Oggi a Milano c’è il sole. Lo dico come se fosse una cosa anomala, leggetelo a voce alta con una certa enfasi per capire cosa intendo. E in effetti è una cosa anomala, credo che nel 2024 abbia piovuto su Milano più che dentro un qualsiasi reboot di Il corvo. C’è il sole, e siccome sono tendenzialmente un essere a sangue freddo ho lasciato aperta una delle porte finestre della mia sala, dove al momento sto scrivendo, gli occhi trafitti dai raggi del sole. Non fosse che abito al terzo piano e ho di fronte una piazza alberata, quindi non abbiamo mai avuto necessità di mettere le tende, mi potrei immaginare tende che svolazzano, spinte da un lieve vento, di quelli che in genere inondano l’aria di Milano, sempre qui sto, di odore di merda, frutto delle concimazioni dei terreni limitrofi la città. Togliamo però la faccenda della puzza di merda, colpa immagino di Beppe Sala. E torniamo sulla porta finestra spalanca, il sole e le tende che svolazzano. Lo so, siete uomini e donne di mondo, amate andare al cinema, e se non amate andare al cinema, il Covid vi ha impigrito, passate comunque un numero ingente di ore al giorno sui social, tante quante ne dedicate poi a sfrangere le palle alle nuove generazioni per quel loro passare così tanto tempo sui social, incapaci di vivere una vita reale, loro, di socializzare uscendo di casa, loro, insomma ci siamo capiti. Recap, porte finestre aperte, vento che muove ipotetiche tende, sole che si affaccia dall’altra parte. Ecco, a questo punto non può che partire il giro di piano di Era già tutto previsto di Riccardo Cocciante, perché potete rompere il caz*o quanto volete a Paolo Sorrentino, che gigioneggia con la sua estetica felliniana, provoca con gli stereotipi femminili, scardina credenze e punti fermi, ma certe immagini ce le imprime nell’immaginario come neanche avesse trovato la formula per un lavaggio del cervello a distanza, a volte anche in assenza di vero e proprio contatto. Era già tutto previsto, camera che avanza, si affaccia e parte in volo. Non sul mare di Napoli, nel mio caso, ma su una piazza alberata, ancora per poco con foglie a dividermi dai palazzi di fronte. Era già tutto previsto.
Ok, ho citato, Parthenope, e l’ho fatto bene, sono uno scrittore, Dio Santo, saprò pur fare il mio mestiere? Ho citato Parthenope e una delle sue scene più iconiche, e dico iconiche sapendo che iconic* in qualsiasi sua declinazione è in procinto di diventare la prossima resilienza, parola ormai impronunciabile tante e tante volte l’abbia usata, spesso a sproposito, legandola a situazioni che ci hanno spinto, uso un plurale che vi include d’ufficio solo perché cerco compagnia, ma forse sto parlando più per me che per voi, ci hanno spinto a prendere posizioni anche ideologicamente distanti da noi, che in effetti avremmo dovuto avere a cuore la resilienza, ma come per una certa idea di sinistra, quella che viene indicata come radical chic o al caviale, finisce per infastidirci anche più di certo fascismo dichiarato, in fondo siamo persone semplici che finiscono per praticare col sorriso in bocca una strana forma di autolesionismo, ho citato quindi Parthenope e una delle sue scene più iconiche sapendo che, nel citarla, l’avreste riconosciuta, a prescindere che abbiate o meno visto Parthenope, e a prescindere che Parthenope e/o più in generale il cinema di Paolo Sorrentino vi sia piaciuto, consapevole che se non vi è piaciuto Parthenope e non vi piace il cinema di Paolo Sorrentino, o, peggio, se vi piace il cinema di Paolo Sorrentino ma non vi è piaciuto Parthenope, aver citato proprio Parthenope carichi questo mio citare di una valenza negativa che, vi prego di fidarvi di me, a me Paolo Sorrentino piace e ancora non ho visto Parthenope, che immagino mi piacerà, non volevo tirare in ballo. Volevo invece, il pezzo che state leggendo parla d’altro, lo sapete, e lo sapete se siete miei lettori perché i miei pezzi iniziano sempre parlando d’altro, certo un altro che è correlabile, stando alla mia non proprio stringente logica, al tema che poi venderò come il tema centrale del pezzo, ma comunque d’altro, e se non siete miei lettori, o meglio, lo siete oggi, casualmente, lo sapete perché avete letto un titolo che fa riferimento a altro, e avete visto delle foto che indicano altro, o meglio altri, e vi starete anche chiedendo perché cazzo un pezzo che parli d’altro stia parlando con un certo compiacimento ormai da oltre settecento parole, questo voi non lo potete sapere, a meno che non siate di quei feticisti che a un certo punto della lettura di un pezzo fanno copia incolla sul testo e poi lo mettono su un foglio word e controllano quante parole ha usato chi scrive, e se siete quel tipo di