La prima cosa che noto di DrefGold quando lo incontro è il suo abbigliamento: collanone al collo, cappello pazzo in peluche verde acceso, abbinato a scarpe e maglietta, sempre sui toni del verde. Una combo che lo fa apparire, almeno in superficie, come tantissimi altri rapper e trapper. Andando oltre quello che si vede, però, Elia Specolizzi è molto più che uno di quei rincoglion*ti con cui spesso capita di parlare quando ti ritrovi a fare interviste in questo mondo. Forse non si esprime come un poeta, usa intercalari a sproposito e parla così veloce che a volte si fa fatica a stargli dietro, ma quello che racconta è interessante e tutto tranne che superficiale. Col suo nuovo album “Goblin” torna sulla scena a tre anni da “Elo”, progetto che lo ha portato nel mondo dei big del rap e della trap. Non possiamo dire che il suo sia un disco indimenticabile, ma sotto il cappello di peluche e l’aria da trapboy c’è molto di più, come ha dimostrato nella nostra intervista, dove abbiamo parlato non solo di “Goblin” e del suo immaginario, ma anche del pubblico del rap, dei featuring con Tedua e Tony Effe, e del live a San Siro con Sfera Ebbasta, ma non solo.
Come sono andati questi tre anni passati tra la pubblicazione di Elo (uscito in pieno periodo Covid) e l’uscita di Goblin?
Avevo ultimato Elo molto prima che iniziasse la pandemia e quando è uscito io, come nessun altro, ho avuto modo di portare l’album in giro e fare concerti. Quando abbiamo ripreso a suonare non mi sono mai fermato, siamo stati in giro per due anni. Questo non ha tolto tempo alla creazione di nuova musica, ma sono successe tante cose e ho anche cambiato realtà discografica. Così siamo arrivati a questo disco, che ho concluso nell’ultimo anno e mezzo trovando direzione, immaginario e quei pezzi che ti fanno dire “ok, ho in mano dei brani portati per l’album”.
E come l’hai vissuta?
Non troppo facilmente, perché quando sei fermo e vedi gli altri che escono con i loro brani o dischi, mentre tu vai in studio e continui a produrre, ma di fatto sei fermo, non è facilissimo. Però è stato obbligatorio, per far sì che fosse tutto perfetto.
L’immaginario “Goblin” è fortissimo. Tu ti senti così, come il personaggio dei fumetti e come Willem Dafoe nel primo Spider-Man di Sam Raimi?
Io sono in Goblin adesso, è la mia impersonificazione in questa scena. Non bisogna pensare a un nemico da sconfiggere, ma all’immaginario e all’estetica di questo personaggio, che ascoltando bene il disco si può arrivare a capire in maniera più chiara. Nel mondo di tutte queste creature, dai Gremlins a Sloth dei Goonies, il Goblin è il massimo vertice. E sono io, ma solo perché mi piace ricoprire nel mio mondo questo ruolo.
“Purple rain”, il brano con Tedua, l’ho trovato scollato dal resto dell’album. Partiamo male, ma magari spiegandomelo mi fai cambiare idea.
Sono super fan di Tedua e siamo amici da sempre, un brano con lui l’avrei fatto a prescindere. A parte questo, capisco quello che dici, è ai fini di essere coerente ha senso. Però, quando mi trovo in mano con un pezzo del genere, che sento mio e per me è una grande hit, me ne frego anche. “Purple Rain” darà magari modo a un pubblico non mio di arrivare a scoprire il disco. E poi è un pezzo che ha una storia particolare.
Cioè?
Solitamente scrivo sui beat che mi vengono mandati, mentre qui il mio producer Daves mi ha detto “fidati, dobbiamo chiamare Mario, va fatta una cosa più deep e conscious”. Ed è un pezzo più per tutti, secondo me.
Hai centrato un punto importante: chi ascolterà il disco, vedendo il feat con Tedua, magari sarà portato ad ascoltare anche tutto il resto. E non è un aspetto da sottovalutare, soprattutto se non è fatto a tavolino per fare più stream…
Sono consapevole che tanto del pubblico di Tedua non è quello del rap. Ed è un bene, è invidiabile che sia riuscito ad arrivare a tante persone anche fuori dal genere. Poi, non volevo portarlo in un mondo completamente mio, anche se magari a tante persone potrebbe piacere ascoltare anche quel suo lato. Non c’è nulla di matematico, ci siamo trovati in studio e si è creata la sinergia giusta.
