Ivano Fossati ha avuto a che fare con folle ben più imponenti durante la sua carriera, ma credo che il bagno d’affetto che la sua Genova gli ha tributato lo abbia profondamente toccato. Ieri, all’Università di Genova, ha ricevuto la laurea honoris causa in Letterature moderne e spettacolo. Un riconoscimento – per omaggiare il musicista e la sua storia, unica nel panorama italiano – che Raffaele Mellace, preside della Scuola di scienze umanistiche, ha “giustificato” attraverso una splendida laudatio. “Fossati è un costruttore di giocattoli meccanici, un artigiano. Un maniaco dei dettagli sonori, un ricercatore che frequenta i luoghi dove i musicisti fanno musica e si incontrano”. Ne è emerso un artista che ha vissuto in una dimensione rara, sospesa, in perfetto equilibrio nonostante un fluire continuo di suggestioni e influenze difficilmente “ordinabili”: il blues, il jazz, il rock, la musica orchestrale, e poi ancora Randy Newman, il reggae, il Brasile, la musica per il cinema, l’amore per la melodia da una parte e quello per un verso spiccatamente letterario, persino dotto, dall’altra. “Fossati – ha osservato Mellace – si è smarcato dal rock americano, considerato una scorciatoia per arrivare al grande pubblico”. Smarcamento, termine che è tornato più volte all’interno della laudatio. Uno smarcamento che, tuttavia, non ha impedito a Fossati di carezzare il cuore e le emozioni della gente comune. Eppure oggi non omologarsi, ignorare il trend, per la Generazione Z pare un autentico azzardo, quasi un nonsense. Guai a rischiare di vedere le cose sotto una prospettiva già non ampiamente condivisa, guai a rischiare di perdere, tutte in una volta, fette pesanti di “consenso”. Fossati di tutto questo se ne è bellamente fregato. Ha scritto soprattutto “musica con gli occhi”. Osservando cosa accadeva fuori da sé e, per questo, “finendo per comprendere e comprenderci”.
A Fossati, a questo punto, l’onore di un’attesa lectio magistralis. “Ispirazione, pensiero e sintesi nella musica discografica”, questo il titolo dell’appassionato excursus. Noi, a sentir parlare di “musica discografica”, abbiamo fatto subito un sobbalzo. Anche perché a ragionare, ex cathedra, c’era mica un filosofo immusonito e stanco, fiaccato dal perfido abbraccio del tempo e della tecnologia. Abbiamo trovato, piuttosto, il solito profondo Fossati. Quello che sotto una coltre di cultura abilmente citata e centellinata nascondeva una vena battagliera, quasi sfidante. A suo modo, gentilmente, Fossati ha sfidato i pigri, gli apocalittici, quelli che si rifiutano di unire i puntini. Una sfida sottile, senza equivoci, che conteneva un messaggio netto: andrebbe un po’ rivista l’idea secondo cui il mondo della musica sia popolato da gretti discografici-Mefistofele che propongono indecenti patti all’artista-Faust. Il primo patto con l’industria arriva da lontano, risale agli anni ’30, quando le canzoni (figlie delle arie) diffuse dalla radio venivano tagliate, compresse. Un accordo – ha raccontato Fossati – che suonava grosso modo così: “Sacrificio e asservimento dell’ispirazione in cambio di notorietà e, possibilmente, ricchezza”.
“Se questa meraviglia – la canzone, quella sintesi che può comunicare, unire ed emozionare, nda – è il risultato del patto fra gli artisti e l’industria discografica e se, come si dice, in questo patto faustiano c’è lo zampino del diavolo, allora non sono certo che l’industria sia il diavolo. Sarebbe un diavolo perdente. L’ispirazione è ancora lassù, al suo posto, fulgida, pronta a tutto, come sempre; pronta per nuove generazioni di artisti visionari, mentre l’industria, devo riconoscerlo, ha conosciuto tempi migliori. Per questo ho il sospetto che in quel vecchio patto la parte del diavolo astuto l’abbiano fatta, in realtà e di certo inconsapevolmente, gli autori e gli artisti. Proprio tutti, i grandi e i dimenticati. Ho il sospetto che in quel lontano giorno, forse, il diavolo eravamo noi”. Un finale da ovazione, al quale Fossati è arrivato affrontando un viaggio dentro la grande epopea della musica commercializzata, indagandone il potere, l’aurea capacità di assorbire, inglobare e quindi sintetizzare. “Un quinto dei brani dei Beatles erano impiantati su giri blues […] La black music ha vinto quasi su tutto, ha arricchito, impreziosito, snellito le nostre modalità espressive”. Con Fossati che poi cita Marinetti (“Ascoltando il rap forse si sentirebbe finalmente appagato, chi può escluderlo”), Welsh e Simenon, ispiratore di molte sue idee circa la sintesi: “In tre minuti e mezzo di canzone bisogna soprattutto togliere. Io scrivo, gli altri – il pubblico – costruiscono. Nemmeno Paul McCartney ha mai davvero saputo di cosa trattasse “Eleanor Rigby” eppure la gente l’ha apprezzata per decenni. Ognuno, su quel brano, ha costruito il proprio video, senza dubbio migliore, fosse mai esistito, del video ufficiale”.
“Musica alta, leggera, leggerissima. Io ho amore per tutta la musica”, ha dichiarato, quasi commosso, Fossati. Autore di una lezione da cui l’autoreferenziale Generazione Z – peraltro mai attaccata dal cantautore – potrebbe trarre qualche precetto: uscire da sé, rinunciare alla cronaca – quotidiana, minuziosa e sempre filmata – di ogni gesto del vivere, tornare al mistero, al non immediatamente rivelato, a qualcosa che possa generare una curiosità, persino una strana, sghemba, forma di appassionata devozione. Di certo, alla Gen Z, ciò che non manca è la capacità di riuscire a ipotizzare nuove sintesi. Per questo, in fondo, piace anche a un autore che ha scritto e composto in tutt’altri modi e forme. “Siamo assediati dalla sovraproduzione di musica o da qualcosa che possa somigliarle. È anche troppo”, ha affermato in apertura. Nuove incalzanti ispirazioni, nuove canzoni: tutto questo non manca. Ma per tornare a creare (e ascoltare) in modo più libero forse serve andare per sottrazione.