A Roma c’era una volta la mondanità. Era garantita, sicura, “sfavillante”, un satyricon in spider. Il telefono (fisso) d’ogni ristorante rinomato, per non dire del “Jackie ‘O”, squillava ininterrottamente. Prenotazioni, tavoli da subito riservare a una clientela invidiabile, grandi lavori per la security. E soddisfazioni anche per gli “acchiappini” molesti, sempre lì davanti alla porta a invogliare i possibili polli, i turisti, pure loro portavano a casa uno stipendio, sebbene piccino. Era la vita mondana, pomeridiana, serale, notturna, tra aperitivo e “botta” di coca. Non ho detto invece, retoricamente, come fossi un addetto all’Ente provinciale del turismo, “Dolce vita”, che è stata ben altra cosa, circoscritta a un tempo storico ben perimetrato, affluente; fiducia nel sole del twist. Poi tramontato, insieme al precipizio del boom economico, dunque anche spettacolare, il miracolo chimico di Giulio Natta e degli elettrodomestici nata dalla sua formula, frigo e lavatrici, finite a loro volta allo sfascio lungo Casilina e Tuscolana.
Prova adesso a fare un salto in via Veneto, provaci, dai. Deserto, mucchi e ciuffi di immondizia ne infestano ogni aiuola, gli angoli, gli androni. I “dehors”, appaiono simili a loculi fallimentari, scatole trasparenti serrate, i vetri sporchi degli sputi dell’incuria, “fornetti” del declino, più di quando, anni addietro, furono apposti i sigilli al “Cafè de Paris”: tracce di feci di ratti nel suo retrobottega. “Oggi sotto le fioriere stracolme di cicche spente squittiscono i topi”, sempre e ancora loro, i topi, così narrava in un passato recente ai cronisti la responsabile della camiceria di fronte proprio a quell'affaccio esterno. Tempo altrettanto trapassato il 1974, quando, in piena Austerity, giorni di crisi petrolifera, Christo, l’artista non il Messia, prese a impacchettare le Mura Aureliane che si affacciano sull’imbuto del Muro Torto e la perdita d’occhio di Villa Borghese.
Uno spettacolo spettrale, lo si sappia, come l’intera città. Stecchita, non meno trapassata, in procinto d'essere traslata all'obitorio di via De Lollis, di fronte al Verano, il cimitero. Intatta tuttavia nel suo insignificante, burocratico quotidiano ministeriale, infeltrita come i fantoccini in pannolenci - carabiniere, guardia svizzera, bersagliere, contadinella di Fiuggi o di Otricoli o di Fondi - a loro volta lì a farsi rosicchiare dalla luce nelle vetrine di souvenir a un passo da Fontana di Trevi. La piazza, nottetempo, colma di polli congelati buttati in terra da chissà chi, così racconta un’amica residente, su cui si avventano i gabbiani reali, altrettanti residenti.
Altrettanto spoglie le vetrine delle cronache mondane del “Messaggero”, una volta invece sempre pronte a riportare “chi c’era” a questo o quell’altro “evento”, prima teatrale o cinematografica; specchio fedele del menzionato precipizio. Caduta verticale. Basti sfogliare i nomi citati per comprendere, meglio, avere percezione esatta del “cupio dissolvi” della vita già festiva capitolina.
Proprio domenica, al mercato di Porta Portese, su di un banco, accatastate, in vendita per poche decine di euro le foto incorniciate che un tempo occupavano le pareti della “Taverna Flavia” di Mimmo Cavicchia: autografi e “smack” al titolare di Liz Taylor e perfino dalla sua sosia, Marina Castelnuovo. E Laura Antonelli abbracciata a Jean-Paul Belmondo, e Kirk Douglas, e Alberto Sordi, e Sylvester Stallone, Joan Collins, Frank Sinatra, Hitchcok, le Kessler. Così il passato.
Al loro posto adesso, nel carnet del povero cronista rimasto ingordo, pressato dal caposervizio, brillano invece Guglielmo Giovanelli, Giuseppe Ferrajoli, Mariapia Ruspoli, Imma Battaglia e Eva Grimaldi, i coniugi Bertinotti, Stefania Orlando, Beppe Convertini, Roberta Beta, Gianni Letta e Serena Bortone, accompagnatrice fissa del suo “garante” su Raiuno, Stefano Coletta, e poi quelli che vanno alle cene gratis, anonimi, piccoli proci.
Impensabile ormai la scena in cui Cesarino Miceli Picardi, factotum di Marcello, porgendo la pelliccia proprio a Mastroianni, lo convince ad acquistare una villa a Porta San Sebastiano, imbocco dell’Appia Antica, con queste parole: “Si te viene a trovà Marlon Brando ‘ndò lo ricevi, ‘na n’appartamento?”. Dimenticavo Valeria Marini, con i suoi “baci stellari” nel bottino del cronista infaticabile. Restano però a presidiare la piazzetta cittadina Violante Badagliacchi, Lodovica Nirchi, Nello Lillo, Lucrezia Rossi Orzelli, Yvonne Pellutri, Saro Rummo Scarascia, Patrizia Tirabocchi, Anna e Mauro Pacirdi, Verde Panepizza, Ortensia Colacioppo, Farra Farri, Costanza Varicoceli, Marco e Filippo Cintura, Diamante Brucato, Jean de la Sucanière. Mi chiederete: ma chi cazzo sono? Nessuno, il nulla. E Rebecca Furciniti? ‘Sto cazzo pure lei.
