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Reportage da New York, dove è tutto vero: il rock, il cinema e l’opulenza degli Stati Uniti nel Supersonic Tour con Ricky Russo

  • di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

  • Foto di Alessio Cambiotti

24 novembre 2025

Reportage da New York, dove è tutto vero: il rock, il cinema e l’opulenza degli Stati Uniti nel Supersonic Tour con Ricky Russo
New York ha una scatola da scarpe al posto dell’aeroporto e pochissimi ciccioni. Le bancarelle degli immigrati vendono merchandising di Donald Trump, il dollaro ti porta ovunque. I muri hanno assorbito il fumo di Lou Reed, le rocce di Notorious e le ceneri di Lennon. In breve, le strade che hanno partorito la cultura con cui siamo cresciuti sono ancora calde. Questo è un reportage del primo Supersonic Tour a New York, nato per amore della famiglia Possanzini per sbirciare sotto al tappeto più grande al mondo

Foto di Alessio Cambiotti

di Cosimo Curatola Cosimo Curatola

Mi muovo per casa come Babbo Natale. È notte, dormono tutti, ho ancora in testa il fuso di New York, la scrivania è un disastro: c’è una bottiglia di birra, una tazzina di caffè seccata nel pomeriggio e un pacchetto di Marlboro americane, rosse, senza le avvertenze sul cancro. A fianco ho appoggiato questo elegante pacchettino verde, fa parte della strain collection di Fernway, contiene una sigaretta elettronica al THC con circa il 90% di purezza. L’ho presa in un negozio altamente specializzato che vende prodotti alla cannabis: all’entrata registrano il tuo documento, dentro è a metà fra una gioielleria e un sushi bar. Ti metti in fila ad aspettare il tuo turno e poi parli col tipo al bancone che ti chiede di cosa hai bisogno. Io ho bisogno di fare un regalo al mio direttore che mi ha spedito a New York a scrivere un reportage, punto a trasportare questo petardo elettronico in valigia dove nessun cane anti droga ne sentirà mai l’odore. Pago sessanta dollari. Più tardi in hotel chiedo ai ragazzi se sia meglio caricarla nel bagaglio a mano, dove ne ho il controllo, o in stiva. Dicono stiva. È la scelta giusta. Ho conosciuto Eleonora Possanzini tre mesi prima tramite un vecchio collega, cercava un giornalista da coinvolgere in un viaggio a New York sulla musica. Lei, col padre Flaviano, i due fratelli Lorenzo e Ilaria e la madre Paola, gestisce un ex cinema a Foligno, lo Spazio Astra, in cui dentro puoi trovare un sushi thai, il Moonrise, un cocktail bar e, soprattutto, un negozio di dischi, il Supersonic Record Store.

New York, Central Park
Central Park, un uomo raccoglie le monete nella fontana per lanciarle addosso ai turisti predicando contro il capitale.

L’idea è quella di portare la gente in giro per il mondo mostrando dove nascono le canzoni, lo stile, le band, i generi musicali. A New York per il rock, il blues, l’hip-hop, il gospel e qualunque altra cosa vi possa venire in mente. Dice che presto lo farà in Inghilterra, da Londra a Manchester e Brighton, poi in Germania a Berlino. Su New York c’è già in lavorazione una seconda data per il 2026, indicativamente verso la prima metà di maggio. Lei lo fa per amore. Della città e della musica, principalmente. Non è un viaggio da nerd, è un modo per passare davanti alla casa che c’è sulla copertina di Physical Graffiti, piuttosto che nella via in cui è stata scattata la foto di The Freewheelin’ o al Holcombe Rucker Park e saperlo, sentirsi lì. Accetto subito, salutando la possibilità di partire per il Giappone a seguire la MotoGP.

Questo perché Eleonora, con la sua famiglia e il suo locale, è come noi, come MOW: ci prova, punta in alto, inventa, si sbatte, sbrocca, riparte, insiste. In breve, è una irregolare. Il tipo di persona con cui mi trovo bene, il tipo di persona con cui mi piace lavorare.

