La satira è morta, lunga vita alla satira. Chissà cosa devono aver pensato dalle parti di Palazzo Chigi quando qualcuno ha deciso che era il momento di querelare un comico per un monologo che, a risentirlo, appare davvero innocuo. Già, perché Daniele Fabbri, uno di quei comici che la satira la fa davvero, senza il bisogno di allisciarsi i potenti, si è ritrovato nel bel mezzo di una querela per diffamazione da parte nientemeno che di Giorgia Meloni. Il motivo? Un episodio del suo podcast Contiene Parolacce, in cui Fabbri commentava la vicenda di un professore universitario che aveva insultato la futura premier con offese sessiste. Il comico prendeva le distanze dagli insulti, ma poi provava a spiegare come si può sfogare il sacrosanto diritto di critica senza cadere nella discriminazione. Come? Con parole buffe, ridicole, infantili. Tipo "puzzona" o "caccolosa". Un esempio surreale. Ma il presidente del Consiglio non l’ha presa bene. Così, carta bollata alla mano, la satira diventa un affare di Stato. E se il nome di Daniele Fabbri vi suona familiare, è perché questo non è il primo round tra lui e il potere: dai monologhi sulle religioni ai fumetti censurati, la sua è una carriera all’insegna dello schiaffo al perbenismo.

La vicenda, raccontata dallo stesso Fabbri nelle sue storie Instagram, è ai confini della realtà. Un comico che riceve una querela dal presidente del Consiglio per una battuta in un podcast. Non solo: Meloni avrebbe rincarato la dose, chiedendo un risarcimento danni di 20mila euro. Fabbri ha spiegato tutto, senza nascondere lo stupore e l'indignazione: "Questa querela mi è arrivata da un bel po' di tempo, però io finora non ho detto niente perché, da una parte, pensavo: 'certo che lei mi querela, per lei la satira è legittima soltanto quando se la può rigiocare a suo vantaggio'. Ma dall'altra parte pensavo: 'ma dai, ti pare?' Ma poi nel frattempo è pure diventata presidente del Consiglio. Con tutte le cose serie che ci sono da fare, con tutte le cose che hanno da fare i tribunali, ti pare, no? Questa cosa andrà a decadere'". E invece no. Perché la querela non è sparita, anzi: è diventata un caso di libertà d’espressione. Il comico aggiunge: "Pochi giorni fa ha pure rincarato la dose e vuole un risarcimento danni di 20mila euro per quelle parole lì. Non lo so, forse vuole coprire i buchi di bilancio con i soldi miei". Fabbri non è tipo da fare il martire, ma la questione è seria: “Un capo di governo che se la prende con un artista indipendente fa una mossa vigliacca”, dice senza giri di parole. E in effetti la domanda è lecita: davvero il problema dell’Italia nel 2025 è un monologo su un podcast satirico? Davvero un premier ha bisogno di querelare un comico per dimostrare la propria credibilità?

Quella di Giorgia Meloni, al comico, sembra infatti una querela intimidatoria: "Se non le puoi dire neanche 'puzzona' senza prenderti una querela, allora non le puoi dire più assolutamente nulla, perché qualsiasi cosa è più grave di 'puzzona'. Come fai a dirle se dice delle cose false o se dovesse fare delle leggi assurde o incostituzionali?". Ma il punto non è nemmeno la parola in sé, il punto è il principio. Se si inizia a zittire la satira con le carte bollate, poi cosa rimane? Un'Italia in cui l'unico modo per criticare il governo è con un meme? Fabbri lo dice chiaramente: "E guardate che non è il mio diritto alla satira, è soprattutto il vostro diritto alla satira. Perché la censura non serve a impedire agli artisti di fare satira, serve a impedire ai cittadini di ascoltarla, di vederla". E allora, davvero vale la pena una battaglia del genere? Perché chi ha voluto e poi non ritirato la querela, arrivando a chiedergli 20mila euro per una battuta, forse dovrebbe farsi due domande. E magari rispondersi con una risata.
