Ci sono soltanto 10 buone ragioni per cui dovete guardare, non importa come, meglio se a sbafo da un vostro amico nel suo salotto portando due o tre six-pack di birre, la mini-serie Pistol sui Sex Pistols, firmata da quel bene dell’umanità che risponde al nome di Danny Boyle, il regista di Trainspotting. Dall’8 settembre le sei puntate, andate in onda in Inghilterra su FX, saranno su Star all’interno di Disney+ in italiano – benché in inglese, of course, con quell’accentaccio british, faccia ovviamente ben altro effetto.
1. Perché fin dalle prime sequenze di Pistol, grazie al formato 4:3 a bassa definizione, con quei pixel grossi come una maglia sdrucita, verrete catapultati nell’atmosfera ruvida della metà dei ’70, in un’Inghilterra che alternava il grigiore dell’austerity ai capelloni hippie, oramai un po’ stantii. Una sensazione tale di sporca e livida realtà, così lontana dalla patina social di oggi, che vi sembrerà di essere su un altro pianeta, più pesante, più duro, ma anche più imprevedibile e più vero.
2. Perché Pistol vuol essere un intonaco a fresco di un genere musicale, il punkrock inglese, che era anche, come si usa dire, una subcultura che ha iniettato vitalità ad almeno un paio di generazioni. Cioè un sottomondo con regole non scritte tutte sue, codici che, a confronto con le residuali tribù giovanili odierne, avevano la caratteristica di far pagare un prezzo a chi li praticava. Un po’ com’era già stato per i figli dei fiori, ma diversamente da loro per la carica di aggressività nichilista (no future), non era esattamente facile, essere punk: andandosene in giro con i capelli schizzati, i piercing sparsi in faccia, e l’odio addosso per le anime belle afflosciate sul rock da tastiera, ci si guadagnava la diffidenza e il disgusto in contemporanea degli ordinari borghesi e degli alternativi colti.
3. Perché Pistol racconta con veridicità la “grande truffa del rock’n’roll”, l’operazione di spudorato ma tutto sommato sincero marketing di Vivienne Westwood e Malcolm McLaren, i gestori del negozio di abbigliamento SEX di King’s Road. Lei l’anima filosofica (“bisogna distruggere per creare e lasciare fare al caos”), lui la mente imprenditoriale (sue tutte le trovate promozionali, come il concerto in battello sul Tamigi per farsi arrestare una volta sbarcati), la coppia costruì a tavolino una band prendendo letteralmente dalla strada dei ragazzi che non sapevano suonare, con l’intento di trasformarli nelle “truppe d’assalto” al music business, che li accolse a braccia aperte. Durarono solo tre anni, i Sex Pistols, dal 1975 al 1978, componendo un solo album, distribuito dalla Virgin. Non inventarono niente, perché il punk esisteva già, almeno negli States (MC5, Richard Hell, Ramones, The Dictators, The New York Dolls, ecc). Ma interpretarono il copione al meglio del meglio – fatta eccezione per un gruppo di pazzoidi più matti da legare di loro, i Damned, altrettanto genialmente incapaci ma con una dose maggiore di follia sul palco.
4. Perché il plot narrativo di Pistol, anziché voler ricostruire la storia come in un ammorbante documentario, si basa sulla versione del chitarrista Steve Jones (“Lonely Boy: tales from a Sex Pistol”). Intelligentemente, poiché così le vicende si svolgono secondo un filo coerente, da un’angolazione precisa, con un protagonista prevalente, a partire dalle sue origini di bambino abusato e semi-analfabeta, e tuttavia non prevaricante, in modo da far sviluppare a raggiera gli altri personaggi, dall’amico batterista Paul Cook (il cocco di mamma con le pelli in camera da letto), al primo bassista Glen Matlock, il bravo ragazzo, l’unico che riusciva a imbroccare due note (“al liceo mi trattavano da rifiuto umano, ora voi mi considerate un fighetto, ma insieme abbiamo messo su una band”), e soprattutto al cantante John Lydon, il Johnny Rotten dai denti marci e dall’intuito profondo (“Ecco cos’è diventato il rock: un altro sedativo per le masse”, sedativo di cui Lydon è alquanto geloso, dato che ha fatto causa, perdendola, contro l’utilizzo delle songs, trovando la serie “irrispettosa” nei suoi riguardi, cosa falsa perché lui ne esce, secondo noi, da intrigante sì, ma con un cuore, oltre che con il ghigno spiritato dell’attore Anson Boon, il più bravo del cast).
