Dentro un comò che ho nello studio, studio del quale non ho più possesso da che mia moglie, prima causa Covid, poi di quella congiuntura astrale che ha fatto incrociare le innovazioni, il progresso, le politiche green e il Covid, mi ha spodestato, relegandomi a girovagare per casa in cerca di uno spazio nel mentre non occupato da uno degli altri abitanti della medesima, siamo sei, in genere, a volte sette, quando mia suocera passa del tempo con noi, come adesso, comunque, dentro un comò che ho nello studio c’è una valigia dove ho messo tutti i pass, i badge e gli accrediti che ho accumulato in oltre venticinque anni di onorata carriera come critico musicale al soldo di magazine e quotidiani. Quanti? Non li ho mai contati, ma sicuramente migliaia. Ce ne sono di particolarmente fighi, come quelli con le foto, personalizzati, dei vari Festival di Sanremo, proprio quest’anno fanno venti anni che ci vado, e altri più anonimi, neutrali. Da qualche tempo, ahi noi, da che cioè il green ha impatatto anche col mondo dei live, si tende a non stampare più i biglietti relativi alla stampa, che ci vengono inviati via mail e si possono esibire con il cellulare, e anche i pass stanno quasi scomparendo, sostituiti da quegli strani braccialetti che consistono in una stringa di una carta particolarmente resistente, sempre colorati, e alle cui estremità c’è una parte adesiva, che ci permette di regolarli sul nostro polso, così che non si perdano ma al tempo stesso non siano troppo stretti. Ne sto fissando uno da qualche minuto. È nero antracite, con la parte adesiva bianca, e su c’è scritto, in caratteri argento maiuscoli MIXOLOGY EXPERIENCE. In altro momento della mia vita la sola parola EXPERIENCE avrebbe sancito che mai e poi mai questo braccialetto sarebbe finito sul mio polso, perché, anconetano di nascita e di crescita, arrivato a Milano superate le ventotto annualità, ho sempre guardato a questi termini, tipicamente milanesi, con un misto di spregio e senso di superiorità, il medesimo che potrei esibire se, parlando con qualcuno che mi dice di essere un lettore forte, di fronte al mio esibizionismo da bibliofilo non può che tentare una resa senza spargimento di sangue. Sono però ventisette anni che vivo a Milano, l’anno prossimo, Dio volendo, saranno ventotto, esattamente quanti ne ho passati nella mia città natale, quindi ho un po’ meno tendenze radicali nei confronti di certi termini e soprattutto nei confronti di tutto ciò che sotto quei termini prende vita. Vada quindi la MIXOLOGY EXPERIENCE. Resta che sto fissando questo braccialetto nero antracite da qualche minuto, qualche minuto in più di quando ho già detto questa frase, qualche riga fa, e non saprei dire esattamente perché. Anzi no, non è vero, so esattamente perché lo sto fissando, perché, come ogni volta che me lo sono messo, oggi in realtà a mettermelo è stata una cortesissima ragazza alla reception del Superstudio Maxi, in via Moncucco, zona Famagosta, esattamente dalla parte opposta di Milano rispetto a dove vivo e rispetto, quindi, a dove sto fissando ora il braccialetto nero antracite con la scritta argentata MIXOLOGY EXPERIENCE e dove sto scrivendo di me che fisso da qualche minuto il braccialetto nero antracite con la frase argentata MIXOLOGY EXPERIENCE, ragazza che era vestito di nero, aveva i capelli neri e portava anche uno smalto nero alle unghie, quando si dice l’armocromia, ogni volta che ho addosso uno di questi braccialetti, dopo che questi braccialetti hanno svolto la loro funzioni di farmi accedere al luogo preposto, nello specifico, chiaramente, alla MIXOLOGY EXPERIENCE, e farmi girare liberamente per il medesimo luogo, una volta tornato a casa, a volte anche durante il viaggio di ritorno, mi capita di provare a togliermelo senza fare uso di forbici, col risultato che si tira, diventa praticamente di titanio, segnandomi il polso come se fossi qualcuno che ha provato a tagliarsi le vene, quindi non come Annalisa nel testo di Sinceramente (quando appunto dice che quando piange, anche se a volte si nasconde non si sogna di tagliarsi le vene) e neanche io me lo sogno, ma l’effetto ottico è quello, ho il polso segnato di rosso, e il braccialetto che non ci pensa neanche di togliersi, e mi sa che dovrò ricorrere alle forbici. E fortuna che sono ambidestro, in origine probabilmente un mancino trasformato in destrorso da una maestra poco avveduta, di piedi pure sono ambidestro, anche se ovviamente ho sempre giocato la carta del mancino, perché quasi tutti i grandi fuoriclasse, i dieci, erano mancini, comunque fortuna che sono ambidestro, perché se no col cazzo che riuscirei a tagliarmi il braccialetto, di titanio ormai, usando la mano sinistra, perché la gentile ragazza di nero vestito e pittata della receptiono me lo ha messo sul polso destro, maledetta.
