Il sito Rotten Tomatoes, solitamente generoso di recensioni fornite dagli utenti, presenta solo i dati tecnici relativi alla pellicola. Online il film non si trova gratuitamente, lo si riesce a catturare se ci si iscrive a una piattaforma come Midnight Pulp o giù di lì. Prime Video? Neanche per sogno. Netflix? Controllate pure, ma non mi pare. “Steel arena. Lo show della morte” è un film del 1973 (quasi) fantasma. Ed è tornato nel presente digitale grazie alla Sinister Film, che ne ha stampato il dvd. Torna – per pochi affezionati e malati – una chicca d’altri tempi, tempi in cui consistenti fette di mondo ignoravano concetti quali “health & safety” e su alcuni set “periferici” o underground assicurazioni e sindacati non entravano proprio. Mark L. Lester, il regista (nel 1982 girò il misconosciuto ma valido “Classe 1984” e l’anno seguente avrebbe firmato “Commando” con Schwarzy) ricorda così “Steel arena”: “Ero un radicale di sinistra, proveniente da Berkeley, e mi innamorai della Mid-America. Un’estate, in vacanza a Sacramento, mi imbattei in questi tizi che sulla maglietta portavano una scritta curiosa: Circus of death. E chi diavolo siete?, chiesi loro. Facciamo spettacoli alle fiere di paese, distruggiamo auto per guadagnarci da vivere, mi risposero”. Così Lester chiese al pilota Dusty Russell di raccontargli la sua storia, le sue avventure. Di soldi da investire su attori forti non ce n’erano. Lester assoldò quindi buona parte dei piloti che si cimentavano con il vero spettacolo delle auto demolite e li sbatté, con tutta la loro ingenuità e il loro entusiasmo, su pellicola. Russell, ovviamente, ma anche Buddy Love, Gene Drew e gente che portava nomi e soprannomi come Dutch “Atom Man” Schnitzer, Speed Sterns, Ed “Chromedome” Ryan, Big Jim Welch.
Uno spettacolo, ora altamente clandestino, dove ci si giocava la vita, e una platea per quattro quinti formata da gente che oggi voterebbe Trump aspettava, famelica, l’incidente, le fiamme, l’imprevisto. Ma che razza di spettacolo era quello che si consumava nelle arene d’acciaio? A guardare “Steel arena” ci si sporca d’olio anche stando immobili in poltrona o spalmati sul divano. E si percepisce, acre e godurioso, un odore che non conosce particolari variazioni. Odore di pupe, birra e motori. Non manca un pezzo country, proveniente a tarda sera da un’emittente tv col segnale disturbato. Non mancano le scazzottate. Non mancano gli sceriffi ciccioni. E neppure, poetici, alcuni tramonti da urlo che sigillano una tipica scena in cui i nostri cavalieri motorizzati si prendono a sportellate, saltano alcune auto accatastate o cercano di perforare in un cerchio di fuoco.
Non stanno mai fermi i bolidi. Quando non sono radunati nei ring d’acciaio, solcano l’America delle valli sterminate, sfrecciano tra fango e polvere, si tuffano nei corsi d’acqua. Altri bolidi, altra America. Il periodo, la prima metà degli anni ’70, era quello di “Thrillseekers-Il pericolo è il mio mestiere”, breve docuserie americana (solo un paio di stagioni) che sulle nostre emittenti private avrebbe girato, incessantemente, per tutta la decade successiva. Gente che saltava fossi, sfidava lame e rocce, le provava tutte per rischiare di finire al Creatore prima della data di scadenza. Il periodo era anche quello, non dimentichiamolo, dei “Mondo movies” anni ’70, più speziati di quelli appartenenti alla decade precedente. Più forti, più freak, più folli. “Steel arena”, oggi, appare come un trionfo di libertà e pericolo che inebria anche in virtù di una paradossale eresia: a rappresentare, realmente innamorato, quell’America di confine, così “easy rider” – tradizionalmente tagliata fuori dalle rotte del progresso disegnate da teste pensanti metropolitane –, è stato Mark L. Lester, un allora giovanotto tutto impegno civile, cause corrette e letture edificanti.