Forse, l’ultimo scatto degno di nota mostra Keanu Reeves e la sorella Kim “che abita in Italia e da anni lotta contro la leucemia”, recita la dida. Intercettati da Rino Barillari all’uscita del ristorante “Pierluigi” a piazza de’ Ricci. Lontani anche i giorni in cui Lou Reed o David Gilmour si piazzavano da “Augusto” a piazza de’ Renzi a Trastevere, accolti dall'oste Sandro. O nel sole domenicale Ben Gazzara a pranzo da “Sandrone”, detto Pierreclementi, a Campo de’ Fiori.
Sempre il cronista deve raschiare di volta in volta il fondo del barile della sera e della notte per avere contezza di coloro che chiamiamo “vip”, e non sempre il risultato colma tre semplici righe. Anche il “Wine Bar Camponeschi”, fino a qualche anno fa luogo vitale, sia pure fuori tempo massimo, nella quiete di piazza Farnese sembra boccheggiare: lì, spiaggiati, trovi appena il critico d’arte Achille Bonito Oliva, postumo di se stesso e della stessa Transavanguardia, o magari Achille Occhetto e Aureliana Alberici dirimpettai, o il pittore Felice Levini, in assenza ormai d’ogni vernissage degno di nota.
Resistono però, va detto, resistono su tutto le prime dei film o dei libri di Walter Veltroni, lì sempre un pienone e mille complimenti doverosi che rasentano il ridicolo perché restituiscono l’ennesima forma di “amichettismo” politico della sinistra romana che ha resistito a "Mafia capitale", dunque nazionale, come mostrava sempre tempo fa un servizio leggendario di Enrico Lucci.
Al netto dei morti, coloro che non ci sono più, assenti alla vita, come il principe Carlo Giovanelli restano gli anonimi della “bella gente”. Resiste invece, unica eccezione, immensa e instancabile come uno sputnik o una navicella Apollo, Marisela Federici nella sua villa sull’Appia Antica, “La Furibonda”, senza di lei sicuramente Roma mondana potrebbe chiudere i battenti, dichiarando fallimento, bancarotta, listando a lutto se stessa alla barriera, al casello autostradale di Fiano Romano, cittadina sinonimo rionale di Sabrina Ferilli.
I versi di Pasolini dove si citano “le cravatte di Battistoni”, tempio d’abbigliamento di via Condotti, “per la Pasquetta, a milioni”, oggi non potrebbero essere più composti, e questo ben al di là della desertificazione giunta insieme alla pandemia e infine alla guerra del criminale nazi-comunista Putin all’Ucraina che minaccia l’Europa, l’intero globo terrestre. Anche le prime del “Costanzi”, il Teatro dell’Opera, raccontano le stesse secche; che fatica immane deve compiere Luciano Di Bacco, straordinario amabile onnipresente fotoreporter di “Dagospia”, succeduto a Umberto Pizzi, per portare a casa un bottino di volti, spendibili, presentabili, che non restituisca il vuoto, lo zero assoluto. Forse che il valore di una città si misuri nell’orgasmo mondano? Certamente no, ma l’assenza di questa ne segna il declino, il termometro rotto, ed è un declino che data ormai moltissimi anni. Irrilevante perfino far risalire il precipizio ormai spettrale all’improbabile sindacatura della Raggi o alla continuità nella calma piatta del suo successore Roberto Gualtieri.
Roma, città morta, che si riassume nella presenza degli autisti dei politici, scazzati, in attesa tra Montecitorio e Palazzo Chigi, e la colonna Antonina idealmente osservare dall’alto della sua cima l’abisso raggiunto. Lontani anche i tempi in cui gli ex fascisti di Alleanza Nazionale, cooptati, miracolati da Berlusconi al governo, Ignazio La Russa in testa, li trovavi, tutti in blazer blu, al Bar “della Pace”, intorno a loro, bottino di guerra, le stesse signore che fino a qualche settimana prima occupavano il boudoir dei socialisti di Gianni De Michelis. Chiusa anche “la Pace”, chiuso perfino il leggendario bar di Nino Medras, "Jonathan's Angels", subito dietro piazza Navona: nessuno potrà più pisciare o scopare nella sua straordinaria toilette simile a una cattedrale andino-ciociaro-bizantina. Allontanati perfino gli stessi pittori dalla piazza, tra la fontana dei Fiumi di Bernini e la chiesa di Sant’Agnese in Agone, dove Celentano girò il suo film-tonfo terminale, “Joan Lui”. Che pena non vedere più le caricature sui cavalletti, il nostro faccione per venti euri, noi seduti sul cesso.