Partiamo da Roma Fiumicino, siamo una decina. È il primo viaggio di Supersonic. Il diretto ITA Airways impiegherà circa nove ore, sono quasi troppo poche rispetto al totale scollamento dalla realtà che ci aspetta dall’altra parte dell’oceano. Siamo al controllo passaporti della dogana statunitense quando faccio innervosire il primo poliziotto americano che abbia mai incontrato: “Mi stai riprendendo?”, chiede. Io ho una Insta360 legata al collo e lui non la prende troppo bene, chiama una collega: “Vuoi già andare in galera? Cancella tutto”. Sono arrabbiati e divertiti assieme, gentili e fermi. La ragazza, nera, ha un sorriso largo e degli occhi magnetici, forse porta delle lenti a contatto colorate. Penso che dopo trent’anni passati a vedere americani banchettare a pasta e cappuccino è il mio turno per essere inopportuno a casa loro. In America è tutto grande e tutto diverso, è veramente l’altro mondo. A partire dall’aeroporto JFK, che a confronto con una qualsiasi destinazione europea o asiatica è una macilenta scatola da scarpe.

Minetta St, New York
Minetta St., tra MacDougal e la Sesta. In un appartamentino del palazzo sulla sinistra, Bob Dylan scrive Blowin' in the Wind.

New York ha le stelle in terra

Prendo, da anni, una trentina di voli l’anno. Una cosa come New York non mi era mai capitata e non credo che esista altrove. Primo: la città è costosa, non è un’esagerazione. Eppure è bello spenderli, è bello lasciare la mancia, è bello girare con questi fogli verdi che nei film chiamano verdoni, bigliettoni, la scritta in god we trust su ogni banconota e le carte da un dollaro in gran quantità che tanto valgono poco. New York è legatissima al denaro: se ne hai, puoi fare qualunque cosa. Con un plico di dollari in tasca diventa facile spostarsi, raggiungere gli eventi, fare acquisti, accedere ai servizi. Alla città piace essere oliata altrimenti raggrinzisce, diventa grigia e la tua prospettiva si restringe un po’. Chi ci abita ti dice che non deve essere per forza così, io dico che è meglio andarci in vacanza. Una settimana a New York è una due posti cabrio: lontana e bellissima, costosa e magica. Secondo: la città è grande, anzi enorme. Soltanto Brooklyn ha gli stessi abitanti di Roma, il Queens supera Parigi ed è grande il doppio, Manhattan ha la stessa popolazione di Milano. In tutta l’area metropolitana di New York abitano 25 milioni di persone che ogni giorno si incontrano, perché le interazioni sono molto dirette. Non c’è tempo per nulla, così dirsi ti amo è un attimo. Terzo: New York ha le stelle in terra. Te ne accorgi quando sali in cima a un grattacielo la notte e vedi un mondo di luci che vengono dal basso, missili costruiti a una velocità strepitosa, ammirati dal mondo e poi superati, dimenticati o buttati giù.

Radio City Music Hall
Radio City Music Hall, Rockefeller Plaza.

Molti, moltissimi palazzi dal Chrysler all’Empire, hanno avuto un momento in cui sono stati il grattacielo più alto della città per poi finire superati dall’innovazione, dall’idea di fare qualcosa di più per il gusto di farlo, di dirlo al mondo e di vederlo scritto sui giornali. Con le persone è la stessa cosa. New York ha le star in terra perché crescono da lì, dalle strade coi tombini che buttano fuori vapore: puoi incontrare Timothée Chalamet in un bar ed è bellissimo per l’attimo che dura, finché lui non torna ad essere un altro pesce nell’oceano e tu lo stesso. Se ti fermi a pensare a questa cosa in una caffetteria o in cima a un palazzo puoi quasi sentire il mondo che gira, pieno di vite e di storie e di incontri. E poi: New York non è l’America, qui la gente mangia bene e il merchandising di Donald Trump viene venduto da quei negozi gestiti da immigrati come se fosse un meme.

