Il mondo del giornalismo musicale è un micro universo con regole implicite da osservare. Per restare a galla e presenziare a eventi e quant'altro. Un "do ut des" tra personaggi e giornalisti, e schiere di blogger spacciati per critici, che hanno fatto del presenzialismo la propria caratteristica.
E con buona pace di Verbitsky ("giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia, il resto è propaganda"), confondere le notizie veritiere col "copia incolla" dagli spot promozionali degli artisti. Per ottenere un posto riservato in conferenza stampa con allegato di gadget e selfie da sventolare in rete, e far invidia ai fan dei vip.
E pensare che un tempo un articolo autorevole poteva determinare la fortuna di un programma o di un disco. Mentre oggi rischia di influenzare la sorte di chi scrive, e della testata di appartenenza, se vergato in termini negativi. Così, per meglio capire fino a che punto è in pericolo la libertà di stampa e il diritto di critica in Italia, anche e soprattutto in ambito culturale, e se certe scelte dipendono davvero dalle agenzie di comunicazione, e quanto i giornalisti stessi siano colpevoli del sistema in cui sopravvivono, abbiamo fatto il punto con Andrea Scarpa, caporedattore spettacolo de "Il Messaggero", "vittima" recente dell'ingranaggio. Poiché denuncia, dopo aver elaborato uno scritto poco lusinghiero (per mano di Mattia Marzi) sul recente film di Tommaso Paradiso, il mancato accreditamento al suo concerto del giornale, e altri veti imposti dalla stessa agenzia (Wordsforyou), tra cui il pass saltato alla conferenza dei Måneskin, in ambito Eurovision.
Scarpa, cerchiamo di capire come funziona critica e giornalismo musicale in Italia, con il pretesto dell’episodio noto de “Il Messaggero”.
Parto con un discorso generale: nello spettacolo sono saltati tutti i paletti, e anche un certo galateo nei rapporti tra chi fa comunicazione e chi fa informazione. Io, poi, non sono esattamente di “primo pelo”, ho superato i 50 anni, e un po’ di esperienza alle spalle la conservo. Quindi, posso anche esibire uno storico: le cose sono cambiate negli ultimi dieci anni. Quando lavoravo a “Vanity Fair” (tra i fondatori e capo-redattore ndr), i tempi erano così diversi che dettavamo noi le condizioni. Quello che è successo dopo è colpa dei giornalisti stessi, causa sicuramente crisi del settore, e avanzata dell’esercito del web, carente di ABC del mestiere.
Parla dei blogger?
I blogger hanno dato carta bianca agli uffici stampa, perché spesso sono dei fan, e quindi se entrano a contatto con il fantastico mondo, va tutto bene. Ma noi siamo dei narratori, schierati dalla parte di chi legge. E invece, ormai, le agenzie di comunicazione dettano le regole, e vengono accettate, da tutti.
Perché?
Per non perdere determinati agi. Essere ammessi a un incontro stampa viene vissuto in dimensione da cameretta, e non in maniera professionale, così da sventolare selfie e gadget. Ma non è così che deve funzionare, non si può fare esclusivamente promozione, non è questo il nostro lavoro. Così si creano situazioni imbarazzanti e mortificanti. Lavorando con giovani giornalisti, sono assolutamente pro-giovani, ma vedo che la nuova generazione di comunicatori manca di vocabolario e capacità. E’ una crisi di sistema, che ha indebolito tutte le figure, permettendo che certe condizioni diventino regolari. E’ chiaro che l’ufficio stampa fa il suo, ma chi sta dall’altra parte, i nostri colleghi (o presunti tali), che accettano la qualunque, e a volte si fanno autorizzare pure il testo prima di pubblicarlo, sono più colpevoli ancora. E qui arriviamo al caso che ci vede protagonisti con Paradiso. Parto dal precedente: scriviamo alla vigilia del suo live al Circo Massimo (con Thegiornalisti, 2019), numeri alla mano, ovviamente, che la prevendita è andata male. Apriti cielo. Arriviamo alla conferenza stampa del suo film (“Sulle nuvole”, 2022), in cui il “mio giornalista” non solo non riesce ad avere un’intervista, ma nemmeno a formulare una domanda. Quindi, non avendo altro, abbiamo cercato i dati di vendita del film e da solista e quelli con la band, e comparati: la reazione è stata il mancato pass per il concerto, in cui Mattia (Marzi, il giornalista ndr) era già accreditato.
