Pochi squilli e mi risponde con una voce gentile e pacata: “Diamoci del tu”. La chiamata durerà un’ora, ma avremmo potuto parlare tutto il giorno. Ci siamo ripromessi di incontrarci e magari continuare la nostra chiacchierata. Perché Roberta Castoldi non è solo una poetessa, una violoncellista, una studiosa di filosofia, ma una donna che ha vissuto la morte precoce del padre, che vive ogni giorno una routine tanto diversa da quella del fratello, Marco Castoldi (in arte Morgan), ma complementare. Abbiamo parlato del suo ultimo libro di poesie, La formula dell’orizzonte (Anima Mundi, 2022) e del suo primo, La scomparsa. Le abbiamo chiesto della sua vita, di qualche ricordo, della sua famiglia, di come affrontare il lutto, di come guardarsi dentro e andare avanti e di cosa voglia dire innamorarsi. In questa intervista abbiamo scalfito la superficie di un’autrice raffinata e complessa, provando a conoscerla meglio.
La nuova raccolta parla dell’innamoramento, ma non c’è una vera dedica. È il libro stesso a parlare a qualcuno in particolare?
È impossibile parlare di innamoramento in termini esclusivamente astratti. L’innamoramento è un’esperienza e non basta concettualizzarla, bisogna viverla. E non si tratta neanche di una sola esperienza. Ci si può innamorare più volte e queste esperienza si richiamano tra loro.
Nella prefazione di Franco Loi a La scomparsa (1998), si mette in guardia il lettore dal prendere il libro come un lungo lamento. Ma solo dieci anni prima avevi vissuto la tragica scomparsa di tuo padre. Come hai trovato l’equilibrio nei tuoi testi tra esperienza e volontà di smarcarsi dal lutto?
Semplicemente lasciandosi aderire alla vita. Bisogna abbandonarsi alla vita, non irrigidirsi solo nell’esperienza del dolore. Bisogna fare sì che la vita ci trasporti. Io attraverso il dolore con occhi aperti e si va avanti. Quello che non ho fatto è stato cristallizzare nella forma di un lutto, lasciando che tutto il resto scomparisse. A un certo punto scrivo: “e la perdita della perdita / non sarà che un eterno bosco di felci”. Bisogna arrivare a sentire di essere parte di un bosco di felci, cioè di un’avventura, com’è la vita.
Che vuoto lascia in una figlia la scomparsa di un padre, soprattutto in un modo così traumatico?
Mi ha smisurata, nel senso che mi ha reso più grande di quello che non fossi. Mi ha tolto la mia misura, la mia età. Ho dovuto accogliere un gesto più grande di quello che io potessi anche solo pensare. È stato come un evento che ha rotto gli argini. Probabilmente la poesia, lo scrivere, mi ha permesso di esprimere questo essere passata a un altro ordine di grandezza rispetto alla propria vita. La poesia dice qualcosa anche a qualcun altro, perché va persino al di là di te stesso, della tua anima.
E immagino serva tanto coraggio.
La morte di mio padre mi ha sorpreso. Scrivo: “si spezza la lingua”, perché non solo è la sua lingua, la lingua di mio padre, a spezzarsi come corpo morto, ma anche la mia. È la mia lingua che si è aperta totalmente verso un altro linguaggio. E non parlo solo di me, parlo di tutti gli eventi dolorosi. Chi vive qualcosa del genere non parla più solo con le parole della logica. Attraversi un luogo buio, devi avere coraggio. Come scrive Emily Dickinson, vado a memoria, “canto come chi passa davanti a un cimitero”. Hai presente quando hai paura e allora inizi a canticchiare?
Tua madre è anche musicista, l’abbiamo vista in tv con tuo fratello Marco al pianoforte. Quanto è stata importante la sua sensibilità artistica per avviarvi su questa strada?
