Diciamocelo apertamente, questi son giorni di svacco. Tutti, più o meno, almeno quanti poi passano del tempo a leggere articoli pubblicati sui magazine online (figuriamoci chi ci passa il tanto, troppo tempo che prevedono i miei pezzi, lunghissimi), abbiamo passato la più parte del tempo a tavola, spesso con parenti che vediamo quasi e esclusivamente nel periodo delle feste, quindi intenti a raccontare di malattie e morti, di corna e crisi coniugali, a volte, raramente, anche a parlare di cose belle, intorpiditi dal troppo cibo, da un bicchiere di troppo, dall’assenza di ossigeno nella stanza. Quindi venire qui oggi, parlo di voi, non di me, e pensare di trovarsi di fronte a qualcosa di lineare, sintentico, magari anche sensato, converrete con me, sarebbe chiedere decisamente troppo. Anche perché chi scrive, che poi sarei io, ha passato gli ultimi giorni esattamente nelle vostre medesime condizioni, mica usavo una prima persona plurale a caso, quello sì sintomo di una latente lucidità che, temo, da ora in poi uscirà timidamente di scena, senza neanche un disannuncio decente. Il fatto è che ho visto la terza puntata de Gli occhi del musicista, il programma di e con Enrico Ruggeri in onda su Rai 2 in tarda serata (io le vedo su RaiPlay, perché non sono più avvezzo a star dietro ai palinsesti, vano tentativo, il mio, di essere incluso fuori tempo massimo nella Gen Z). Ho visto anche le altre due puntate, dedicate rispettivamente a Luigi Tenco e Ivan Graziani, ma durante queste feste, la mattina del 27 dicembre, ho recuperato la puntata del 26 dicembre, dedicata a Franco Califano. Voglio partire da qui. Perché questa puntata è televisivamente imperfetta, per i motivi che andrò a esporre a brevissimo, e proprio e anche per questo, mi è molto piaciuta, anzi, la considero a oggi la migliore della covata, forse anche migliore del Ruggeri divulgatore musicale che già avevo visto e apprezzato quando il programma si intitolava Una storia da cantare e andava in onda in prima serata su Rai1, anni fa. Non credo serva più, ma visto mai quel bicchierino di troppo di prosecco, io e Enrico Ruggeri siamo buoni amici, un’amicizia nata dalla reciproca stima, non siamo cresciuti insieme, non abbiamo fatto il militare insieme, ci siamo conosciuti perché io scrivo di musica e lui la musica la fa, per essere chiari, ma questo nulla ha a che vedere con quanto scrivo, sono amico di diversi cantanti, del resto, come credo capiti spesso a chi lavora in un azienda anche io ho fatto amicizia con gente che frequenta il mio medesimo “ufficio”.
Allora, la puntata imperfetta di Gli occhi dell’artista dedicata a Franco Califano. Partendo dal presupposto, parere mio, che la collocazione in una seconda serata che però è in effetti una quasi terza, le 23 e 30 sono seconda serata solo se di lavoro fai la cubista al Papete, sempre che sia una professione plausibile, e che la scrittura del programma mi sembra a tratti figlia di chi il programma lo ha scritto con "Rouge" più che sua, per quel che lo conosco, e partendo dal fatto che Flora Canto, che è la partner televisiva di Enrico, come Bianca Guaccero lo era su Rai1, sembra un dazio dovuto più che una figura necessaria, devo dire che riuscire a rendere in un programma di poco più di un’ora un personaggio complesso e poliedrico come Franco Califano era sulla carta missione impossibile, quasi che a un certo punto uno si poteva immaginare di vedere Enrico Ruggeri calarsi giù dal soffitto