5. Perché racconta visivamente e sboccatamente il manuale-base della vita on the road, a partire dagli inizi, inevitabilmente sfigati, di ogni gavetta: furgone scalcagnato, compensi da fame, odio-amore fra compagni d’avventura, locations improbabili, esibizioni di fronte a due soli spettatori, notti a sballarsi calandosi alcol e droghe e/o a confessarsi le reciproche tristezze. E mostra, senza tanti complimenti, la violenza: risse con i rivali hippie o tardo-rockers, risse fra di loro, risse con lo staff, risse con tutti. Perchè, piaccia o no, era la violenza inespressa l’autentica molla creativa di quei giovani, proletari o piccoloborghesi non importa.
6. Perché Pistol è attento, potremmo dire con una certa precisione certosina, a mostrare lo sfondo quotidiano delle abitudini, dei locali, dello stile di vita di quel frangente storico. Non solo mescolando la fiction a immagini di archivio televisivo, ma soprattutto sbattendovi in faccia le insicurezze psicologiche, la povertà da periferia, il vomito, l’alone romantico, da party fine a se stesso, di adolescenti invisibili, dimenticati, oppressi da un consumismo di cui consumavano solo le briciole.
7. Perché chiarisce bene, in alcune scene, l’estetica punk: cercarsi un’identità nell’originalità dello stile provocatorio, sapendo che trattasi di pura provocazione, gioco distruttivo, feticista, narcisista (e che nelle donne, mostrando seni e capezzoli, nega il mistero, ovvero la sensualità). Insomma, fa capire che nacque come una moda, il punk, e come una moda, sia pur di lunga durata, è stato poi surclassato dalle successive, diventando a sua volta una convenzione, per essere infine digerito ed espulso. Sulle prime, comunque, l’effetto dirompente lo ebbe eccome: andare in tv con una svastica al braccio e bestemmiando in diretta sono tutt’oggi pratiche vietatissime, anzi di più.
8. Perché dà a Nancy Spungen, l’americana schizofrenica eroinomane di cui s’innamorò il secondo bassista, l’infelicissima star Sid Vicious, quel che è di Nancy Spungen: la tratteggia come quella bimba tragicamente bisognosa d’affetto che era, e per questo diventata la nefasta groupie, smorfiosa, molesta, ficcanaso, che contribuì all’autodistruzione finale sua e di Sid, il quale era il più Sex Pistol di tutti, vero anarchico primario (faceva a botte con chiunque gli capitasse a tiro, pur di sentirsi vivo e percepito dall’umanità circostante, fino a tagliarsi da solo, rigandosi di sangue, strepitosamente consapevole, nella sua incoscienza, che “l’unica cosa che conta è come appari”).
9. Perché, non c’è bisogno di dirlo, è una serie con una colonna sonora da sturbo: David Bowie, T-Rex, The Who, Hawkwind, Kinks, Alice Cooper, Eagles, Pink Floyd.
10. Perché offrirà alle nuove leve attuali, o almeno ce lo auguriamo, un assaggio di quel che è stato un mood, una mentalità, un pogo, una generosità nello spendersi senza risparmio, imparando in cinque giorni gli accordi-base di chitarra – sotto anfetamine, ça va sans dire - una sensibilità per la sofferenza (notevole la puntata sulla canzone “Bodies”, cioè sul tema aborto, ai tempi tutt’altro che facile, in cui si narra della fan Pauline, malata psichiatrica stuprata in manicomio) e l’imperterrito spirito ribelle di Boyle che conclude l’opera con un bel bollocks, “cazzate”, a caratteri cubitali, dopo un finale che rischiava di commuovere un po’ troppo. Fuck this and fuck that, fuck it all the fuck out of the fucking brat… Non proprio zitti e buoni, insomma, come certuni in voga oggidì. Con i quali la differenza non è l’ascesa fulminea allo star system, ma la temperie storica: allora, cinicamente quanto si vuole, si rompevano tabù; adesso, a furia di clichè prevedibili e messaggi perbenisti, a rompersi è soltanto qualcos’altro, in zona scrotale.