Comunque, passiamo alla cronaca. Sono andato a MIXOLOGY EXPERIENCE, al Superstudio Maxi, in zona Famagosta, e ora sono tornato a casa. Sono andato a MIXOLOGY EXPERIENCE, al Superstudio Maxi, in zona Famagosta, e ora sono tornato a casa e sto provando a scrivere il reportage di questa mia EXPERIENCE. Solo che, questa è cronaca vera, non nel senso che è un omaggio all’omonimo settimanale, non intendo star qui a parlare di strani fatti quali la tipa che vedeva Padre Pio dentro le macchie di umidità sulla parete, quella che doveva fare sesso venti volte al giorno solo per non andare fuori di testa o un qualche fatto efferato di nera, più o meno veritiero, è cronaca vera nel senso che quel che sto per dire è tutto vero, documentato, solo che, dicevo, io non bevo. No, cazzo, me lo chiedono tutti quando lo dico, non sono astemio. Reggo l’alcool, che mi piace anche, specie alcune marche di Tequila, o certi tipi di birre rosse o scure, ma non bevo, per scelta. L’ho fatto, da giovane, e poi ho smesso. E da allora non bevo. Non è vero, l’ho fatto da giovane, poi ho smesso, poi ho ripreso, poi ho smesso in via quasi definitiva, e ora lo faccio solo in certe occasioni speciali. E MIXOLOGY EXPERIENCE non rientrava tra queste, almeno sulla carta, o meglio, nel boschetto della mia fantasia. Perché quando sono arrivato, di lunedì pomeriggio, verso le 14, a stomaco praticamente vuoto, ero distratto da altro, e non ho messo in conto che a un evento che si presenta come una “full immersion in world of liqueurs, spirits and drinking” è difficile tornare a casa con la gola asciutta. Errore mio, che mi ha visto, per altro, capitolare subito, perché so quando è il caso di tenere le proprie posizioni e quando no, e so anche che un reportage per essere un reportage figo deve prevedere che chi lo vive e poi lo racconta si metta in gioco davvero, altrimenti tanto vale stare a casa e lavorare solo di fantasia, fatto contemplato dal mio mestiere, mi è capitato in passato, quando scrivevo per magazine di viaggi, di fare reportage di luoghi nei quali non sono mai stato, uno scrittore è uno scrittore e io sono cresciuto col culto di Emilio Salgari, il narratore di Mompracem, isola che non solo non è mai esistita realmente, almeno con quel nome, in realtà era un isolotto di fronte a Labuan di nome Kuraman, ma in tutti i casi non sarebbe mai stata vista da Salgari stesso, che non ha mai lasciato l’Italia da vivo (lo hanno fatto i suoi libri, poi). Per altro io a Kuraman, come a Labuan e in tutti i luoghi di Sandokan ci sono stato, nel 2003, per un megareportage per GenteViaggi, figlio del mio aver scritto un racconto per una antologia celebrativa di Salgari dal titolo Mombracem, bellissima la copertina tigrata che Strade Blu presentava, un racconto che parlava di Kammamuri, collaboratore della Tigre della Malesia, nello specifico di un Kammamuri che sperava di riuscire a salvare la pellaccia standosene immerso fino ai capelli in un mare di letame, non ricordo esattamente la trama, ma solo il punto di partenza, un mese passato da solo nel Borneo, erano altri tempi, tempi in cui chi scriveva di viaggi poteva sì inventarsi reportage di posti che non aveva mai visitato, ne ho fatti e alcuni sono anche finiti in copertina del magazine, ero una delle firme più prestigiose della testata, per quel mio scrivere anche libri, ma poi ne scriveva altri andando anche per un mese in loco, tutto spesato e pagato lautamente per farlo.