imbragato alla Tom Cruise, pronto a schivare i raggi ultravioletti. E siccome chi fa musica è ben abituato a rendere con le note le emozioni, affidando loro il compito di anticipare quel che le parole poi vanno a spiegare meglio, creare un mood, ecco il colpo di genio, affiancare alla figura complessa di Califano, uno capace di accompagnare guizzi incredibili di romanticismo con sferzate quasi violente di ironia, trovate liriche alte a fianco a volgarità quasi impronunciabili, una passione per la vita tale da averla consumata tutta molto più velocemente di quanto natura non avesse previsto, siccome chi fa musica è ben abituato a rendere con le note le emozioni, affidando loro il compito di anticipare quel che le parole poi vanno a spiegare meglio, creare un mood, ecco il colpo di genio, affiancare alla figura complessa di Califano quella di Gabriella Ferri, a sua volta altra artista romana che tanto ha vissuto e tanto ha saputo far trasparire quanto complicata possa essere la vita con pura poesia. Al punto che la puntata è diventata quasi una sorta di matriosca, con una parte dedicata alla Ferri che momentaneamente ha lasciato Califano da parte, andando a sviscerare aspetti della romanità, di cui anche Califano è stato esponente di spicco, che alla fine hanno portato a una sorta di mappatura completa di quel che le loro carriere ci hanno lasciato. Almeno tenendo conto che il tutto andava di scena in casa Rai, niente racconti su trans o altro, non esageriamo. Il che, in fondo, mi ha dato modo di riflettere su una delle varie tematiche uscite sulla famosa chat un tempo denominata Conferenza Stampa di Morgan, dove si è a lungo parlato anche di questo programma, discussione di cui, proprio perché so quanto la vita sia complessa mi sono guardato bene dal prendere parte. Perché lì si è discusso, in maniera vagamente eterodiretta, cioè con Morgan a dire la sua e una serie di giornalisti a vestire i panni del coro greco, sottolineando la sua genialità e quanto a lui spettasse quel programma, come se per sottolineare la genialità di qualcuno fosse necessario genuflettersi e soprattutto provare a cercare difetti nella genialità altrui, e come se lui non avesse già fatto Stramorgan e nel mentre fosse finito a X Factor, come è andata a finire quella faccenda è ovviamente altra cosa. Perché, poi giuro che passo oltre, nei fatti Ruggeri ha dimostrato con la puntata di Califano, come se ce ne fosse bisogno, che quando lo si lascia fare sa fare davvero bene, anche sul piano della divulgazione che si fa intrattenimento, l’infotainment. Perché a seguire la puntata su Califano, e su Gabriella Ferri, diciamolo, ospiti Syria e l’Orchestraccia, oltre a Moreno il Biondo, veniva proprio voglia di andarsi a risentire tutta la discografia di entrambi, Calfiano e Gabriella Ferri, e soprattutto di approfondire il perché questi artisti siano in qualche modo spariti dai radar, come del resto anche l’Ivan Graziani cui era dedicata la seconda puntata (fatta eccezione per la gaffe di Francesca Michieli, verrebbe da dire a malincuore), aggiungendo al gruppo anche Syria stessa. E veniamo al punto, perché anche se non lo sapete, non potete saperlo, anche se magari il titolo e la foto vi avrà in qualche modo indotto a capirlo, questo non è un pezzo su Califano o Gabriella Ferri, e neanche un pezzo su Enrico Ruggeri e la sua Gli occhi del musicista, di Morgan direi che abbiamo tutti detto anche troppo, recentemente, quanto su Syria.