Attenzione però, la stessa agenzia vi ha concesso poi l’accredito stampa per Mahmood al Bataclan.
Non è così, è un accordo che avevo preso personalmente con il promoter del tour, non con l’ufficio stampa. Anche perché le agenzie mica hanno il budget per sostenere una trasferta. La riprova? Veto alla conferenza stampa dei Måneskin a Torino, in ambito Eurovision. Cosa scopriamo? Che a corte sono ammessi soltanto tre giornali, le agenzie e i Tg della Rai. Ma escludere il gruppo romano, con un prossimo live al Circo Massimo della band (luglio), non ha senso. E’ come un gioco ad ostacolare, che suona come una punizione perché hai osato scrivere in termini non lusinghieri. Dov’è finita la libertà di critica? E torniamo al punto di partenza, è tutta colpa dei giornalisti che si fanno dettare la linea editoriale. E questo non ha senso, nemmeno in termini di funzionalità, perché se gli articoli sono simili, e si tende al piattume, non si ottengono risultati. In fondo, perché non si vende più? Perché realizziamo prodotti tutti uguali, senza una critica, senza un racconto. Invece bisogna cercare quello che manca agli altri, quella notizia in più. Una linea più faticosa che può essere però anche più divertente. E che dovrebbe essere valorizzata dal comunicatore, non viceversa, perché può diventare un valore aggiunto.
MOW conferma la linea di cui parla. E intanto il giornalismo, non solo musicale, perde credibilità.
Il web ha creato mille spazi e introdotto mille voci sempre meno autorevoli e considerate. Come è venuto meno il mercato musicale, anche tutti i media che ruotano attorno ne hanno sofferto. C’è un problema a monte, di categoria e di sistema. Per non parlare di alcune interviste che sento fare: “Come nasce il disco? Ma com’è bello il disco?”.
Con sequenza di complimenti all’artista, che fanno sorridere.
Ma per favore. Queste cose le so a memoria, perché sono anche lettore. Le interviste in ginocchio, le cronache entusiasmanti sempre e comunque, vanno per la maggiore. Un po’ come ha sempre fatto per tutta la carriera il buono e bravo Mollica. Ma ripeto, è un gioco che non funziona più, non vende. Il mondo è cambiato, ma in certi ambienti si usano ancora le stesse regole.
A proposito di uffici stampa, non salva nessuno? Per esempio, Riccardo Vitanza.
E bè, su Vitanza (ma non è certo l'unico) sono sicuro che nessuno di noi possa dire male. Lo conosciamo, è un personaggio, ma nel giro musicale è il più professionale in assoluto. Personalmente, gli ho rotto le scatole tante di quelle volte, e non ha mai creato problemi. Ma lui è ancora della vecchia guardia. Il problema è che negli anni è cambiata la professionalità degli uffici stampa. Faccio un esempio, il rimpianto Michele Mondella (storico promoter di Dalla e di altri grandi ndr). Nel ’95 svelai l’identità di Anonimo Italiano (Roberto Scozzi), fenomeno che cantava inediti in stile Baglioni anni’70. Era un prodotto che funzionava e che rendeva milioni. Così Mondella fu costretto pure a realizzare una conferenza stampa in fretta e furia. Ma pur avendo perso dall’affare, mi disse: “Ti metterei sotto con la macchina, ma hai fatto il tuo lavoro”. Mentre oggi, per mezza parola negativa, succede il finimondo, altro che libertà di stampa.