La sera in cui siamo saliti sul The Edge - un terrazzo panoramico a 345 metri da terra, al centesimo piano di un grattacielo - ero con Patrick, che fa il muratore ed è bravissimo col cartongesso. Patrick è un bell’uomo sulla cinquantina, venuto in Italia dall’Albania e che ancora l’italiano non lo parla benissimo ma dice sempre diavolocane, tutto attaccato e tutto in fretta, e allora “diavolocane quanto siamo in alto”, mi dice. Patrick frequenta spesso i Possanzini, loro gli hanno proposto questo viaggio e lui non ha mai smesso di goderselo, parlando delle sue tre figlie bellissime e della moglie a casa. Se l’è goduta anche se immagino che non abbia mai ascoltato Bob Dylan. Lo vedo sul The Edge e mi commuovo. Dalla sua casa lì, dalla parte sbagliata dell’Adriatico, è arrivato a mettere il suo culo albanese in quella vetrata trasparente sospesa nel vuoto di New York. L’emozione, almeno la mia, dura poco, perché a un certo punto trova una famiglia di albanesi trasferitisi nel New Jersey e comincia a parlarci, chissà di cosa: New York è anche questo, una serie infinita di possibilità.

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Il Caffè Reggio su MacDougal's, il primo locale d'America a servire un cappuccino. Il proprietario ha visto passare Elvis e servito la colazione, tra gli altri, ad Edna St. Vincent Millay e Al Pacino. Greenwich Village, Manhattan.

Cos’è un Supersonic Tour

Tolti i viaggi stampa, in cui il giornalista viene scarrozzato da un posto all’altro, intrattenuto e ingozzato pressoché in continuazione, un viaggio assieme a un gruppo persone non l’avevo mai fatto. In questo caso il gruppo è quanto di più diverso si possa immaginare. C’è una ragazza, Sara, che vive a Madrid e mescola l’italiano con lo spagnolo, gira per le Avenue con questi leggings che ti entrano nelle chiappe e il piglio di una clubber di Berlino: è simpatica, anche se passa gran parte del tempo al telefono per lavoro. Lei parla in spagnolo pure con i newyorkesi che la maggior parte delle volte la capiscono, in città c’è una concentrazione di ispanici sorprendente.

Daniele invece ha 37 anni ma ne dimostra quindici in meno: si è comprato l’ultimo iPhone, è al primo volo della sua vita e alla sua prima trasferta all’estero. Magari esagero, magari no. Daniele vive in un paesino nell’entroterra del centro Italia, Preci, che ha meno abitanti dell’hotel in cui stiamo. L’hotel è il Riu Plaza di Times Square: quattro stelle e una colazione tanto abbondante da sembrare uno scherzo. Gli americani adooorano esagerare.

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In questo palazzo l'ultimo appartamento di Marky Ramone. St. Mark's, East Village.

L’idea dei Supersonic Tour era quella di portare appassionati di musica in giro per il mondo, eppure in qualche modo è successo il contrario: il viaggio ha portato le persone alla musica. A scoprirla, ad appassionarsi e per qualcuno a riaccendere momenti, magari lontani, vissuti con quella roba nelle orecchie. Semplificando, potrei dire che è stato un viaggio con la musica di sottofondo. Il primo giorno lo abbiamo passato a capire Manhattan. Appena ci entri dentro ti rendi conto che è tutto vero: i film e le idee, quell’immaginario lì che va da Woody Allen a The Boys, da Sex and the City a Taxi Driver, dalle torri di vetro agli hot dog. Poi il traffico e la gente, tantissima gente. Passi da Washington Square Park e ti metti a parlare con un nero dentro un piumino bianco che ha apparecchiato una scacchiera: sta aspettando uno sconosciuto che si sieda di fronte a lui per giocare una partita. Quello sconosciuto potresti essere tu. E chissà, a saperci giocare a scacchi, come andrebbe, di cosa ci potresti parlare. Nella metro vedo un tizio leggere la bibbia in diretta su Tik-Tok. Poi la statua di Dante, quella di Cristoforo Colombo, il toro di Wall Street e la scultura di una bambina che guarda il palazzo della borsa con fare di sfida. Vediamo, sotto al diluvio, le voragini che sono state costruite per ricordare il 9/11, una cosa intensa e difficile da spiegare con una foto: sembra che i muri piangano, che un buco nero stia inghiottendo l’aria. Vediamo il World Trade Center ed entriamo nei primi negozi di dischi, tra cui il Rough Trade tra il Rockfeller Center e Radio City e l’A-1 Record Shop. Mangeremo a China Town passando per Little Italy per poi chiudere a Broadway, che è l’esatto contrario del teatro in senso lato: il lavoro di chi ha costruito la sala, ma pure quello degli attori che studiano per esibircisi, è estremamente concreto, eppure serve a produrre una favola, a sospendere la realtà; Broadway invece è una fiaba per turisti con prezzi ricaricati e lucine ovunque al cui interno trovi talento ed emozione. Una piccola delegazione del gruppo, che oltre alle attività tutti assieme si divideva in determinanti momenti del giorno, è finita a vedere lo spettacolo di Alicia Keys, Hell’s Kitchen. Personalmente ho preferito una notte nel Greenwich Village, a quanto capisco entrambe opzioni validissime.