Perché la Syria che è arrivata in scena sfilandosi le scarpe col tacco dodici, argentate, un completo verde che ben lascia intendere per il futuro, per intonare con "Rouge" una versione a alto grado di emotività di Minuetto di Mia Martini, scritta appunto da Califano, il testo, e Dario Baldan Bembo, la musica, già ci aveva stesi tutti, una voce che ti prende la pelle, te le alza, e poi te la toglie via con un gesto veloce, da chirurgo, ma quando poi è tornata per farci ascoltare Sempre, brano che Gabriella Ferri usava come sigla finale del suo varietà Dove sta Zazà, beh, allora non ce n’è stato più per nessuno, non me ne voglia il grande Marco Conidi coi suoi sodali dell’Orchestraccia, non me ne voglia lo stesso Enrico, che nel corso della puntata tante canzoni del Califfo ha interpretato, a partire da Io piango. E allora, visto che siamo qui un po’ immalinconiti dalle festività, almeno a me succede sempre così, l’idea del tempo che passa e non torna più, la felicità che finiamo per ricondurre quasi meccanicamente a certe porzioni dell’anno nelle quali la nostra vita assume in realtà posizioni altrimenti improponibili, quel rallentare, quasi fermarci, che nel resto dell’anno ci è impedito proprio dal vivere, mi viene da chiedermi e da chiedervi e da chiedere più in generale a qualcuno che possa darmi una risposta: ma perché Syria, proprio lei, Cecilia Cipressi, la cantante già vincitrice, giovanissima, di Sanremo, non è a sua volta titolare di un programma televisivo? O meglio, perché lo spettacolo di cui ci ha cantato, Pino Strabioli in collegamento coinvolto per quel che riguarda la scrittura, non è già finito in prima serata in quella che si chiamerebbe “servizio pubblico”? Perché il suo spettacolo non è fisso in qualche teatro importante, che so?, un mese di fila al Teatro Elfo Puccini di Milano, al Brancaccio di Roma? Faccio due nomi tra tanti. Perché, poi, la discografia non sta dentro una tendina della Decathlon, di quelle diventate particolarmente popolari da che gli studenti universitari prima di Milano e poi di Roma non le hanno erette di fronte agli atenti a casa di Syria, implei per lanciare un grido disperato contro il caro affitti nelle metropoli, ecco, perché la discografia non sta accampata implorandola, in ginocchio sui ceci, di tornare a fare dischi? Al loro fianco, viva Dio, anche gli autori, magari pure quelli di grido, penso ai più volte citati, anche nei pezzi su Morgan, Davide Simonetta, ma anche Dardust, non stanno in altre tendine Decatholn, sempre lì davanti, coi loro pezzi nuovi pronti per l’ascolto? Syria è una nostra eccellenza, e dovremmo avere tutti cura delle eccellenze. Ha una bellissima voce. È curiosa, la sua carriera discografica, anche con la parentesi eletrodance Airys ben lo dimostra, lei che per prima ha interpretato canzoni della scena indie quando ancora manco si chiamava così, per dire. Ha una gran bella presenza, e col suo corpo ci si è sempre trovata a suo agio, anche qui, la sua storia ben lo dimostra. Ha la capacità, rara, di trasmettere emozioni con le canzoni, sia esse pop, indie, dance o anche quelle del repertorio di Gabriella Ferri, e provateci voi a mettere insieme tutte queste sfumature in un unico corpo, se siete capaci. Li dovremmo vedere prendersi a mazzate tra loro, discografici, autori, promoter, come in quel vecchio video dei Frankie Goes to Hollywood, Two Tribes. E soprattutto, lo dico a malincuore, conscio degli anni che stiamo vivendo ma non per questo rassegnato a lasciare che le cose non cambino, sono qui a scrivere nonostante l’imbolsimento di cui sopra proprio per quello, soprattutto dovremmo evitare che una artista come lei arrivi dentro la nostra televisione solo a tarda serata, ospite di un programma che a sua volta dovremmo vedere in orari più decenti, dire qualcosa che suoni come “non sono più abituata a indossarle”, il riferimento a quelle scarpe col tacco 12, argentate, lasciate lì in terra per cantare a piedi nudi, chiaramente identificabili come le luci della ribalta, metafora quantomai iconografica di un vivere altrove che sarà pur sintomo della ricerca di una via che insegua solo la qualità, ma che vorremmo tutti impattasse frontalmente con la proposta mainstream della Rai e non solo della Rai. Non ho aperto una pagina su Charge.org per lanciare una petizione perché Syria ritorni, anche se le ho subito scritto un messaggio che questo anticipava, ma spero proprio che presto indossare quelle scarpe le sia tornato assolutamente familiare, come che torni familiare per noi sentire la sua voce cantare quel che vuole, perché in fondo lo slogan che un tempo era proprio della mia conterranea Virna Lisa lo si potrebbe serenamente applicare anche a lei, parafrasandolo in un “con quella bocca può cantare ciò che vuole”.