La mia mamma è una donna molto diversa da me. Lei non si esprime come mi esprimo io attraverso le parole. A volte mi dice che non capisce cosa scrivo (ride, nda). Però è sempre stato un faro, per come è brillante e forte. Questa sua forza, questa sua vivacità, sono ciò che mi ha passato. Magari abbiamo gusti diversi, discutiamo molto ecc. Ma penso che mi abbia passato questa luminosità vitale che poi è ciò che ha permesso a entrambe di andare avanti. Poi sai qual è un’altra cosa importante di mia madre? Lei considera l’arte qualcosa di serio, di importante. Non ha mai pensato che si trattasse di un hobby. Ha sempre stimolato, sia in me che in mio fratello, affinché ci impegnassimo a fare arte.
Ne La formula dell’orizzonte, il mare è un motore del desiderio. Ne La scomparsa, invece, scrivi: “Essere nel mare come nel ricordo / il mare come aderisce al fondo”. Da giovane pescavi nel passato (ricordo), mentre ora getti lo sguardo verso il futuro (desiderio)?
Come dice Franco Battiato: “I desideri non invecchiano quasi mai con l’età”, ricordi? Il mare ti porta a comprendere tanto. È un attivatore del mio pensiero. Ti porta nel passato e nel futuro, con l’orizzonte che si sposta. Ne La scomparsa, la vicinanza a un passato doloroso non mi permetteva di percepire il futuro. Lo stavo costruendo. Ora invece sono passati tanti anni, e il mare può ricordarmi come questo limite, questo orizzonte, non fa altro che spostarsi. Pensiamo all’orizzonte e capiamo che non bisogna avere paura di ciò che ancora deve venire. Ti dico un’altra cosa. Quando attraversi un lutto importante ti sembra impossibile pensare un futuro. Invece bisogna continuare a immaginarlo. Prima il mare per me era un fondale, arrivare al fondo. Ora non più.
I versi delle due raccolte sono molto curati a livello musicale e ritmico. Sei una musicista in una famiglia di musicisti. Spesso le parole funzionano come una jam session. Hai imparato questa musicalità anche grazie al rapporto con tuo fratello Marco, in arte Morgan?
Sicuramente ci sono degli aspetti di “facilità del suonare” che mi ricordano la sintonia con mio fratello. Io e Marco, quando suoniamo, lo facciamo in maniera totalmente spontanea. Abbiamo molta complicità, tante affinità. Quando creiamo un’armonia vocale, per esempio, esce fuori con naturalezza. Ho suonato con tante persone ma, sai, con Marco ho collaborato in modo più costante. Per non parlare di quando improvvisiamo. Lui pianoforte, io violoncello. Creiamo una specie di universo, non manca nulla.
Morgan è un artista sempre sotto i riflettori, tu invece sembri quasi rifuggirli. Ti piacerebbe un giorno poter fare cambio di status, magari solo per alcuni giorni?
Lo farei. Sarebbe una grande lezione per me e per lui. Io ho sempre visto Marco come una persona in grado di farsi carico di tantissima violenza. Essere sotto i riflettori è anche quello, un destreggiarsi in mondi che spesso non ti vogliono bene. Caspita, penso, che coraggio che ha Marco. C’è una tale gara, che veramente la gente potrebbe uccidere. Non penso che sarei in grado, perché odio la competizione. Per questo mi concentro sulla mia vita quotidiana, senza dover sgomitare. Voglio pensare ai miei affetti, alla mia vita intima. Non voglio rischiare di fare scelte inautentiche. Sento una grande tenerezza per lui. Però sì, lo farei per qualche giorno, imparerei tante cose, ma poi tornerei sul mio percorso. E a Marco farebbe bene uscire da quel vortice e uscire a prendersi una pizza con un amico, così da avere nelle giornate un po’ più di pace.
Torna il discorso del coraggio. Sai che è un mondo che ti divora, ma vuoi provare.
Sono una persona molto avventurosa. Sai che farei però? Due giorni insieme a lui nel suo mondo, poi due giorni lui nel mio. Non sarebbe uno scambio vero e proprio, in solitudine. Staremmo insieme nel mio e nel suo mondo. Potremmo darci molti consigli a vicenda.
Già lo fate qualche volta?
