“Certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Cosa c’è di meglio, per cominciare un pezzo che parli del Festival di Sanremo, che citare i versi di una canzone. Va beh, è vero, la canzone citata, è Amici mai di Antonello Venditti che non è mai stata in gara al Festival, né è mai stata eseguita alla serata delle cover (quest’anno toccherà alla ben più nota Notte prima degli esami), ma pur sempre dei versi di una canzone si tratta, versi che agevoleranno non poco il lavoro di chi questo pezzo lo sta scrivendo, che a ben vedere poi sarei io. Perché quello che state leggendo è un pezzo sì sul Festival di Sanremo di quest’anno, settantaquattro candeline sulla torta, il quinto di fila diretto e condotto da Sua Maestà Amadeus, ma è anche un pezzo che prova a tirare le somme di quel che il Festival è oggi, e di come è arrivato a essere oggi, magari partendo proprio dal momento in cui ha emesso i suoi primi vagiti, appunto settantaquattro anni fa. Era un’Italia completamente diversa, quella, e a ben vedere era assai diverso anche il Festival, a partire dal fatto che passasse dalla radio e non dalla televisione, fatto che avverrà solo a partire dalla quinta edizione. Non bastasse questo, le esibizioni non avvenivano al Teatro Ariston, ma al Casinò e, attenzione attenzione, non c’erano trenta cantanti in gara, assurdità pantagruelica solo di quest’anno, ma un gruppo ristrettissimo di interpreti, lì a cantare le loro canzoni. Il nome Festival della Canzone Italiana, infatti, a parte tradire l’idea di concorso a beneficio di quella di festival, lasciava intendere che al centro dell’attenzione ci fosse la canzone. Per dire, esempio su tutti, l’edizione del 1952, la seconda, vedrà Nilla Pizzi portare alla vittoria la canzone Vola colomba, e portare sul podio la seconda classificata, Papaveri e papere, e la terza, Una donna prega. La parola discografia, tanto per chiudere l’istantanea, almeno sul fronte musicale, aveva ancora un senso, perché si parlava appunto di dischi, nello specifico il 78 giri, presto soppiantato dal 45 giri, in vinile. Dischi nel senso di album, pensati non per raccogliere i singoli usciti, ma proprio come opere a se stanti, con un senso interno, magari un concept, arriveranno poi, scavallando gli anni Sessanta. Una piccola rivoluzione, parlo del Festival di Sanremo, avverrà con l’introduzione della doppia interpretazione, cioè una medesima canzone cantata da due cantanti diversi, e accompagnati anche da due tipologie di orchestre diverse, una più classica, una più moderna, fatto che avverrà nel corso della terza edizione. Altra piccola - si fa per dire - rivoluzione, l’apertura alare di Domenico Modugno durante l’interpretazione di Nel blu dipinto di blu, meglio noto come Volare, brano che andrà bene anche in virtù di quel gesto ritenuto assolutamente fuori dai canoni per l’edizione del 1958. A tutt’oggi Nel blu dipinto di blu è una delle canzoni più famose, simbolo, insieme a certe arie classiche e a certe canzoni napoletane, del Bel Canto, di cui siamo a nostro modo titolari. Il tutto, e poi giuro che passo oltre, mentre l’Italia si rimetteva in piedi dalla devastazione della Seconda Guerra mondiale, si alzava e dava il via prima alla rivoluzione, non senza l’aiuto del Piano Marshall, e poi al boom economico, con tutto quell’immaginario lì, di cui le canzoni o canzonette di Sanremo sono state per anni colonna sonora più che meritevole. Poi, qui premo sull’accelleratore, gli anni Settanta, quelli che appunto hanno visto l’arrivo degli album, sempre di dischi si parla, hanno in qualche modo cancellato il Festival, erano gli anni di piombo, e quindi dei cantautori, da una parte, e del rock, dall’altra. Essere frivoli non andava di moda, e passare dal Festival era quasi da sfigati. Il Festival ha cominciato a essere una cosa marginale, e comunque quasi a parte rispetto a quel che la discografia faceva altrove e nel resto dell’anno. Gli anni Ottanta, col playback in tv, i presentatori a volte improvvisati, pur presentando qualche chicca notevolissima, penso a Enzo Carella, anche se già prima c’era passato Rino Gaetano, tanto per fare un paio di nomi, o Anna Oxa e i Matia Bazar, per farne altri, ma soprattutto agli ultimi posti di quelli che sarebbero diventati due giganti della nostra discografia, Zucchero e Vasco Rossi,, hanno rappresentato una sorta di anomalia, in parte proseguita anche nel decennio successivo: il Festival di Sanremo è diventato una realtà autoconclusiva, dentro la quale si muovevano una serie di artisti che poi finivano ibernati nel resto dell’anno, che invece diventava di volta in volta altro, i cantautori, ancora, il Festivalbar, pure, i concerti a pagamento e quelli in piazza. Capitava, col contagocce, che artisti affermati anche fuori da quel contesto si presentassero in gara, ma era cosa rara, e spesso “concordata”, con immancabile vittoria finale, si pensi a Cocciante, si pensi ai Pooh, seppur nomi grossi come Renato Zero, in gara con la splendida Spalle al muro, regalatagli per i quarant’anni da Mariella Nava (a quarant’anni una canzone che diceva “vecchio, diranno che sei vecchio”, Dio mio, mica per niente in quell’occasione Zero annunciò il famoso ritiro, poi mai portato a termine).
