Come si era sbagliato, Sergio Caputo. No, non a raccontare i fasti dei sabati italiani degli anni Ottanta, quelli atti a rappresentare quello che nel mentre un Roberto D’Agostino illuminato aveva incorniciato nella perfetta definizione di tempi di “edonismo reaganiano”, l’esplosione della leggerezza dopo gli anni di piombo, lui che arrivava alla forma canzone dopo aver lavorato nella pubblicità, quegli anni Ottanta raccontati con una precisione chirurgica mista a un’ironia tagliente e malinconica, ancora permesse prima che David Foster Wallace ritrattasse col famoso “E unibus pluram”, quello sulla tirannia appunto dell’ironia stessa, quanto piuttosto su quel “il peggio sembra essere passato”, buttato lì con nonchalance, ma clamorosamente fallimentare. Quelli li ha raccontati benissimo, al punto che, a risentire oggi le sue canzoni così piene di parole, miliardi di parole, ricercare, azzeccate, calambour geniali che ci ripensi mentre sei solo in metropolitana, storia di vita vera, e scoppi a ridere come un pazzo (su tutti: “La cassiera ossigenata mi sorride/ non ha niente da invidiare a Fernandel”, canta in Night), vien quasi da rimpiangerli, gli anni Ottanta, per chi c’era è facile tornarci, almeno con la memoria. E neanche per averla buttata lì con quel “il peggio sembra essere passato”, infatti, lo stiamo vivendo giorno dopo giorno, ora e qui, nonostante ci ritenessimo fuori dalla zona di pericolo, in fondo Sergio Caputo è figlio dell’Italia della ricostruzione, e pensassimo di essere attrezzati per attraversare qualsiasi tipo di notte. Si era sbagliato a pensare che la musica, perché nonostante Sergio Caputo resterà indubbiamente nella storia della musica italiana, e della musica d’autore sia pop che d’autore, grave errore da parte di alcuni storici della canzone quello di trattarlo sempre con una certa sufficienza, come se non fosse stato determinante, con le sue canzoni, per aprire quel varco dentro il quale si sono infilati, di volta in volta, altri, penso al circoletto romano de Il locale, Daniele Silvestri e Max Gazzè su tutti, ma penso anche al primo Vinicio Capossela, certo tomwaitsiano dichiarato, ma non per questo meno sergiocaputiano, in certe riletture notturne e alcoliche, si era comunque sbagliato, Sergio Caputo, a pensare che la musica potesse ambire a essere al tempo stesso jazzata e pop, orchestrale e ancora radiofonica, dove quell’ancora fa chiaro riferimento a quando la musica, nelle radio, la suonava appunto le orchestre, mica c’erano i dischi, ricercata a piena di note (del fatto che fosse piena di parole ho già detto) e non per questo meno fruibile, come se per arrivare toccasse sempre e comunque essere semplici, o, peggio, basici, esprimerci come trogloditi usando segnali elementari, pensa te.
Il grande successo di Sergio Caputo compie quarant’anni, lui, personalmente, alla fine di agosto ne festeggerà settanta, e per celebrare queste date, più la prima che la seconda, il cantautore, da tempo ritiratosi a vivere fuori dall’Italia, sta portando in giro un giustamente sfarzoso concerto con una Big Band di sette elementi, quello di più vicino a una orchestra jazz che oggi ci offre il panorama pop italiano. In realtà i quarant’anni di cui sopra li ha festeggiati nel 2023, perché un Sabato italiano, suo album d’esordio, è del 1983, ma non stiamo qui a sottilizzare, le celebrazioni sono tali anche perché sforano il calendario, ieri era di nuovo a Milano, città che negli anni Ottanta è diventata la Milano da bere, quella appunto in mano ai copy come lui, come non andarlo a vedere al Lirico che porta giustamente il nome di un altro cantante pop, Giorgio Gaber. Ecco, lo dico senza paura di essere smentito, la stima reciproca che ci lega, chiamiamola pure amicizia è figlia appunto dell’opportunità che la professione di critico musicale mi ha offerto di conoscere e in parte frequentare gli artisti coi quali mi sono formato e sono cresciuto, Sergio Caputo è il nostro Sun Ra. Un San Ru altrettanto visionario, anche se preferiva andare in giro, ai tempi, in smoking piuttosto che con quegli abiti ancestrali che meglio si confacevano a un nobile alieno, del tutto intenzionato a farci dono della sua grazia e quindi della sua musica, incapace, forse, di fare in conti con un pianeta Terra un po’ troppo piccolo per contenere un talento così originale da passare quasi per bizzarro, vezzoso, come se portare il jazz in classifica, a Sanremo, la Festivalbar, parlo sia del jazz orchestrale di un Dizzy Gillespie (che con lui collaborò, ai tempi di Effetti personali, mica chiacchiere), per intenderci, che quello più intimo, dalle tinte blu di un Chet Baker, fosse un capriccio invece che una intuizione geniale. Torno un attimo alla questione della critica musicale, benché fosse stato lanciato da Carlo Massarini, e prima ancora da Ernesto Bassignano, il primo a regalargli otto video per ogni canzone di Un sabato italiano, ai tempi di Mr Fantasy, il secondo lavorando al suo esordio su 45 giri, la critica ha spesso tenuto Sergio Caputo fuori dal proprio immaginario. No, è sbagliato. Non fuori dal proprio immaginario, o radar che dir si voglia, perché che Sergio Caputo ci fosse e ci sia è cosa evidente, quanto piuttosto dalla propria narrazione, fuori dai canoni del cantautorato e fuori anche dal palmares del Premio Tenco, oltre che delle Targhe Tenco, mai invitato, mai nominato e quindi mai premiato. Al punto che, fossi in lui, se mai capitasse che un tardivo ripensamento portasse a un invito, volendo a un più che meritato premio alla carriera, a Enrico Ruggeri, escluso fino a un paio di anni fa, era successa la medesima cosa, nonostante lui ne avesse vinti come autore dei brani di Fiorella Mannoia, neanche risponderei al telefono, come un Bob Dylan che snobba da par suo il Nobel, e se poi arrivasse un invito via telefono risponderei con una bella foto del cazzo, che tanto mi par di capire, dopo le recenti notizie di cronaca, mandare messaggi molesti verrà presto derubricato alla voce “risentimento comune”, neanche il rischio di una denuncia.