feticisti lì, di cui confesso ignoravo l’esistenza fino a qualche secondo fa, quando ho scritto queste parole, o avendo una grande intuizione, e a questo punto sappiate che passerò le prossime ore alla ricerca di questi feticisti in rete, innanzitutto cercando di capire se si sono dati un nome, i feticisti dei piedi sono feticisti dei piedi, ma giocavano facile, i feticisti di chi copia incolla le parole di un pezzo su un foglio word al solo fine di sapere di quante parole sia esso composto non saprei come si potrebbero chiamare, e anche al fine di entrarci in contatto, perché in quanto scrittore mi piace molto entrare in contatto con realtà estreme, bizzarre, decisamente anomale, comunque, le parole che ho usato fin qui, per essere precisi, se siete miei lettori sapete bene che questa cosa del dire quante parole e quanti caratteri ho usato è un mio vezzo, al punto che lo faccio spesso e a volte anche più volte nel corso dello stesso pezzo, le parole che ho usato fin qui, dicevo, sono al momento novecentottantuno, altro che settecento, dicevo, se non siete miei lettori, o meglio, lo siete oggi, casualmente, lo sapete perché avete letto un titolo che fa riferimento a altro, e avete visto delle foto che indicano altro, o meglio altri, e vi starete anche chiedendo perché cazzo un pezzo che parli d’altro stia parlando con un certo compiacimento ormai da oltre mille parole, millequarantaquattro per la precisione, è partito da una scena iconica di un film attuale e anche molto discusso come Parthenope di Paolo Sorrenti, e ve lo starete chiedendo anche a ragione. Il fatto è che questo pezzo, che comincia con Era già tutto previsto di Riccardo Cocciante, sì, ma dentro la scena iconica di cui sopra, parla di una cosa che, in effetti, sta diventando piuttosto scontata, quasi alla moda. Un meme, forse potrei usare questa parola, ma credo di non essere poi così certo che tirare in ballo un meme in questo caso sia corretto. Parlo, e veniamo al punto, di questa nuova consuetudine, praticamente a cadenza quotidiana, di annunciare un proprio ritiro momentaneo, anche roba di qualche giorno, da parte di artisti che hanno finito un tour, o avrebbero dovuto finire un tour. Qualcosa che un tempo sarebbe stata catalogata, immagino, come “ferie” o “vacanze”, pur con tutte le variabili che essere artisti e quindi partite Iva comporta. Certo, chi annuncia uno stop nel mezzo di un tour ci dice decisamente altro, e nello specifico o che il tour è andato talmente male da averlo dovuto chiudere per assenza di biglietti venduti, spesso i tour neanche partono e questi annunci vengono dati in anticipo, spesso accampando questioni altre, anche lì, oppure c’è un serio problema di stress, le famose troppe pressioni che i giovani e meno giovani artisti sembrano patire e non poco in questi nostri tempi malandati. Se il caso più eclatante, anche perché era il primo a farlo in maniera così rocambolesca, appena passato dal Festival di Sanremo, è quello di Sangiovanni, i nomi di quanti abbiano seguito le sue orme, o annunciando ritiri che spostavano tour ancora ai blocchi di partenza, o annullandone in corso, o aspettando la fine, ultima ieri Emma, fresca del successo della data al Forum di Assago, sono davvero troppi. Un florilegio di “non mi sento bene”, “sono troppo stanco”, “devo ricaricare le pile” e via discorrendo, accompagnati, il caso di Angelina Mango, dimagrita a vista d’occhio è stato altrettanto emblematico che Sangiovanni, che per altro si appresta a tornare, seguito da post e commenti in sequenza, quasi tutti di conforto, a tratti di hating, e su quelli mi vorrei concentrare. Cioè su quanti si sentono di dire a gente che indubbiamente lavora, perché solo la finta mamma di Pezzali nella serie Hanno ucciso l’uomo ragno è autorizzata a chiedere al finto Max della fiction “ma ti dovrebbero pagare per cantare?”, che non dovrebbero permettersi di lamentarsi della propria stanchezza, del proprio stress o di quel che è, perché c’è gente che si alza la mattina presto per andare in fabbrica, gente che fa addirittura i turni di notte, e comunque gente che fatica a arrivare alla fine del mese, mica fanno i cantanti dentro le limousine. Ecco, vedete che quel che dicevo prima c’è tutto? Un cliché, “è arrivato il momento di fermarmi”, un cliché facilmente riconoscibile, iconico, ma anche un cliché che sta sul caz*o a un sacco di gente, “Napoli non è quella”, “San Gennaro”, “basta citare Fellini”, una immagine che a furia di essere vista diventa quasi un meme, la guardi e già sai cosa stai guardando, non ti colpisce più, se non per un lieve fastidio, un deja-vu tipo il gatto nero che passa due volte di Matrix, a sua volta cliché e via discorrendo.
