arte la fi*a, che andare a raccontarvi di un brano che ancora non ha visto la luce, parlo di mercato, e che con buona probabilità si intitolerà Broncoscopia. Il brano, al momento, si intitola con un susseguirsi scomposto di consonanti e vocali, scelti dalla sua autrice e interprete, La Complice, giovane e talentuosissima cantautrice marchigiana, proprio perché incapace di dare al brano un titolo efficace. È successo qualche ora fa sui social, La Complice è apparsa, ha raccontato di avere una canzone quasi finita ma ancora senza titolo, fatto per lei inconsueto dal momento che in genere una delle prime cose che ferma mentre scrive un brano è proprio il titolo. Il motivo di questa storia, anzi, di questa serie di stories, su Instagram, il chiedere aiuto ai propri followers a riguardo, della serie andatevi a ascoltare il brano e ditemi che titolo le dareste. La canzone è molto bella, vagamente alla Maria Antonietta, come mood, e parte parlando di andare a scavare tra le costole, alla ricerca di qualcosa. Vista le stories, e ascoltato il bel brano, caricato da La Complice su Soundcloud, ho espresso la mia idea, Broncoscopia. Un titolo che parla appunto di andare a indagare dietro le costole, nei bronchi, decisamente di impatto, e anche vagamente afferente al mondo indie, spesso affezionato all’idea di vincolare le singole canzoni a singole parole a effetto. Parlare d’amore, o di rapporti interpersonali, partendo da un esame clinico, è decisamente efficace. Broncoscopia, ripetete la parola a voce alta, è già musicale di suo, potrebbe addirittura aspirare a essere il titolo di un intero album, o forse di un romanzo, di un film. Inutile dire che la broncoscopia si effettua introducendo una sonda a fibra ottica lungo la laringe, che è poi la parte del corpo umano che ospita anche le corde vocali, tutto torna. Ora potrei dare al pezzo in questione, no, non Broncoscopia di La Complice, o come poi alla fine deciderà di chiamarla, le altre proposte, da Costole a Restare decisamente meno incisive, parlo di questo pezzo qui, che state leggendo, ecco, ora potrei dare a questo pezzo che state leggendo una sua circolarità, una simmetria, andando a parlarvi di Isteroscopia, che poi è l’esame che indaga sull’utero a partire dall’introduzione di una sonda a fibre ottiche all’interno dell’apparato genitale femminile, in fondo Brunori parlava proprio di una visita foniatrica come di una sorta di visita ginecologica, e volendola virare in arte, arte comunque attinente al campo della musica, potrei citare l’artista inglese Mercedes666, autrice dell’EP Error_666, uno dei cui video promozionali, legato al singolo Cum Attack, prevedeva appunto le riprese di una sonda intenta a perlustrare le sue intimità, vedi tu come di colpo sono diventato pudico e bigotto. Performer e musicista, oltre che sex worker, Mercedes666 è artista che decisamente non ambisce a entrare nel mainstream, il suo riportare pagine del Manifesto Cyborg di Donna Haraway in homepage del suo progetto è piuttosto chiaro a riguardo, come è chiaro che ho appena superato il limite massimo di input che posso inserire in un unico pezzo, la distanza coperta tra Brunori Sas seduto tra Daniele Tinti e Stefano Rapone a parlare di visite foniatriche e Mercedes666 che performa lasciando che una sonda a fibre ottiche passi dalla sua vagina credo sia una forchetta anche troppo larga dentro la quale mi sono mossa. Quindi chiudo suggerendovi di andare a cercare La Complice, con la medesima solerzia con cui vi invito a tenervi alla larga da Feeling di Tiziano Ferro e Elodie. Tutto il resto è stand-up comedy fatta da casa, in ciabatte.