Tornando all’oggi, Sergio Caputo fa atterrare la sua astronave a Milano, quindi, lui che ai tempi cantava L’astronave che arriva, lo dicevo che è il nostro Sun Ra, e come tutti gli alieni, avrete pur visto il classico di Steven Spielberg Incontri ravvicinati del terzo tipo, è la musica la lingua che ha deciso di utilizzare per comunicare con noi. Una musica che torna legittimamente a essere orchestrale, Dio mio che goduria ascoltare una Big Band a teatro, sulla quale appoggia ancora una volta il suo linguaggio forbito, istrionico, ironico, colto e pop al tempo stesso, in effetti una lingua incomprensibile per chi oggi si è abituato a utilizzare quella sorta di codice binario fatto di “fra” e “bro”, slang da analfabeti di ritorno che hanno in dotazione un vocabolario di quindici parole e cinque note, ma che a noi boomer arriva eccome. Del resto, pensateci, oggi che le canzoni si fanno in casa, con un computer fornito di app e plug-in, cosa c’è di più alieno di fare musica usando una Big Band la sezione fiati, Alberto Vianello al sax, Luca Iaboni alla tromba, Lorenzo De Luca al sax alto, vi rendete conto?, la ritmica con batteria, il mostruoso Alessandro Marzi, basso, Fabiola Torresi, le chitarre sapientemente usate dal nostro, il piano e le tastiere affidate a Paolo Vianelli, bassista e batterista a fare i cori, un dispendio di musica, ma anche di economie, direbbe uno di quelli che oggi siedono nelle stanze dei bottoni, ma fatela voi una canzone come Italiani Mambo con un talbet, fatela voi Citrosodina, detta anche Bimba se sapessi, Garibaldi innamorato, la già citata L’astronave che va, Sabato italiano, assente ingiustificata Non bevo più tequila (in realtà giustificata proprio dall’assetto della Big Band, non adatta a un brano decisamente più rockeggiante, per stavolta passi...). Un uomo di swing, Caputo, di jazz, e anche squisitamente di pop che ci ha regalato uno show stellare, appunto, Sun Ra, di quelli che hanno tirato giù un Teatro Lirico Giorgio Gaber giustamente pieno zeppo (tirato giù per la generosità con cui Sergio Caputo e la band si è speso, qualche canzone tirata fino a quasi dieci minuti tra assoli e improvvisazioni, le presentazioni, poi, spassosissime). Io ho conosciuto Sergio ai tempi della strepitosa collaborazione con Francesco Baccini, altro amico di vecchia data, come me genoano, The Swing Brothers il nome del progetto, Chewing Gum Blues il titolo dell’album, luogo del crimine Sanremo, che ovviamente si è ben guardato di ospitarli all’interno del Festival, per poi andarlo a incontrare con una certa cadenza nel tempo, l’ultima volta un paio di anni fa in un autogrill, entrambi diretti verso le Marche, incontro ovviamente casuale. In mezzo un evento, sempre nelle Marche, proprio incentrato sullo swing, in compagnia del mio pard Mattia Toccaceli e soprattutto che vedeva Sergio Caputo al fianco di Simona Molinari, che dello swing è stata (e chi è swing lo è per sempre, come i diamanti) la Nostra Signora. Era in occasione del Pif, che è il Premio Internazionale della Fisarmonica di Castelfidardo, che della fisarmonica è patria riconosciuta nel mondo. Su quel palco, di gente in teoria lì per ascoltare le fisarmoniche, ho potuto toccare con mano come le canzoni di Sergio, anche eseguite voce e chitarra, una orchestrina che poggia sulle note di una fisarmonica, appunto, a flirtare con lui, siano profondamente radicate nella gente. Tutti a cantare in coro quelle tante, tantissime parole, neanche le avessero imparate a scuola tra un A silvia, eravamo pur sempre dalle parti di Leopardi, Recanati si vede lì, da qualche parte, e un La pioggia nel pineto di D’Annunzio (omaggio questo all’abruzzese Simona Molinari, che per altro andrò a vedere a teatro giovedì, sempre a Milano, poi vi racconterò anche quello). Lo stesso è successo ieri, anche se stavolta era più prevedibile, il pubblico accorso per soffiare sulle 40 candeline più una di Un sabato italiano. L’ultimo singolo di Sergio Caputo, quando si dice la sintesi del copy, si intitola Sono uno spirito libero, anche questo ovviamente entrato in scaletta, ecco, io ci ho messo quasi millecinquecento parole per dire esattamente quello che lui ha sintetizzato in quattro. Libero come Sun Ra e la sua Arkestra, ripeto. Libero come solo gli artisti sanno essere. “Pronto, siamo il Club Tenco… scusi, ci è appena arrivata una foto su Whatsapp, ma come???”.