Roberto Vecchioni ha alle spalle un’opera. Un viaggio decennale nelle parole, nella letteratura, nella poesia. E ovviamente nella musica. Lo chiamano maestro, professore. Artista. La verità è che Vecchioni è un’occasione. È stato un’occasione sempre. Un’occasione per crescere, per restare imbambolati di fronte al dolore ma solo per un secondo, per restare muti di fronte alla bellezza, ma solo per un attimo. Poi cantare. Poi urlare. Poi recitare. Roberto Vecchioni ha ottant’anni, Alfa ventitré. È uno di quei ragazzi che non devono smettere di sognare, uno studente. A Sanremo, per la serata cover, canta proprio con Vecchioni e parte la standing ovation dopo Sogna ragazzo sogna. Ci sono molti motivi perché loro due, su quel palco, non sono stati come gli altri.
La gestualità. I corpi sono il modo che hanno le anime di non sentirsi lontane. Riempendo lo spazio tra di loro, andando appena appena oltre la barriera di aria tra due persone. Vecchioni ha infranto questa barriera innumerevoli volte, lo ha fatto con quella forma di affetto aggressivo, la stretta su un braccio, la mano sulla spalla, lo scossone, che solo una persona che crede nei ragazzi sa manifestare. Lo ha preso, lo ha tirato, gli ha lasciato il finale. Lo indicava, lo ha ringraziato, lo ha voluto con lui fino agli ultimi, i più importanti, versi. Alfa. Saltava, una gioia entusiasta, commossa, un’energia che si ricarica cantando e non si esaurisce mai, fino alla fine. Non è stato un compitino. Era lì accanto al professore, ed è lo studente che gli risponde, che dice: ho ascoltato le tue parole.
Il significato. Sogna ragazzo sogna non è una canzone qualunque. È un modo di dire che le cose le vinci da sconfitto, quando non ci credi più. È essere ragazzi e trovare una traccia da seguire, un modo di vivere. E scoprire che qualcosa si è imparato, che qualcosa basta, è sufficiente, non devi cercare altro, è tutto lì, in un cassetto, in uno sguardo, in un modo di vivere la corsa, lo sballottamento totale della vita, l’amore. Alfa ascolta gli ultimi versi cantati da Vecchioni, “manca solo un verso a quella poesia / puoi finirla tu” e lui la finisce iniziandone un’altra, quasi con le stesse parole, ma pronunciate da un ragazzo di poco più di vent’anni, quasi sessanta in meno di chi, allontanandosi dal centro del palco, lo guarda fiero e commosso. E Alfa dice che ha imparato ad amare per il gusto di amare, che qualcosa basta senza che ci siano motivi, perché il cuore non fa complottismi, è chiaro, se ne sta lì a prendersi tutto.
Gli anni. E ancora una volta conta guardare agli anni, vedere cosa hanno creato, sul palco, quei due corpi, quelle parole. Perché anche le parole hanno gli anni, invecchiano. E più invecchiano più i giovani dovrebbero leggerle. Hai dieci anni? Leggi Dante. Ne hai cinquanta? Omero. E se credi che gli anni non ti basteranno, come lo crede chiunque abbia scoperto la saggezza della lettura, allora leggili tutti il prima possibile e poi rileggili. Le parole di Vecchioni passano nella voce di Alfa, si chiude un cerchio. Tirano fuori tutti, ogni cosa, la passione, il rispetto profondo l’uno per l’altro. Vecchioni lo accompagna, non lo gestisce, non lo sovrasta. Non è lui che conta, come non è Alfa. Sono le parole. E stupisce che una persona tanto giovane, lontana anche da quel mondo, abbia saputo tenere così in alta stima un testo che oggi, per ovvie ragioni, appare lontano, figlio di un’altra epoca. Ma la poesia non dispera mai, come l’uomo che sul punto di morire, pianterà “un ulivo, convinto ancora di vederlo fiorire”.