"Influencer" non è un dissing mirato, sembra rivolto a tutta la categoria. Mi sbaglio o è così? È un mondo che senti lontano?
In realtà non vuole essere un dissing, è più una “cosa da rapper”.
In che senso?
Nel mondo viene data molta importanza a gente che di artistico o culturale non ha niente. Noi artistici proviamo a difenderci, perché il mondo dei trend è fine a se stesso, un giorno vado bene io e quello dopo un altro. Non stai creando niente. Poi io non è che sputo nel piatto, perché ricordiamoci bene che oggi comunque tanto arriva anche dai trend di TikTom e simili. Non ti dico che sono contento, ma cerco di stare al gioco. Penso di essere quello che racconto nel pezzo, ma in maniera figa, perché ho sempre fatto tutto quello che fanno loro, ma al di là di essere un influencer.
Invece “Allerta meteo”, a differenza del brano con Tedua, mi è sembrato molto a fuoco. Qui dici: “Sei tutto quello che dici, solo per i tuoi amici”. Mi sembra si leghi anche a quello che mi hai appena detto.
Sembra una cosa banale, da hip hop head, da anziano che non sono. Io sto nel mio, nel senso che se una cosa non l’ho fatta, non mi appartiene, finisco in una situazione derivata da un altro, non starò a farla vedere. Tantissima gente nel mondo del rap, ma non solo, lo fa, facendosi prestare collane e orologi. Non voglio che le persone mi vedano per quello che non sono, non mi interessa.
Cosa mi dici del brano con Tony Effe?
Te lo dico io prima che me lo dica tu: è probabilmente uno degli episodi, a mio modo di vedere, meno in linea con quello che è l’immaginario “Goblin”. È un brano d’amore e ci sono molto affezionato. Quando abbiamo fatto la session insieme non era previsto che lavorassimo a “Babe”, avevo altre cose in testa da fare con lui. A volte voglio sfuggire un po’ dalla mia versione più mainstream, ma in questo caso non l’ho fatto, perché parliamo di un pezzo che potrebbe piacere a tutti. Ho sentito che non mi volevo privare di questo pezzo e quando Tony l’ha sentito mi ha detto “no fratè ma che stai a dì dobbiamo farlo”. E lo devo davvero ringraziare, perché ha fatto una strofa davvero figa. Sono contento, per quanto so che possa sembrare un side-Goblin un po’ troppo innamorato.
Evidentemente Goblin ha più di una sfaccettatura.
Per dirti, “I want u” con Bresh racconta una fase più “love” e rappresenta proprio il sound del Goblin quando è più sereno, è quello che si andrebbe ad ascoltare lui. Invece appunto “Babe” poteva essere un pezzo che andava bene in un disco solo di hit o per il grandissimo pubblico.
Hai l’idea che il pubblico del rap sia un po’ troppo purista?
Secondo me continua a essere sempre poco. Sembra strano da dire, perché cresce sempre negli anni, ma non è quello della cultura rap. Se segui il calcio sai quello che succede negli altri Paesi, ed è uguale per chi segue davvero il rap. E in Italia questa cosa non è così scontata, non tutti capiscono ancora al cento per cento l’immaginario di questo genere. La cosa buona che è successa negli anni è che tanto del pubblico “non rap” ha iniziato ad apprezzare. Quindi, capisco un determinato tipo di ascoltatori che si fermano alle hit, come quelle di Lazza, Sfera, anche alcuni pezzi miei che sono “per tutti”. Anche se adesso si sta sdoganando anche questo, perché ho visto ai primi posti in classifica anche brani di Simba La Rue, per dirti, che non sono per la radio o pensati per essere hit per tutti.
Parlando di Sfera, non so se ti sei reso conto del casino che c’è stato quando sei salito sul palco di San Siro.
È stato bellissimo. Quando sei ospite sai un po’ come andrà e di base è sempre una situazione che capiterà anche a te. San Siro però è un’altra cosa e quando ero lì non volevo proprio scendere dal palco, è stata linfa vitale. Al di là dello sport, è un tempio anche per la musica, ed è stato molto emozionante.