In Italia ci si divide su tutto, ma su Lucio Battisti no: lo canti anche se non vuoi, ti viene addosso in coda al bar, mentre sei in viaggio in macchina, nei video scrollati sui social. Eppure il suo catalogo - la spina dorsale della nostra educazione sentimentale - è ancora tenuto in ostaggio da una serie di veti incrociati, parcelle, ricorsi e nostalgie “tossiche”. È come avere la Gioconda chiusa in una sala riunioni: tecnicamente esiste, ma la guardano solo i burocrati che ci si accapigliano intorno. L'ultimo episodio di una saga infinita è di oggi, 26 agosto 2025, come scrive il Corriere: gli eredi (56% del capitale) e Universal (35%) “sfiduciano” il liquidatore Luigi Saporito. Lui però resta, forte della nomina del tribunale. Un altro giro sulle montagne russe legali, con la musica legata al palo. Questa telenovela non nasce ieri. Acqua Azzurra, la società che dal 1969 amministra il repertorio Battisti–Mogol, è in liquidazione dal 2017 e Saporito è entrato in scena subito dopo. In pratica una toppa per gestire il conflitto permanente tra soci. In gioco ci sono 5 milioni di euro accantonati da un risarcimento versato dalla moglie e dal figlio di Battisti, Grazia Letizia Veronese e Luca, condannati per mala gestione della società prima del passaggio al tribunale.

Nel frattempo, un capitolo si è chiuso: a maggio 2025 la Cassazione ha respinto il ricorso di Sony (7-8 milioni la posta), sancendo la vittoria degli eredi. Una decisione che toglie un macigno, ma non libera la strada: restano contenziosi e un clima di guerra fredda che blocca decisioni industriali e culturali. “Ma Battisti oggi si ascolta, no?”, si chiede l’appassionato di musica. Sì, anche se ci è voluto un miracolo. Per anni è stato il nostro fantasma digitale: dischi irreperibili in streaming, cover su YouTube al posto degli originali, petizioni dei fan. L’apertura è arrivata nel 2019: prima l’annuncio, poi lo sbarco (simbolicamente 29 settembre) delle registrazioni Battisti-Mogol sulle piattaforme. Una vittoria di buon senso, resa possibile dai diritti online riassegnati per riportare la musica dove deve stare: nelle orecchie delle persone. Eppure la paralisi resta. Oggi leggiamo di utili non distribuiti per prudenza, di spese legali ingombranti, di un’azienda tenuta in apnea per “troppi rischi" e "troppe cause”. In mezzo, un patrimonio che dovrebbe vivere di ristampe curate, documentari fatti bene, sincronizzazioni ragionate (non svendite), aperture editoriali. Invece spesso finisce in un cassetto, con la priorità spostata dalle canzoni ai verbali.

E Mogol? Non è “il cattivo” del film - anche se, senza di lui, metà dei brividi non esisterebbero - ma è parte del cortocircuito. Per statuto e storia è dentro la stanza (quota 9%), con una lunga scia di cause e pretese. È il segno di un impianto che, a forza di proteggere l’intangibile, rischia di soffocarlo. Lo Stato dell’arte è il seguente: la società è in liquidazione da otto anni, il liquidatore è contestato, ma resta; gli eredi hanno appena vinto in Cassazione contro una major; ma gli altri fronti non mancano. Nel frattempo, il catalogo è in gran parte fermo sul piano strategico. Anche se la cultura paga, quando la si lascia respirare: lo streaming del 2019 ha dimostrato che l’esposizione non cancella il mito, lo amplifica. È la prova che si può difendere l’identità senza mummificare le opere. Ma perché sarebbe necessario “salvare Battisti”? Non si tratterebbe di un esproprio poetico, neanche di una crociata “contro”. Basterebbe un patto di civiltà tra chi possiede i diritti e chi i ricordi. Cioè attraverso una Fondazione con trust del catalogo: un veicolo dedicato con governance mista (eredi, editori, Stato-istituzioni culturali, figure indipendenti), con un mandato chiaro (valorizzazione culturale prima che finanziaria) e regole di licenza trasparenti. Sarebbe l’unico modo per allineare interesse pubblico e diritti privati, disinnescando i veti incrociati. Cosa ne pensa il ministro della Cultura, Alessandro Giuli, impegnato a ridare valore agli artisti "non di sinistra"? Sarebbe una mossa di marketing perfetta in chiave "egemonia culturale".

Quindi stop agli “abusi”, ma sì a cinema, documentari, podcast, scuole e archivi che rispettino estetica e storia. Una griglia di criteri pubblica (contesto, integrità, impatto) con fasce di prezzo e tempi certi: zero lotterie, zero tempi morti. Senza contare master digitali, multitracce, artwork, demo, interviste: tutto catalogato reso fruibile (anche a pagamento) per studiosi, media e pubblico. E ancora, Edizioni “definitive” come si deve, booklet seri, note di copertina d’autore. Il mito cresce quando lo racconti, non quando lo nascondi. In ambito didattico e sociale servirebbero licenze agevolate per progetti educativi, scolastici, orchestre, conservatori. La musica di Battisti deve tornare un bene comune smettendo di essere proprietà esclusiva. È un investimento generazionale, non un regalo. La proposta è semplice anche se suona scomoda: salvare Battisti significa togliere centralità ai conflitti (tra Mogol, gli eredi, gli editori, i liquidatori) e ridarla alle canzoni. Non è una mancanza di rispetto per i protagonisti di questa querelle, ma amore per un patrimonio che è già oltre i confini della proprietà privata. Oggi sappiamo come si muove la burocrazia - quote, ricorsi, nomine, sfiducie - e che la musica, quando le apri le finestre (2019 docet) moltiplica il suo valore. Quindi, nel 2025, non sarebbe il momento di finirla di parlare del cantautore solo nei corridoi dei tribunali? Ecco perché è necessario “salvare Battisti”: non da una persona, ma dalla “macchina infernale” che, mentre pensa di proteggerlo, lentamente rischia di spegnerlo.
