Se ne è andato anche Shock G dei Digital Underground. Nell’ultimo anno, sarà la pandemia, sarà l’isolamento cui la pandemia ci ha sottoposto, sembrano andarsene tutti, o quantomeno troppi.
Ci sono rimasto male, avendo iniziato a ascoltare rap negli anni Ottanta non posso che pensare ai loro lavori con un misto di meraviglia, che cose strepitose che hanno fatto in quegli anni, i primi Novanta, e malinconia, tipica di quando qualcosa che fa parte della nostra vita passata se ne va, in maniera definitiva. C’è poi la ulteriore meraviglia dell’apprendere che lui, Shock G, noto anche come Humpty Hump, avesse solo sei anni più di me, perché scoprire che i propri miti, specie i propri miti di gioventù, sono praticamente nostri coetanei ci spinge sempre a fare i conti in maniera spietata con noi stessi, e se ne esce sempre malino, per non dire malissimo.
Sex Packets, album d’esordio della crew californiana, una crew che mentre sulla costa ovest imperversava il gangsta rap, per intendersi, e sulla est il rap politicizzato dei Public Enemy e di KRS One, virava verso una sorta di festoso p-funk sulla falsa riga del gigantesco George Clinton nelle sue varie sfaccettature, dai Parlamient ai Funkadelic, musica leggera atta più a far muovere il culo che a aprire la mente, verrebbe da dire parafrasando il maestro. Di lui ci si ricorda, di loro ci si ricorda più che altro per l’aver scoperto e accolto nella crew in veste di ballerino Tupac Shakur, di lì a poco 2Pac per tutti, e per aver prodotto alcune tracce di 2Pocalipse Now dello stesso, ma nei fatti la folle inventiva della crew di Oakland è stata parte portante di un’epoca quantomai vivida, dove era possibile ascoltare gli A Tribe Called Quest come i De La Soul, i Cypress Hill come Nas, GURU e Premier coi loro Gangstarr come i Boo Yaa T.R.I.B.E., il Wu-Tang Clan come Snoop Dogg, davvero un periodo a alto tasso di talento e di fantasia, niente a che spartire con oggi.
Lo so, la sto tagliando giù con l’accetta, forse sto abbattendo una foresta addirittura col Napalm, ma non è del rap di questi tempi che voglio parlare, né nello specifico di Shock G e dei Digital Underground, quei nei panni della madaleine che scatena uno tsunami di ricordi, a volte neanche troppo reali, più rivisitazioni del nostro subconscio, perché in tutta onestà credo fossero almeno una ventina d’anni che non mettevo un album dei Digital Underground sul piatto, come ho fatto subito dopo aver appreso la notizia della sua morte, troppa la musica che ci piove addosso ogni santo giorno, prima o poi dovrei decidermi a non ascoltarne più di nuova e a occuparmi solo dei classici.
Dicevo Shock G, detto anche Humpty Hump, al secolo Gregory Jackobs, i capelli afro, gli occhialoni spaziali con il naso finto, tipo quelli che in genere vengono associati ai baffi di Groucho Marx, solo che scuro di pelle o a righe zebrate, il fez alla Nation of Islam in testa, anche se a qualcuno potrebbe far venire in mente la Loggia del Leopardo di cui faceva parte Howard Cunningam, il padre di Ricky in Happy Days, Gregory Jackobs nato a New York il 25 agosto del 1963, presto trasferitosi a Oakland e morto in una anonima stanza d’albergo a Tampa, in Florida, come una qualsiasi rockstar.