Ora sono a MIXOLOGY EXPERIENCE, che scopro dal sito, dove per accedere bisogna autodichiarsi maggiorenni, vai a sapere perché, non ho visto scene di sesso o di violenza in circolazione, ora, dicevo, sono a MIXOLOGY EXPERIENCE, che scopro dal sito in realtà si dovrebbe scrivere MIxology Experience, la MI iniziale intesa come targa di Milano, immagino, un po’ come MiSex, che immagino avrà a sua volta un sito vietato ai minori, per ragioni che tendo a comprendere un po’ di più. E sì, è chiaro che nel dire “Ora sono a MIXOLOGY EXPERIENCE” e subito dopo far riferimento al sito è una sorta di metanarrazione sottintesa, cioè ci sono io che vi dico che sono in un luogo, dopo avervi detto che in realtà sono tornato a casa, e anche avervi fatto intendere che ho bevuto e che questo mio bere mi ha indotto a stare a lungo a fissare uno stupido braccialetto nero antracite, e l’io che vi dico che sono in un luogo è un io che sta chiaramente mistificando, perché sono a casa, in ciabatte e t-shirt, perché nel mentre è arrivata la primavera, finalmente. Niente di così grave, ho pure confessato di aver raccontato viaggi che non ho mai fatto, in passato, stavolta invece ci sono andato, a MIXOLOGY EXPERIENCE, e ho veramente bevuto, ora ci arrivo, fatto che però, a ben vedere, è parte integrante del mio reportage, anzi, innalza finalmente il mio reportage, che tecnicamente va iscritto d’ufficio ai gonzo reportage che hanno Hunter S. Thompson come padre fisiologico, Tom Wolfe come padre putativo, a un gonzo reportage fatto con tutti i crismi, il testo fondamentale dei gonzo reportage è infatti quel Paura e disgusto a Las Vegas, poi diventato Paura e delirio a Las Vegas, sia mai che qualcuno si mettesse paura per via di quel “disgusto” messo sul titolo, dove il nostro racconta di un gara automobilistica fatto abusando di qualsiasi tipo di droghe, naturali o sintetiche, qualche bicchierino di gin, aromatizzato al cioccolato li posso pur tollerare, suvvia.
Comunque, sono andato a MIXOLOGY EXPERIENCE, e ci sono andato nella giornata di lunedì, quando cioè erano presenti solo operatori del settore, dove immagino che per settore si debbano intendere persone che operano nel settore del beverage come barman, come ristoratori, e anche come giornalisti o critici del beverage (ignoro, lo confesso, come si chiamano quelli che di mestiere scrivono critiche di liquori e affini, ignoro addirittura se esistano in natura, e se non dovessero esistere, sia messo agli atti, e questa fosse una mia intuizione seminale, magari frutto proprio dei gin aromatizzati al cioccolato, accompagnati anche da praline al gin, va detto, chissenefrega, voglio la titolarità dell’idea, sarò il primo critico del beverage al mondo, ricordato negli anni come quello che ha avuto questa intuizione, una sorta di Lester Bangs del settore, e capite bene che proprio Lester Bangs, additato da molti come il critico musicale per antonomasia, la critica musicale è il settore nel quale ho deciso che la mia scrittura sarebbe circolato più a lungo e più spesso, era a sua volta un ubriacone e tossico, esattamente come Hunter S. Thompson, il primo morto a soli trentacinque anni per una overdose accidentale, il secondo morto suicida a sessantasette anni, a celebrare il suo funerale quel Johnny Depp che aveva portato il personaggio di Raoul Duke di Paura e disgusto a Las Vegas al cinema, per la regia di Terry Gilliam. Questa cosa che avete appena letto, en passant, come quella di me che sto per minuti e minuti a fissare un braccialetto nero antracite con su scritto in lettere argentate e maiuscole MIXOLOGY EXPERIENCE, sono due facce della medesima medaglia, me che evidentemente, per quanto me la racconti, reggo un po’ meno di quel che penso l’alcool, perché star lì a far vanto delle proprie conoscenze è tipico di chi è poco lucido, per questioni legate al gin aromatizzato al cioccolato o al proprio ego smodato, un po’ come quando, ricordo, per dimostrare che ero sobrio facevo vedere ai miei amici, che come me avevano bevuto, che sapevo recitare non so cosa a memoria, e io non ho memoria, o provavo a fare un qualche esercizio complicatissimo che, in effetti, poi non riuscivo a fare. Fermi tutti. Lo so, star qui a scherzare, sto scrivendo da oltre duemila parole, usando il mio solito stile, quindi frasi complesse, piene di relative, provateci voi, anche da sobri, se ci riuscite, è evidente che sto giocando col mio essere allegro, poco lucido, e questo mio fingere di essere allegro, poco lucido, nel raccontare di un mio pomeriggio, parte di pomeriggio, passato a MIXOLGOY EXPERIENCE, festival legato al beverage, è da una parte un voler portare a casa la pagnotta con poco sforzo, vai in un posto in cui si beve tanto, e gratis, e fingi di essere ubriaco, sticazzi, dall’altro un camminare su un sentiero tortuoso, a picco su un burrone, perché chi in quel settore lavora evidentemente ha questo spauracchio qui, degli effetti dell’alcool, da tenere a debita distanza.