Alla fine del viaggio ci renderemo conto di aver visto e fatto molte più cose di quelle che normalmente si riescono a mettere insieme in una settimana a New York. In parte è perché la musica, che è una scusa come andare a fare i compiti a casa della fidanzata, ti porta in luoghi differenti. In parte perché nel pacchetto Supersonic c’erano i quattro tour di Ricky Russo.

Brooklyn Bridge, New York
Spread love, it's the Brooklyn Way.

Ricky Russo says: DAGHE!

Una delle formidabili giocate di Eleonora è stata coinvolgere Ricky Russo, che per quanto mi riguarda è la miglior guida di New York sul mercato italiano, capace al punto da portarmi a un totale cambio di prospettiva sull’idea di cercarmi una guida quando viaggio. Il tipo vive la città da 12 anni, ha traslocato qualcosa come 37 volte, ha vissuto i cambiamenti continui di questo mostro a dodici teste che è la grande mela (definizione che nasce dal primo premio alle corse dei cavalli) e, soprattutto, è curioso.

Ricky propone quattro diversi tour, noi per non sbagliare li abbiamo fatti tutti: Greenwich Village - che lui pronuncia quasi Grènvc Village, forse il più bello - Harlem, Brooklyn ed East Village, anche quest’ultimo micidiale. Sono uno meglio dell’altro, ed ecco che ti ritrovi a scoprire decine di cose al minuto che altrimenti non avresti mai colto. La cosa funziona perché è bravo con gli aneddoti e a mischiare le storie, il che fa trasparire lo spirito di New York, un luogo carico di sorprese in ogni angolo come potrebbe esserlo una cattedrale barocca. Ci racconta per esempio di quando Bruce Springsteen, in rotta con l’etichetta discografica a causa di una carriera che non voleva decollare, uscì con il progetto che cambiò per sempre la sua storia. Siamo a metà degli anni Settanta, il Boss suona in un locale del Greenwich Village, nel pubblico ci sono Martin Scorsese e Robert De Niro. Quando finisce di suonare la gente si lancia in una clamorosa standing ovation. Stupito, Springsteen comincia a rivolgersi al pubblico così: “Ma dite a me? Dite a me? Dite a me?”. Robert De Niro, che all’epoca stava girando Taxi Driver, andò sul set e recitò davanti allo specchio ispirandosi a quel momento, producendosi in un fuori copione che è diventato un’icona nella storia del cinema.

Passiamo per i parchi e le case degli scrittori e ascoltiamo storie di quartiere diventate grandi, come il ristorante di Sylvia ad Harlem, dove Barack Obama finì a mangiare pollo fritto, oppure lo Stonewall, locale da cui partì il primo Gay Pride della storia. E poi i bar in cui Jimi Hendrix fece i primi concerti, il ponte di Brooklyn, la disgraziata storia della famiglia che lo costruì e le prime foto di Notorious BIG, lo scorcio di C’era una volta in America e la casa di Marky Ramone. A volte vedi questi luoghi e ti scappa un sorriso, altre ti senti parte di qualcosa di grande. Altre ancora ti sembra di vivere una città costruita sul culto della celebrità, il che è una sensazione meno edificante ma non meno curiosa. In tutto questo, vivere New York è come vivere col teletrasporto.

Ricky Russo Greenwich Village
Ricky Russo racconta lo Stonewall, Greenwich Village, New York.