Giorni fa ho visto una serie su Netflix. Niente di particolarmente rilevante, una serie post-apocalittica e adolescenziale, simpatica e movimentata, ma non particolarmente originale, a parte utilizzare, in alcuni frangenti, stilemi presi pari pari da altri generi, commedie, teen film, western. Nel quinto episodio, proprio nelle prime scene, che riprendono certi passaggi dei film di Robert Rodriguez o Quentin Tarantino, più il primo che il secondo, fatta eccezione per i due Kill Bill, quando vogliono fare il verso ai film di arti marziali, i fumetti che irrompono in scena a flirtare con gli umani, nel quinto episodio, a fare da voce narrante, in un incedere epico che scivola presto in pantomima e si chiude in una sorta di parodia decisamente ironica, c’è RZA, il producer proprio del Wu-Tang Clan, il quale sciorina, uno dopo l’altro, tutti i suoi tanti, tantissimi nomi d’arte, per dire io ricordo di averlo intervistato una ventina di anni fa, anche più, mentre era sotto le spoglie di Bobby Digital, uno dei suoi tanti alter ego. Per altro vedere lui, leader indiscusso di una delle più importanti crew di tutti i tempi in ambito rap, con un immaginario fortemente intriso di arti marziali, in nomen omen, è quantomai appropriato e coerente, in questo va detto che le serie tv americane sono sempre un passo avanti, ridisegnano in maniera perentoria il nostro modo di intendere la comunicazione e lo storytelling.
Ecco, nel vedere lì RZA, come fosse in una delle scene di Kill Bill, film al quale per altro il nostro ha lavorato, sua la colonna sonora, non so perché mi era venuto in mente proprio il mondo psichedelico e spaziale dei Digital Underground, qualcosa a metà strada tra il fumetto e il cyberpunk. Non che RZA e Shock G si assomigliassero, l’uno costantemente con l’aria da duro, l’altro monumento alla stupidera da college, anche nei vestiti.
Non è ovviamente di look che voglio parlare, anche se a vedere le copertine e le buste dei vinili, corrispettivi dei booklet dei cd che io, personalmente, ho iniziato a comprare solo quando di vinili non se ne vedevano più, notizia di pochi giorni fa che il vinile ha superato il cd, nelle vendite, peccato che nessuno specifichi di che cifre stiamo parlando, perché il sospetto è che siano numeri piuttosto esili, ma sto evidentemente andando fuori strada, a vedere le immagini sulle copertine, spesso disegni, ma anche foto, e sulle buste dei vinili viene quasi da commuoversi, quei cappellini da baseball portati con la visiera al contrario, quei vestiti che solo poi avremmo appreso si chiamavano baggy, tagli extralarge e oversize, le sneakers senza lacci, le felpe coi cappucci, tutto sa di rassicurante, tanto quanto allora suonava esotico, pensa te come erano diversi quei tempi, io per altro sempre coi capelli lunghi e la barba ero e sono, sempre vestito in jeans e t-shirt, gli anni passano ma non mi sposto di un millimetro, compagni.
Non è di look che voglio parlare, non mi sono mai interessato di questo aspetto, figuriamoci se comincio oggi, quanto piuttosto di immaginario, immaginario che riguarda ovviamente anche l’estetica, non potrebbe essere altrimenti.
Partendo proprio da Sex Packets, l’album d’esordio dei Digital Underground, anno del Signore 1990, le vicende narrate nei brani muovono i passi da una bizzarra droga creata dal più classico degli scienziati pazzi, droga col medesimo nome dell’album, capace di indurre orgasmi e di indurre chi ne faceva utilizzo a vivere esperienze simili al sesso, roba a base di allucinazioni porno. Capirete bene che si parla di paradossi, storie degne del John Belushi di Animal House, con una forte matrice ridanciana e ironica, niente CNN del Ghetto, da queste parti, né storie crude di violenza di strada.
Per veicolare queste canzoni, questa musica decisamente in linea con l’andamento della vecchia scuola, infatti, Shock G e soci hanno creato un mondo, fatto di personaggi, ambientazioni, trame, look, storie, e hanno fatto il tutto attraverso la musica, le canzoni, al tempo stesso colonna sonora di un mondo visionario e anche esternazione narrativa di quel medesimo mondo. Pensateci, roba quasi rivoluzionaria se pensiamo a quello che oggi il rap ci propina, per altro non solo in Italia, pensiamo alla trap, a quel mix di capitalismo e sessismo intriso di droghe sintetiche, ma assolutamente reali, le fighe, il cash, i fra.
Era successo inizialmente con Sun Ra e la sua Arkestra, che aveva portato nel jazz le sue visioni spaziali, e era poi esploso con il p-funk di George Clinton e il suo socio Bootsy Collins. Astronavi aliene dove ci si divertiva parecchio, o dove si cercava un mondo un po’ diverso dal nostro, senza le discriminazioni, il razzismo, volendo anche senza il capitalismo.