Il fatto è questo, la discografia, che la Fimi e i "servi del sistema" si agitano a proclamare in ottima forma fisica, è in realtà una grande bolla piena di mer*a, e lo streaming, che di quella bolla è l’elio, non nel senso del cantante degli Elio e le Storie Tese, ma del gas con cui si riempiono i palloncini, quello che se lo aspiri e poi parli sembri un cartone animato, non fatelo a casa, non ha fatto che rendere la caduta libera ancora più vertiginosa, con per di più l’aggravante proprio di aver affamato gli artisti, che della discografia dovrebbero essere punta di diamante. Gli artisti sono costretti, un po’ come chiunque sui social, a esserci costantemente, tirano fuori un singolo, e dopo tre settimane un altro, e poi un altro ancora, spesso in comproprietà con chi fa featuring, fatto che li rende più potenzialmente funzionanti, ma anche meno remunerativi, Daniel Ek di Spotify parla di un singolo al mese, e poi infine tira fuori un album, ma non basta, dopo tre settimane ecco un singolo che nell’album non c’era, come in un loop diabolico, e poi ci sono i firmacopie, che non essendoci più album fisici è come firmare l’aria, e poi i live, con gli stadi che ormai se non fai uno stadio sei una merda, e gli stadi alla fin fine li riempiono in pochi, quindi ecco la fatica di vendere i biglietti, le ospitate in tv, le ospitate in radio, anche a Sanremo, possibilmente, i featuring nei brani degli altri, i concerti di preparazione agli stadi, nei locali, nei locali più grandi, nei palasport, e i singoli. Insomma, un vero stress, lo sappia chi pensa che lo stress sia solo il suo, neanche così ben pagato e col rischio che se qualcosa va male, la prevendita dei biglietti su tutto, poi ti trovi a dover fare post in cui annunci un momentaneo ritiro, con tutto quel che genera sui social, e un futuro di simil-schiavismo nei confronti del promoter che ha comunque improntato le spese vive, tipo che se ti chiama a suonare al compleanno della sorella devi andarci, se ti va male devi andare anche a lavargli la macchina. Quindi, era già tutto previsto, a pochi giorni dallo spostamento delle date di Samuele Bersani ecco che Emma ci dice che si fermerà per un po’, per dormire, questo dopo aver onorato ovviamente le ultime due date del tour, Roma e Bari, rispettivamente 14 e 17 novembre. Domani si fermerà qualcun altro. La domanda che mi sembra fondamentale a questo punto, e so di dirla ai pochi sopravvissuti a questa cavalcata tra le parole, amici feticisti del conteggio delle parole, gioite, abbiamo scavallato quota duemila, per la precisione duemilacinquancinque, undicimilanovecentonovanta caratteri, ecco, la domanda che mi sembra fondamentale a questo punto è la seguente: ma non potete prendervi una pausa e basta, senza la necessità di rendercene partecipi? State tutti i giorni a postare dove siete, cosa mangiate, come dormite, se vi vedremo in un posto di mare, o in ciabatte a casa capiremo e ci diremo, “ah, Tizio è in ferie, beato lui”.