A me Marco dà molti consigli, belli. Io non ho mai cercato l’approvazione di altri. Uno dei primi consigli che mi ha dato è stato: “Ma prendi quei cazzo di testi e vai in giro. Falli conoscere. Ma cosa pensi che ho fatto io? Ho preso porte in faccia, non è una cosa facile. Ma affronta”. Mi sono sentita come se avessi ricevuto una folata di vento che ti scompagina tutto. E allora ho cominciato a dire: proviamo. C’è bisogno che le nostre due prospettive siano permeabili.
Marco ha detto spesso pubblicamente di avere una sorella geniale (“è lei quella brava in famiglia”). E tu come lo consideri da sorella maggiore?
Io penso che Marco sia il musicista più spontaneo e competente con cui abbia mai suonato.
Questa è una delle prime poesie de La formula dell’orizzonte: “Ma per assumere la forma della mia anima/devo essere di profilo/e senza seno/cercare di ricordare le foglie/dove ho incontrato i miei passi /perché per loro/la terra e l’aria sono separate”. Quando pensi al tuo io, lo pensi con un genere?
No, penso all’anima come a questa combinazione sconosciuta che sono io. Penso a un impasto viscido come quella coda di pesce rimasta sulla spiaggia. “Senza seno” perché faccio anche fatica a identificarmi con il mio corpo, soprattutto quando sprofondo all’interno di me stessa e sento il resto del mondo, faccio un’esperienza profonda del mondo. È importante ciò che diventa maschile e ciò che diventa femminile. Esiste questo dualismo nella natura. Ma genere come fatto convenzionale e culturale no, non lo sento proprio.
Hai un dottorato in Filosofia e Scienze cognitive. Di cosa trattava il tuo progetto di ricerca?
Ho lavorato sul tema dell’esempio.
Caspita.
Sì. La mia tesi di laurea era in Storia della filosofia medievale e logica. Il dottorato l’ho fatta invece con un tutor di estetica. Il mio interesse è sempre stato capire cosa sia un esempio, cosa significa utilizzarlo. Fin da piccola, quando alle elementari la maestra ci diceva: “Va bene, adesso fate dieci frasi con il verbo ‘ho’” io ero veramente felicissima, perché dovevo inventare delle piccole frasi, delle piccole fenditure in una storia. “Io ho lasciato il libro a scuola”; e allora mi viene tutta una storia a partire da lì. E così via, per dieci volte. Venivo catapultata nel mondo dell’immaginazione. E poi le piccole frasi, le microstorie, mi hanno sempre colpito. E così ho studiato alcuni linguisti e alla fine ho approfondito il tema dello script, della storia. Ma poi andiamo su temi troppo specifici e tecnici, lasciamo stare.
Quali sono i tuoi poeti preferiti?
Dickinson, Dante, Saffo (ma amo tutti i grandi classici)
E fra i viventi?
Franco Loi. Per molti è morto di recente. Ne vuoi uno super vivente? Ma per me è ancora lì. Io lo vedo come mio contemporaneo e vive ancora, quindi dico lui.
In musica quali i tuoi riferimenti?
Mahler e Ligeti sono stati dei riferimenti per La formula dell’orizzonte. Ma io ascolto tantissima musica. Nelle mie playlist ci trovi un brano di Bach e poi uno dei Kiss. Mi piace moltissimo la musica strumentale. Oggi Anthony & Johnson, ma anche i Rachel’s, un ensamble di Chicago. E tutta la musica della mia vita, gli anni ’80, i The Beatles.
Vorrei salutarti con dei versi che mi hanno colpito in particolar modo: “Ma per lo scontro/appena fuori/io sono un incidente/di bosco e grammatica”. Ti senti ancora uno scontro tra natura e linguaggio?
Sì, perché non mi sento di avere un’età dentro. Quello che vale nello scontro io lo sento ancora. È come se la mia energia uscisse e si dovesse misurare con quanto invece è più irregimentato. Mi sento sempre con la stessa energia e lo stesso limite. E da questo scontro nasce quello che riesco a fare. Quello che posso.