Il rap, del resto, almeno quello della vecchia scuola, ha creato immaginari, forse l’ultima estetica capace di uscire da un luogo fisico, inizialmente il ghetto, ma più in generale le comunità periferiche afroamericane, per arrivare in ogni angolo del mondo, divenendo il look a sua volta un linguaggio internazionale, un segno di appartenenza, un codice comprensibile a ogni latitudine, segno di riconoscimento a prima vista.
Anche queste ultime mie parole andrebbero lette con giusto un filo di malinconia.
Una malinconia tutta di testa, più che di cuore, per dirla con Lou X, mio coetaneo e quasi mio conterraneo, lui abruzzese e io marchigiano, “tu non sei un b-boy come noi, qualcuno dice”, o per dirla con l’altro quasi mio conterraneo e coetaneo Frankie Hi NRG, lui umbro di Città di Castello, “comunico l’idea, la rima il ritmo sposa io sono un homeboy e faccio la mia cosa nella casa”, mai stato parte della scena hip-hop, io, osservatore attento e vicino, ma a mia volta escluso da chi amava un genere nato dalla voglia di riscatto dovuta al non essere inclusi, pensa che triplo salto mortale.
Una malinconia di testa che più che muovere i passi da qualcosa di reale nasce e cammina a partire da quel che sarebbe potuto essere e mai è stato, una potenza che atto non è saputa diventare, forse per incapacità degli attori, più probabilmente perché gli attori stessi non ne hanno colto l’essenza fondamentale.
Da noi, lo dico sapendo di andare a rimestare con una canna aguzza in un pozzo pieno di merda, il rap è stato più che altro simulazione, mimesi. Si sono prese delle istanze, dei canoni anche piuttosto tagliati con l’accetta, e si è deciso che replicarli tali e quali, con tutte le differenze che il talento e il giocare uno sport che si è contribuito a inventare comporta, non scherziamo, era più che sufficiente.
Così da una parte si è presa la parte del messaggio, dall’altra l’aspetto stiloso e competitivo, poi, negli anni, si è seguito il flusso, con le varianti che anche da noi hanno visto prosperare, dal gantasta rap in salsa meneghina e romana, penso ai Clud Dogo o ai Truce Klan, passando per il bling blig, la trap e via discorrendo. Anche il rap al femminile, a dirla tutta, le Chadia Rodriguez e anche le Miss Keta, sono figlie delle Nicki Minaj, delle Iggy Azalea, delle Cardi B, tutto è copia priva di anima, come quei villaggi fatti solo di facciate in cartongesso utilizzate per girare i film western.
Unica eccezione, a braccio, volendo lasciare fuori Piotta, da tempo dedito a un crossover con la canzone d’autore, e Rancore, uno con un vocabolario talmente ampio che meriterebbe un posto nei nostri manuali di Letteratura, Caparezza, uno che oltre che sulle parole, le citazioni, i riferimenti alti e bassi, lui figlio del post-medernismo fischeriano, e non a caso sempre più pessimista nel suo tratteggiare la contemporaneità, gli album che diventano romanzi, ma non romanzi di quelli lineari, una trama con qualche personaggio, un protagonista e un lieto fine, no, di quelli che creano mondi anomali e bislacchi, roba da Enki Bilal, da Neal Stephenson, da Jeff Noon, solo uno anomalo e bislacco potrebbe imbastire un singolo che gioca su un confronto a distanza tra Beethoven e Mark Hollis dei Talk Talk, questo il tema affrontato in La scelta, secondo singolo che anticipa Exuvia, in uscita il 7 maggio.
Certo, Caparezza non è esattamente uno definibile come un festaiolo superficiale, così è stata a lungo bollata l’ironica leggerezza di Shock G e dei suoi Digital Underground, ma sicuramente la capacità di inventarsi mondi è la medesima, con in più una buona dose di kendriklamarismo, consapevolezza e ironia, il naso appeso agli occhiali spaziali indossato sopra una maglietta con su una frase di Ennio Flaiano.