Funzionava così, se avevi un mercato, se vendevi dischi e facevi tour, a Sanremo non ci andavi. Se invece avevi bisogno di quella vetrina, magari per andare poi a fare tour all’estero, penso ai Paesi dell’Est o in Sud America, complice la mondovisione, passavi di lì. Due mondi paralleli, che quasi mai si incontravano. Il che offriva comunque a suo modo una strada specifica a chi decideva di muoversi su quelle corde, le canzoni “da Sanremo” sono a lungo state un genere a parte, garantendo in qualche modo una pluralità, che era pluralità vera, perché oltre al Festival c’era il mondo dei cosiddetti centri sociali, che poi magari passava da Piazza San Giovanni per il Concertone del Primo Maggio, c’era la musica pop da classifica, quella che imperversava al FestivalBar, c’era la musica alta, che si ritrovava sempre all’Ariston, ma per il Club Tenco, e poi c’era il resto, i vari generi rock, dal metal al punk, passando per la musica dark, il reggae e quel che è. Da Sanremo di quel periodo sarebbe comunque passati dei bei campioncini, penso a Laura Pausini, Eros Ramazzotti, Giorgia, e direi che tre è un numero perfetto su cui fermarmi. Quelli erano gli anni dell’edonismo reaganiano, termine coniato da Roberto D’Agostino ai tempi in cui frequentava chez Arbore, il nome di Claudio Cecchetto, chiamato a condurre, ben identifica il suono che girava, poi della caduta del Muro di Berlino e della Seconda Repubblica, la musica che girava intorno, per dirla con Fossati, non era certo solo quella di Sanremo, anzi. Il nuovo millennio ci ha trovati incuriositi, parlo sempre di Sanremo, perché Baudo, che fino a quel momento aveva imperversato, a suo modo, prima di lui Mike Bongiorno, lascerà spazio a Fazio, i Bonolis, ogni tanto, sporadicamente, anche a qualche donna, penso alla Carrà e alla Clerici, e poi Panariello, Gianni Morandi, Carlo Conti, Claudio Baglioni, e poi Sua Maestà Amadeus. Descrivere quel che gli anni zero, prima, i dieci, poi, e i venti, ora, sono è impresa che lascio con piacere agli storici, che immagino se ne occuperanno in futuro, se mi state leggendo ci sarete già stati e non c’è certo bisogno che sia io qui a raccontarveli. Del resto proprio quel che è accaduto l’altro ieri e sta accadendo oggi, la pandemia, i cambiamenti climatici, la guerra in Ucraina, prima, e in Palestina, poi, tutto corre veloce, quasi inafferrabile. Di fatto, da un certo momento in poi, per la precisione dal secondo Festival targato Baglioni, qualcosa ha cominciato a cambiare davvero. Prima inconsapevolmente la vittoria di Mahmood su Ultimo e Il Volo, questi ultimi due nomi dati per favoriti alla vigilia, l’autore di Soldi arrivato primo contro ogni pronostico, e a seguire una veloce accelerazione che ha visto via via non solo cambiare completamente i nomi del cast delle varie edizioni di Amadeus, ma anche il mercato adeguarsi al Festival, pensiamo ai Maneskin, volati a Eurovision e poi a conquistare il mondo, ma pensiamo anche ai primi tre posti dei singoli in Fimi l’anno scorso, occupati dalle prime tre posizioni del Festival 2023, Lazza, Mengoni e Mr Rain, laddove al Festival Lazza era secondo e Mengoni primo. Di colpo è successo che il Festival è diventato figo, cool, scegliete voi la parola adatta. Andarci non era più una necessità, ma qualcosa di cui andare fieri. Non un piano B per carriere in crisi, ma semmai la consacrazione per successi ottenuti e, volendo, anche la possibilità di farli ulteriormente aumentare. Quindi ecco che Rkomi, campione di vendite degli album, Dio mi perdoni, nel 2021 con Taxi Driver, è andato in gara nel 2022, ecco che Lazza, campione di vendite con Sirio nel 2022, è andato in gara nel 2023, e ecco che Geolier, campione di vendite con Il coraggio dei bambini, in gara quest’anno. Tutti belli contenti, e in compagnia di altri campioni, quest’anno ci sarà la regina del Pop Annalisa, prima