Il cinema di Alexander Payne è assolutamente americano nel senso migliore possibile. Come americane sono le poesie di Frank O’ Hara, o la prosa di John Edward Williams, ed è a una sorta di ‘campus novel ‘-ma non del tutto- a cui si pensa guardando The Holdovers, che ha una potenza simile al romanzo Stoner o alla poesia di O’Hara nel disvelare il mistero della vita attraverso quei fotogrammi -che a noi sembrano dilatati- deputati a formare quella quotidianità che riteniamo noiosa. Dicembre 1970, nel prestigioso collegio Barton del New England, un gruppo di ragazzi (figli di genitori assenti per i più disparati motivi), tra cui il problematico e brillante Angus Tully (Domic Sessa), è costretto a rimanere per le vacanze di Natale a scuola col terribile professore Paul Hunham (il sempre bravo Paul Giamatti) che è tutto fuorché un insegnante empatico e progressista à la John Keating. Se il cancerogeno professore de L’attimo fuggente è una specie di profeta nella scuola (un giorno bisognerà valutare i danni lasciati da Keating su generazioni di insegnanti) Hunham è rispettato solo nella misura in cui si diverte a falciare, con voti strettissimi, le teste degli studenti. I colleghi, oltre agli alunni, non lo rispettano, così il Preside che lo condanna (dopo che Paul ha bocciato il figlio di uno dei più grandi donatori dell’istituto) a passare le feste a Barton, cercando di tenere una condotta più morbida coi ragazzi.
Se nella prima parte ritroviamo il tepore e la rassicurazione delle giornate scolastiche, scandite dalle lezioni e dall’inizio delle vacanze, è nella seconda parte, dove per una ‘sventurata’ coincidenza Tully rimane l’unico studente nella scuola, che inizia la vera storia di amicizia e/o riscatto tra il giovane e il professore, a cui fa da sfondo -non meno importante- Mary (Da'Vine Joy Randolph), la cuoca del Barton che ha da poco perso un brillante figlio in Vietnam, quando era destinato al college come gli alunni privilegiati di Paul. Mary e Paul sono uniti dalla disparità sociale, disparità che è costata al professore una carriera relegandolo lì, nell’istituto dove lui stesso si è diplomato. Due residui o rimanenze rispetto agli alunni che frequentano la scuola se escludiamo Tully, anch’egli scarto di una società (nel suo caso una madre che sta formando una nuova famiglia con un altro uomo) che non lo vuole. Con la scusa di una gita scolastica a Boston, Paul e Tully passano una giornata insieme scoprendo di più sulle reciproche vite, in scene tanto semplici quanto pregne di un malinconico presagio di sconfitta, come il pomeriggio che Holden (Il giovane Holden) passa con sua sorella a Central Park.
In un certo senso, The Holdovers potrebbe essere una storia natalizia fuori tempo massimo, ma ha già tutte le potenzialità del classico. Aleggia l’atmosfera di Cinque pezzi facili, seppure privato di buona parte del suo cinismo. È un film che si svolge all’inizio di un decennio terribile e ha il merito di mantenere lo spirito di quei tempi, con quell’anima triste e stanca di una America in bancarotta, economica ed emotiva, tanto cara a Payne. Originario del Nebraska, la maggior parte delle storie di Payne sono ambientate nel Midwest, che è il cuore (la cintura) dell’America puritana e violenta, più reale e meno pop a cui ci ha abituati un certo immaginario fasullo. Ma qui c’è tutto lo scontro e incontro generazionale già conosciuto nel film Election, e il racconto di formazione tramite un piccolo viaggio (che è più interiore) che ammicca a Sideways (anche lì c’era Paul Giamatti). La sceneggiatura di David Hemingson ci ricorda che c’è un tempo per vivere e uno per morire, sempre che morire significhi fare un passo indietro e dare una chance al prossimo, per quanto, ingiustamente, a noi quella possibilità non sia mai stata data. Per quanto non ci siano mai eventi eclatanti (se non la verità sul padre di Tully), il cambiamento tra i due (e nei due) avviene a un livello più raccolto ed epidermico. Seppur diverso è davvero come rivivere, per una manciata di tempo (grazie anche alla curata fotografia di Eigil Bryld) il liceo, con tutta la sensazione di straniamento, ingiustizia ma anche sicurezza che solo le dinamiche conosciute -e tutto sommato non del tutto ostili- possono infonderti. Alexander Payne non perde un dettaglio in nessuna scena: si spoglia di tutta la pretesa autoriale di Nebraska e dalle idee mal sviluppate in Downsizing, per strapparci un ‘sorriso ferito, ma brillante’. Guardare The Holdovers è come guardare la vita dallo spioncino, e come la serie Mad Men e altri grandi prodotti americani ci insegnano: non c’è bisogno di grandi tragedie per segnare delle vite, ma le piccole increspature, quelle sì, sono sufficienti a cambiarle per sempre.