La verità, come diceva qualcuno, e qui sono meno ferrato che sul terreno del gonzo journalism, sta nel mezzo, credo fosse un lanino, in medio stat veritas, sarà stato il solito Seneca (in realtà era la virtus che stava nel mezzo, ho controllato su Google, ma un gonzo reportage deve sempre dare l’impressione di essere stato scritto come in un flusso, in presa diretta, apparentata com’è alla beat generation, l’On the road di Jack Kerouac scritto su un rotolo di carta da telescrivente, senza correzioni o altro, quindi tenetevi pure lo sfrondone, ci sta tutto). Nel senso che è vero che a un certo punto, girovagando per gli stand, dove era possibile assaggiare liquori, cocktail e quant’altro, sono arrivato di fronte a un palco sul quale c’erano dei pasticceri che parlavano di loro invenzioni a base di cioccolato e gin, gin che ho scoperto oggi deve il suo nome all’essere stato fatto fermentare dentro botti di ginepro, o qualcosa del genere, non appena mi verrà riconosciuto il ruolo di primo critico del beverage al mondo giuro che mi metto a studiare bene il tutto, così mi sono ritrovato a bere bicchierini di gin aromatizzato a vari cioccolati, ho anche scoperto che esiste una parola francese che racchiude in sé il senso di fava di cacao essiccate e torrefatte, cranage o qualcosa del genere, e ho anche mangiato praline di cioccolato al gin, fatte da un ragazzo che ci ha raccontato, a me e agli altri presenti tra il pubblico, che è lì come terza generazione di cioccolatieri, e siccome suo nonno era uno che produceva il latte, mentre lui è uno che mischia cioccolato e gin, il loro gin è imbottigliato dentro bottiglie del latte, molto belle e vintage a vedersi. Comunque, sì, ho bevuto alle 14 e qualcosa, a stomaco praticamente vuoto, e ho provato quel senso di leggerezza che si prova quando certi pesi sembrano volatilizzati solo per aver bevuto qualcosa. Ero in metro, me lo sono potuto permettere responsabilmente. Poi ho passato del tempo, tanto, a fissare il braccialetto, che infine ho tagliato con un deciso gesto della mano sinistra, sono ambidestro, ricorderete, sono io quello che ha bevuto, mica voi, ma che non ho riposto nella valigia dove tengo i pass e i badge e gli accrediti, lì nel comò dello studio. E non perché mia moglie, che me lo ha portato via, lo studio, me lo abbia impedito, oggi è in ufficio, perché va bene lo smart working, ma con moderazione, solo perché lì ci tengo i pass, i badge e gli accrediti dei concerti, non degli eventi, e perché questi braccialettini, compreso questo nero antracite con su scritto in lettere argentate maiuscole MIXOLOGY EXPERIECE non li tengo da parte, ché sono tutti uguali. Oh, magari ho sbagliato, che a breve mi si riconoscerà di essere colui che si è inventato il ruolo di aver inventato la critica del beverage, e quel braccialetto era il ricordo della mia prima volta. Prima volta che è avvenuta al Superstudio Maxi, di via Moncucco, zona Famagosta, alla MIXOLOGY EXPERIENCE, giunta alla terza edizione. Perché sono stato alla MIXOLOGY EXPERIENCE, non so se ve lo aveva già detto, ma forse sì.