C’è chi pontifica sul pop come se fosse una scienza esatta, con l’aria da professorino di chi sa già tutto. C’è chi lo analizza con la pinzetta, smontandolo brano per brano, outfit per outfit, scenografia per scenografia, come fosse una sorta di bugiardino da interpretare. Poi ci sono i puristi del genere, i critici della prima ora, convinti che i suoi canoni siano sacri e – proprio per questo – intoccabili. Per fortuna, c’è anche chi il pop lo fa esplodere tra le mani. In senso positivo, precisiamolo. E Myss Keta, da anni, lo fa come nessun’altra: spostando l’asse, trasformandolo in qualcosa che non può essere spiegato a parole, ma che deve necessariamente essere vissuto – possibilmente indossando un paio di occhialoni da sole e ballando senza freni inibitori, con la cassa dritta nelle orecchie e le luci stroboscopiche sparate dritte in faccia.
Ieri sera, all’Alcatraz – uno dei veri luoghi iconici di Milano, per la sua storia e per il calibro degli artisti che ne hanno calcato il palco – non è andato in scena un semplice live, ma una messa laica, delirante e lucidissima al contempo, per celebrare l’unica data milanese del TOUR. 2025. Myss è tornata a casa, ma senza voltarsi indietro. Ha semplicemente alzato l’asticella, all’insegna del clubbing apocalittico, mescolando beat che scavano nello stomaco, uno stile che è diventato un vero e proprio linguaggio, e un pubblico che non ha assistito passivamente: ha partecipato attivamente a ogni brano della Ragazza di Porta Venezia.


È in questo preciso momento che mi rendo conto di come, sotto sotto, non si stia seguendo una scaletta: vedere Myss Keta significa prendere parte a un rito glitterato, collettivo, sudato. Dopotutto, uno dei templi del circuito live milanese si è riempito presto di fashionisti, fanatici del clubbing pre-pandemia, e ragazzi e ragazze alla loro prima esperienza con la Myss. Keta arriva puntuale e non delude le aspettative, aprendo il concerto con un solenne Habemus Papam, pronunciato con uno spiccatissimo accento milanese. Il live parte come un manifesto d’identità: It Girl. La Myss entra in scena come una creatura fuori dal tempo, con i synth a spalancare un mondo parallelo dove l’eccesso diventa la norma e lo stile, una forma di potere.
Non c’è tempo per respirare, né per prendersi una vera pausa: è tutto scandito dal ritmo sincopato delle tracce del nuovo progetto discografico, . (punto), uscito lo scorso febbraio. Les Misérables e Botox sono già cult da club, ma dal vivo assumono un tono quasi cinematografico. Su #Fighecomeilpanico e Le faremo sapere, invece, l’ironia si fa politica. Con Divorziata e Piena si balla senza pietà, ma è sugli evergreen che Myss Keta dà il meglio di sé: Una donna che contaè un momento di esaltazione femminista, seguita da Le ragazze di Porta Venezia – un altro pilastro della sua discografia, al pari di Milano sushi & coca e Finimondo. Da lì in poi è una discesa libera: Sinner omaggia il numero uno del tennis mondiale (chissà se la sentiremo anche a Roma, sugli spalti del Centrale durante gli Internazionali d’Italia), mentre Vendetta è uno dei brani indubbiamente più più potenti dell’ultimo album.
In quell’atto del concerto, la nostra Vera Gemma ha accompagnato l’esibizione del pezzo senza sbavare di un centimetro, ma riuscendo a veicolare al meglio il suo messaggio di rinascita e ribellione. L'abbiamo incontrata, insieme a Myss Keta, nel backstage (e potete vedere qui sotto quanto, insieme, la cantante e l'attrice siano davvero pazzeske).


Ogni pezzo è stato sostanzialmente un colpo d’acceleratore. Basti pensare a Giovanna Hardcore, santa e peccatrice insieme; Guten Morgen, preludio al congedo; e 160BPM, che ha chiuso lo show alla velocità della luce. Nel cuore dello spettacolo risiede l’idea che Myss non sia più (solo) un personaggio, ma a tutti gli effetti un simbolo di libertà, queer culture e femminismo. I suoi brani parlano di corpi, potere, desiderio, tecnologia, sesso, politica e sorveglianza, usando quel linguaggio ibrido fatto di slogan, ritornelli, frasi da tatuarsi. La vera ciliegina sulla torta del concerto è senza dubbio la dimensione performativa, composta da molteplici elementi: sguardi, rivendicazione dello spazio scenico, corpi in costante movimento, come sospinti da una forza superiore. E mentre il resto del panorama pop si perde tra algoritmi, pose plastiche e noiosissimi revival usa-e-getta, Myss Keta sta una spanna sopra a tutti. Non cerca l’inclusività come strategia, la pratica come atto politico. Invita tutti a essere sé stessi, liberamente, soprattutto in tempi così bui.