donna a finire in cima alla classifica con Mon Amour da una vita, seguita dall’altra campionessa di vendite Angelina Mango, e ci saranno i mattatori dell’estate, i The Kolors con la loro ItaloDisco. Tanti nomi, molti pesanti, e nessuno lì per presentare un album, fatto che invece era prassi fino a poco tempo fa. Sarà che per finire poi primo in classifica i pezzi di un album li devi piazzare subito nella classifica dei singoli, tutti, stiamo parlando di streaming, succede sempre così, a ogni uscita di artista trap o rap. O sarà che gli album cominciano proprio a non avere più senso, tutti asserviti alle logiche di Spotify, che chiede un singolo nuovo al mese, con buona pace di chi si era abituato a ascoltare la musica in altro modo. Anche qui, fateci caso, spesso esce un album di cui già si conoscono diversi singoli, e dopo un po’ che è uscito l’artista tira fuori un brano nuovo, non contenuto lì dentro, per stare nel flusso.
Ecco, in questo Sanremo è tornato alle sue origini. Non ci sono più album oggi, non ce n'erano allora. Chi domina le classifiche va in gara al Festival, come ci andava allora. Anche il discorso tv andrebbe affrontato, ma qui vado a camminare su un campo minato. Perché è vero che Amadeus porta in gara trenta artisti per conquistarsi prima serata, seconda serata, terza serata e come diavolo si chiama lo spazio tra l’imbrunire e l’aurora, visto che finirà all’alba, quando poi attaccherà Fiorello, anche per dominare gli ascolti, se allunghi il brodo e non hai concorrenza la media di ascolti sarà pazzesca, come in effetti è sempre stata negli ultimi anni, ma è pur vero che in numeri di spettatori, di anno in anno, stanno diminuendo, perché sempre meno gente guarda la tv, e ascolta anche la radio. I tanti giovani che seguiranno il Festival, perché gli artisti in gara sono soprattutto giovani, appunto, Gen Z, lo faranno più presumibilmente sui canali social, o comunque in rete, la televisione non fa proprio parte del loro quotidiano, i miei figli, per dire, neanche sanno come si accende. Siamo quindi tornati da capo, con la canzone che in qualche modo ritorna al centro dell’attenzione, singola. Con però qualche piccola ma significativa differenza. Primo, le canzoni dei primi Festival, con poi la deriva anni Settanta/Ottanta guidata dai vari Al Bano e Romina, Pupo e Toto Cutugno, quella che poneva la melodia al centro, che quindi si faceva ambasciatrice del Bel Canto italiano nel mondo, oggi non è più presente. O quasi. Le canzoni in gara, lo abbiamo detto allo sfinimento, sono quasi tutte tirate, con la cassa dritta, più ritmo che melodia, poco bel canto in vista. Del resto chi è partito ultimamente dal Festival per conquistare il mondo, Damiano & Co, fa un genere che col Bel Canto ha poco o nulla a che fare, magari ha ragione anche in questo Amadeus. Altro piccolo problemino, ma son sottigliezze, l’Italia di oggi, la crisi economica, gli equilibri difficoltosi al centro della scena europea, la destra che vede la Meloni circondata da alleati poco felici e la sinistra inesistente all’opposizione, tutto è fuorché una nazione che si sta rialzando, speranzosa e ottimista verso il futuro come quella degli anni Cinquanta. Diciamo che come in certi film di fantascienza, quando uno si trova a rivivere una scena del proprio passato, solo che qualcosa è cambiato, in peggio, ci siamo beccati una discografia appoggiata sul mordi e fuggi a fare da colonna sonora di una realtà cupa e pessimista. Certo, comunque vada sarà un successo perché Sanremo è Sanremo e certi amori non finiscono, fanno giri immensi e poi ritornano, ci mancherebbe altro, ma vien quasi di rimpiangere l’epoca in cui i cantanti cantavano in playback, indossando vestiti discutibili, e dopo un paio di settimane a fatica ci ricordavamo quale fosse Flavia Fortunato e quale Giorgia Florio. Comunque, buon Festival a tutti.