Take the Subway

Il teletrasporto di New York si chiama metropolitana. Ti dilata il cervello: entri a Central Park, tra le anatre di Salinger e il silenzio, ed esci davanti all’Apollo Theatre ad Harlem, dove tutti sono di colore e i grattacieli cedono il posto alle chiese protestanti. Harlem mi rimarrà nel cuore e nello spirito finché campo. Siamo seduti su queste panche di legno e il direttore del coro gospel a cui assisteremo, microfono alla mano, ci prega di fare il giro largo nel caso in cui dovesse venirci in mente di andare in bagno durante l’esibizione. È un signore grassoccio con la voce più nera che abbia mai sentito che si comporta come una hostess mentre indica le uscite dell’aereo, niente di poetico. Stessa cosa poco più tardi, quando ci ricorda che alla fine passeranno a chiedere la mancia e che dare qualche dollaro non è buona creanza, è obbligatorio. Evidentemente siamo finiti in una trappola per turisti. Michela, una ragazza che abita vicino a Foligno, si è convinta a partire proprio quando Eleonora ha aggiunto la serata gospel al programma di viaggio, così mentre il tipo ripete per l’ennesima volta le informazioni sul cesso e quelle sulle mance un po’ mi spiace per lei. Poi, mentre i coristi si mettono in posizione, il tipo chiede se in sala c’è qualche cantante, confermando la sua vocazione da assistente di volo. Sta di fatto che seduta vicino a me ho Benedetta, Benedetta Alessi: un metro e sessanta scarsi, capelli arancio corti, sempre vestita come un soldato delle truppe speciali, piercing al naso, occhi verdi e un viso dai lineamenti dolcissimi. Benedetta è la leader dei Melancholia, una band di cui è difficile inquadrare il genere che è arrivata al mondo partecipando a X-Factor nel 2020. Benedetta è una vera punk, ci sto bene assieme. Comincio a sbracciarmi, il tipo mi vede. Lei scuote la testa, prova a opporre resistenza per evitarsi un’esibizione a freddo circondata da coristi a fissarla dal pulpito, io però insisto e il nostro steward la convince. Benedetta si alza in piedi e comincia a cantare Alone, un suo pezzo. Lo fa con una dolcezza e una profondità che mi portano a piangere. La gente è sbigottita. Applausi. Il nostro maestro di cerimonie è basito, quando si riprende chiede se qualcun altro vuole cantare. Farlo adesso sarebbe come fare il gioco delle tre carte dopo aver visto David Copperfield scomparire in una nuvola di fumo. E invece Michela si alza, prende il microfono e comincia a cantare pure lei, ha una voce bellissima. Si interrompe per un momento, “non ricordo le parole”, e riparte. Altro applauso, in effetti siamo una grande squadra.

Gospel at convent avenue baptist church
Alla Convent Avenue Baptist Church, Flaviano Possanzini (di spalle) ascolta rapito una corista.

Lo spettacolo del gospel sarà micidiale, più forte di qualsiasi musical di Broadway e più impattante di un concerto per cui hai pagato settanta euro di biglietto. Flaviano comincia a piangere forte durante un gospel. “La musica mi commuove”, dice. Poi fa una pausa e riprende: “Se è bella, mi commuove”.

Ne usciamo stanchi, meravigliati, carichi di consapevolezza su di noi come esseri umani e su queste persone, che non hanno dimenticato la schiavitù e la potenza del canto quando bisognava trovare la forza in un campo di cotone. Sembrava una cazzata, eppure le loro voci ci hanno mescolato lo stomaco in una maniera profonda e lontanissima dall’idea di spettacolo per turisti che avevo ipotizzato.

La giornata passata ad Harlem è stata potente, anche se passeggiare con Benedetta tra East Village e Greenwich Village non è stato da meno. Giriamo decine di locali storici - tra cui l’ex CBGB e i thrift shop, dove si acquistano vestiti usati - passiamo una serata sconvolgente allo Stonewall, ci giriamo qualche Jazz Club e le strappo la promessa di scrivere una canzone assieme. Perché l’effetto che ti fa la città è proprio questo, ti porta ad esprimerti. Questo, sospetto, a patto che tu non abbia un noiosissimo lavoro, delle spese con cui fare i conti e un affitto da pagare. Ecco perché NY è la città perfetta per stare in vacanza.

