Che Sanremo oggi sia lo specchio, anzi, di più, la rappresentazione plastica del degrado culturale e di costume che affligge il nostro paese, il tutto condensato in una unica soluzione e spammato per una settimana nelle televisioni di tanti (s)contenti pagatori del canone Rai, è tanto vero quanto inutile sottolinearlo. Il nauseabondo mercimonio che dura il tempo di far venire il vomito anche ai più fedeli e coriacei appassionati dello spettacolo televisivo nazionalpopolare, anche quest’anno offre al pubblico le sue mostruosità. In mezzo alla grande paccottiglia di insensatezze che è il festival, gigantesco carrozzone-vetrina per soubrette, modelle, influencer chiamate a parlare di non-si-sa-cosa-né-in-quale-lingua-né-a-che-titolo (leggasi Chiara Ferragni et similia), resistono anche alcuni lampi di possibile “arte”, e, se proprio si ascolta con fede e pazienza, talvolta anche qualche brano che può dirsi ancora “musica”. Pensiamo a Simone Cristicchi, o a Brunori Sas, e al meritevole Lucio Corsi. Ecco, c’è da dire che in mezzo a tutto il ciarpame vomitevole di personaggi stantii e riciclati (leggasi Fedez e compagnia, ibridi soggetti tritati dai social e dai media per qualche scandalo di basso calibro e poi in qualche modo riesumati dall’oblio per potersi ripresentare sui red carpet della Kermesse) di inutili e incomprensibili comparse di veline o modelline tira-audience per la felicità delle sciure di mezza pianura padana (e/o per il gustosissimo gossip al sapore di Instagram delle annoiate e cerebralmente compromesse radical chic di mezzo paese) ogni tanto resiste qualche barlume di senso, e, si diceva pocanzi, di buona musica.


Ma come mai in tutto questo vortice di marchette, vetrinette patetiche e sloganistiche a favore dell’una o dell’altra giusta battaglia sociale per i D1ritti1!, viene da chiedersi, il presunto “festival della canzone italiana” vede in qualità di grandi assenti gli scrittori, e i poeti, i veri artigiani della lingua che da sempre hanno tenuto per mano la penna e le voci dei nostri grandi cantautori per regalarci splendidi testi, e che non solo hanno regalato emozioni a migliaia di appassionati, ma anche contribuito a creare mondi, e scolpire l’immaginario che tanti di noi oggi portano nel cuore? Domanda cui sembra scontato rispondere se si ragiona in chiave puramente commerciale: “gli scrittori non fanno audience”, dei poeti non frega niente a nessuno, men che meno dei parolieri che lavorano in silenzio e dietro le quinte insieme agli autori di canzoni senza tempo che però, guarda caso, quando qualcuno di questi improvvisati “nessuno” sale sul palco, sceglie sorprendentementedi cantare, “coverizzando” quello o quell’altro capolavoro di Dalla o di Finardi per darsi una patente di (decenza) o legittimità artistica, di cui sarebbe assolutamente privo o priva se rimanesse nel suo giardinetto composto da autotune e versi di dubbia comprensibilità (leggasi inquinamento acustico).
Come mai il grande festival della canzone, che rimane pur sempre un’arte che molta critica, letteraria e musicale, reputa, a ragione o torto, “letteratura”, non ospita o invita le voci della nostra letteratura, e cioè i veri custodi della lingua -per quanto spesso esangue o liofilizzata- che è la stessa materia che diviene nutrimento per i testi delle canzoni? Forse avrebbe più senso invitare sul palco del festival Claudia Durastanti o Dario Voltolini, Silvia Avallone e Alessandro Baricco o Davide Rondoni, o ancora Luca Doninelli, Giulia Caminito e Antonio Franchini,oppure ancora Salvatore Niffoi. Avrebbe più senso, invece di Bianca Balti o di Rocio Morales, veder scendere le scale dell’Ariston da Patrizia Valduga, da Irene Santori, da Milo De Angelis o da Gianmario Villalta, e chiedere loro di leggere poesia, e di raccontare cosa la poesia ha regalato alla storia del cantautorato e viceversa. Il giorno in cui vedremo Viola Ardone, o Isabella Leardini, Mariangela Gualtieri o Aurelio Picca o Antonio Moresco scendere le scale dell’Ariston per tornare a fare del festival realmente il festival della canzone e dunque (anche) della letteratura italiana, sarà un giorno in cui forse ci staremo rialzandodalle pesanti sabbie mobili dell’insensatezza e dal naufragio di senso verso cui andiamo tristemente alla deriva da troppi anni. Sarà un bel giorno e un giorno felice per molti di noi che chiedono ancora alla musica di essere uno scrigno di senso, inquietudine e significato. E alla poesia e alla narrativa di essere, esattamente, la prima porta di accesso per quel mistero.

