Siamo stati a Musicultura, o MusiCOLTURA, come l'ha definito Vinicio Capossela, un festival di musica dedicato alla canzone d'autore e ai giovani, giovanissimi talenti. Musicoltura perché la musica si coltiva. Si sedimenta. Nella prima serata, allo Sferisterio di Macerata, si sono sfidati otto giovani concorrenti: Alessandra Nazzaro di Napoli; Elena Mil di Monza; Frammenti di Treviso; Ibisco di Bologna; Me July di Benevento; Moonari di Roma; Abat-jour di Rieti e Silvia Lovicario di Nuoro. Tra gli stili, si sente un po' Cosmo, l'emozione di vincere, il talento al servizio della musica, il ritorno al cantautorato e gli strumenti. Quelle care cose, gli oggetti su cui un tempo si formava davvero la poesia. Che sia un abat-jour, il violoncello, il pianoforte. Tutto c'è, tutto è suonato, esiste. E li abbiamo sentiti forte, i loro nomi tra le colonne dello Sferisterio, tra gli sguardi di tanti, forse troppi adulti. Lo strumento, la voce. Tutto questo é Musicultura. L'intento di far rivivere un suono come lo avevamo sempre imparato a conoscere, un invito a preservarlo forse, ma anche a ripensarlo (come ci ha dimostrato praticamente ogni finalista in gara). Un suono di ieri che è realmente futuro, è domani. Il potere devastante che è il linguaggio dell'arte, specie oggi, in cui - non ci stancheremo mai di dirlo - il mondo e la paura, l'ansia ci divora e ci porta lontano. In quelle stesse terre dove forse, noi, cerchiamo di non mettere la testa, tra le macerie e le angosce. Di noi, degli altri. Macerie in cui può arrivare comunque un vento d'estate, come cantava Guccini. E per una notte, ospiti di Manifattura Paoloni, azienda italiana specializzata nella produzione di abiti da uomo, tra i principali sostenitori della rassegna, abbiamo sentito quella voce. Abbiamo capito che quel vento d'estate di cui parlava Guccini alla fine sono loro, sono i ragazzi.
Durante la serata ci sono state delle parole che ci hanno colpito, tanto. Le abbiamo selezionate e portate a casa. Oltre a Capossela e al ricordo delle staffette partigiane, oltre all'inno d'amore e di poesia di Cocciante, ricordiamo quando Tricarico ha detto: “Io ho sempre paura ed è bello trasformarla, spero che loro ce l'abbiano. A volte sembra che i giovani abbiano una scorza”. E il pubblico ad applaudire. Tutti non giovani, però. Questo, forse, il solo e unico grande dispiacere. Perché sarebbe stato bello mostrarle, quelle stesse parole, a chi ha vent'anni e non è su un palco, ma è seduto vicino a sua madre o stringe la mano alla propria ragazza, e parla degli esami all'università. Frasi anzi manifesti di un maestro come Tricarico in un'iniziativa energica, dinamica, ma soprattutto di vera qualità, condotta benissimo dagli ottimi Fabrizio Biggio e Carolina Di Domenico. Un festival, questo, fatto di talenti come non se ne sentono da tempo, più stili, più culture, più voci, tra quegli otto ragazzi che neppure, forse, svariati concorrenti del Festival di Sanremo riuscirebbero ad eguagliare in quanto a cura e talento. Sul palco, tra gli artisti, c'era la voglia di abbandonarsi alla musica, con una potenza e una sicurezza come non si vedeva da tempo. E proprio questa voglia di fare, di vivere i propri desideri, la musica, non come mete lontane ma obiettivi concreti, la dovevano vedere i giovani seduti tra la folla, per imparare ad avere paura, quella bella, trasformarla e andare avanti.