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Benedetta Alessi is so tired, New York Subway.

Diggin’ in the city

Con noi ci sono anche Chiskee e Chopy: il primo fa il Deejay, il secondo il fotografo. Chopy, Alessio Cambiotti, è un fanatico del Wu-Tang Clan: veste i suoi figli con capi marchiati Wu e conosce progetti solisti, drammi e miracoli di ognuno dei componenti del Clan, il collettivo hip-hop più famoso del pianeta. Se Michela era venuta per il gospel, lui ha preso l’aereo per Staten Island, dove ha detto di aver visto “gente che cacava e vomitava assieme” e “tappeti di siringhe”. La città, anche da questo punto di vista, può essere sicura come una banca svizzera o pericolosa come le favelas, se sei un viaggiatore è soltanto una tua scelta. Lo stesso vale per la musica che cerchi: Rock, Jazz, Hip-Hop, Blues. Chiskee invece, Francesco Fiorucci, passa le sue giornate a cercare dischi, a suonarli, a spendere i risparmi in quella roba lì un po’ latina, in progetti d’avanguardia o roba introvabile dalle nostre parti. Sono dischi che metterà alle sue serate in Italia. Chopy scatta per una mostra su New York, le fotografie di questo reportage sono sue.

Chiskee mette i dischi
Chiskee da Human Head Records, Brooklyn, NY.

E poi ci sono Eleonora con suo padre Flaviano: vulcanici tutti e due, si vogliono un gran bene e litigano in continuazione in una maniera che andrebbe bene per degli sketch comici. Lui pacato, lei una lince. Eleonora ci tiene tutti assieme, brusca e dolce. Flaviano ha una cultura musicale che metterebbe in difficoltà chiunque. Per una settimana abbiamo girato New York a ritmi forsennati, pronti a qualunque cosa. È stato bello. È stato bello perché l’idea della musica è una scusa brillante per girare una città, per capirla un po’ meglio e per andare incontro a un’arte che magari appartiene a qualcun altro: vedere la faccia di Flaviano davanti al palazzo in cui vive Bono Vox, per lui che è accanito estimatore degli U2, è molto meglio di incontrare Bono Vox.

Non ci sono divinità, non c’è storia antica o epica greca negli Stati Uniti e tanto meno a New York, dove la chiesa più antica è del 1697 e nessuno si fa grossi problemi a buttare giù un edificio storico per costruirci una banca. Ecco perché c’è il culto della persona, delle rockstar, dei grandi attori, degli scrittori, dei supereroi, di chi ha fatto i soldi e di chi farà la storia. Sono divinità pagane, eroi contemporanei. New York ha le stelle in terra, starci in mezzo è come volare.

10 scatti in NYC

*** 

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Il vecchio studio di Jean-Michel Basquiat oggi è stato acquistato da Angelina Jolie, che ha aperto un locale gestito da rifugiati politici con al suo interno un'esposizione curata da artisti emergenti. 57 Great Jones Street, Manhattan.
Wall Street
Ironia a Wall St.
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New York ha centinaia di food truck di pessima qualità. Esistono però splendide eccezioni come il Tony Dragon's Grille: il miglior kebab di sempre mangiato su di una panchina a Central Park. Detto questo, a NY puoi andarci anche solo per mangiare.
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La stazione di Grand Central. Da queste parti hanno sparato a Carlito Brigante nell'iconica scena di apertura del capolavoro di Brian De Palma
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The Vessel, uno degli oltre seimila grattacieli di New York.
Holcombe Rucker Park
Il tabellone dell'Holcombe Rucker Park, il campetto da basket più importante al mondo. Ci hanno giocato tutti i grandi, peccato non aver portato una palla. Harlem, New York.
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L'Eldorado Building visto da Central Park. A quanto pare Bono Vox ha un appartamento lì dentro, a pochi metri dal Dakota Building in cui venne assassinato John Lennon.
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Non lo diresti mai, eppure Manhattan è pulita, ordinata e brillante come una gioielleria.
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Eleonora Possanzini con la tuta degli Oasis presa a Edimburgo durante il Live '25. Se ha organizzato il Supersonic Tour è perché non riesce a stare senza questa città, in cui ha passato mesi.
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- Fine.

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