Se Bruno Vespa si mostrasse nudo per promuovere il suo nuovo, ennesimo, annuale, implacabile libro, sarebbe un gesto, come dire, apprezzabile, a suo modo perfino “rivoluzionario”, in grado (quasi) di competere visivamente con gli scatti di Richard Avedon che mostrano Andy Warhol, le cicatrici sul torace, dono dei colpi di pistola sparati dalla femminista radicale Valerie Solanas, l’autrice di “Scum”, cioè feccia. Le foto di Elodie nuda, immerse nel mare aperto di Instagram per il nuovo singolo, temo, non abbiano la stessa esemplarità, poco probabilmente aggiungono allo spirito ordinario del tempo social, sembrano anzi confermarne la non meno corriva banalità da selfie, zero punti in più per la storia del costume; non spezzano neppure l’asticella dell’insostenibile idea dell’antico pudore proprio dei cantanti, escludendo nel novero, s’intende, ora l’Aquila di Ligonchio, che posò invece per “Playboy”, ora anche Amanda Lear; un’altra era della pubblicistica erotica. Elodie lo ha fatto per lanciare il nuovo singolo “A fari spenti”, titolo che rimanda, a suo modo, a un’ulteriore filologia battistiana, suggestione a favore d’elettrauto guardone, men che voyeur, suggerendo ancora un presunto piano profondo, notturno, interiorità anfibia. Uno scatto dove appunto la nudità, le forme, i seni appaiono travisati unicamente dai suoi “lunghissimi” capelli, espediente metonimico visivo-retorico già in uso nelle pellicole apocrife per non incorrere nella censura, nelle “pecette” nere del comune senso del pudore infranto, vilipeso, che faranno seguito all’originale “Decameron” di Pier Paolo Pasolini, titoli eponimi come “Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno”, “Fra’ Tazio da Velletri”, “I racconti di Viterbury”, “Fratello homo sorella bona”; forse anche, salendo di tono, “L’arcidiavolo” di Ettore Scola, con Claudine Augier-Maddalena de’ Medici, anche nel suo caso lo splendore sontuoso dei seni nascosti dalle chiome, sicuro effetto code di cavallo baio.
Lo scatto va da sé è doverosamente ripreso dal video della canzone. Sembra che i fan più fidelizzati abbiano apprezzato, sollevando un rosario-mandala di emoticon d’ammirazione, divinizzazione da destinare a Elodie Di Patrizi, romana, nata nel 1990 nella borgata di Quartaccio, “da padre italiano (artista di strada) e madre francese creola (ex modella e cubista), originaria della Guadalupa. I genitori si sono separati quando Elodie e la sorella minore Fey erano ancora molto piccole”, chiosa Wikipedia, suggerendo in questo modo una narrazione che mostri al suo centro la “forza di volontà”, l’ambizione, l’essere riusciti a emergere nonostante l’origine in un contesto altrimenti segnato dalla marginalità sociale, riscatto dalla condizione “coatta”, Quartaccio appunto, propaggine urbanistica ulteriore di Primavalle, nella cui storia c’è modo di annoverare, nell’ordine, i primi residenti in buona misura sfollati provenienti dalla zona di via della Conciliazione, apertura verso San Pietro che si deve alla demolizione della spina di Borgo voluta e attuata dall’urbanistica fascista, il delitto della piccola Annarella Bracci e, non ultima, la villa dove per lungo tempo ha vissuto, indimenticabile, Franco Califano detto “Il Califfo”.
Se non lo abbiamo ancora detto, altri hanno invece ritenuto la scelta del nudo promozionale discutibile, peggio, un’esca per lo sguardo, offerta al sentire onanistico attivo e operante globale, rionale, circoscrizionale, “l’agile mano che snuda il banano” lì pronta, per testualmente citare il canto-poema goliardico di “Ifigonia in Culide”, un semplice escamotage per sopperire alle carenze del talento musicale, canoro, il dono stesso della voce; evidentemente questi ultimi, diversamente dai “fan” accreditati, supplicanti nuovi selfie, non riconoscono a Di Patrizi Elodie qualità alcuna, la reputano forse del tutto dimenticabile come interprete, quasi che a brillare in lei vi sia unicamente ciò che in altri anni, forse al tempo di Silvana Mangano era detta “avvenenza”, un qualcosa che, adesso, se riferito a Elodie, tradotto in linguaggio prosaico, mostra l’attributo di “bona”, o in modo ancora più esplicito “gran pezzo de fregna”, e nel dire così ci vengono incontro i versi dedicati a quest’ultima, per l’appunto la Fregna, come categoria regnante assoluta, “la fregna oh adorata” dal poeta, attore, scrittore, pittore e soprattutto performer di se stesso Remo Remotti, giusto per rimanere nella koinè profonda romana e romanesca…
Figlia del Quartaccio non si è però lasciata intimidire, postando come pezze d’appoggio alla sua statuaria e insieme polposa nudità altri esempi di sovranismo promozionale assente al pudore: Biagio Antonacci nudo sulla copertina di “Vanity Fair”, un LP a coprirgli il supposto pisel*o; il rapper Tupac e ancora Robbie Williams, il cul* di quest’ultimo nell’istante prima di precipitare in piscina, immagine da dionisiaco diportismo serale, gioia dopo la pizzata. Certo, se avesse avuto più strumenti culturali, Elodie avrebbe potuto utilizzare come ulteriori prove visive a difesa della sua nudità sia Henri de Toulouse-Lautrec sulla spiaggia di Le Crotoy, in Picardie che addirittura si mostra mentre sta defecando, sia il critico d’arte Achille Bonito Oliva disteso come Maya su un divano a favore dell’obiettivo di “Frigidaire”, lo stesso giornale dove Jo Squillo si propose più che nuda, l’apoteosi dei Tampax lì a sfavillare, nel 1984. Peccato che alla fine, su tutto, in questa storia si sollevi unicamente come significante il pugno stretto dell’onanismo globale, tra seghe e, perché no, ditalin*, non resta altro margine per la provocazione stessa.