Chissà se Umberto Galimberti la sera, arrivato a casa, si sbottoni la camicia, si tolga la cravatta, e inizi a massaggiarsi le tempie nella speranza di ammorbidire la fronte dal broncio costante che indossa durante ogni apparizione pubblica. A margine di una presentazione milanese di domenica 26 marzo, Galimberti torna a parlare di giovani e futuro, ovviamente per Il Corriere della Sera, in grado di intercettare e rendere una notizia anche ciò che notizia non lo è più da – quanto? – trent’anni. In effetti Galimberti è l’eterno ritorno di se stesso. Nessun problema il fatto di autocitarsi o nell’autoplagio. Non è un problema, per quanto mi riguarda, ciò di cui alcuni lo accusano, chiudere libri pieni di citazioni mozzate delle loro, legittime, virgolette. Che un pensatore contemporaneo eviri i grandi (che so, Nietzsche, Heidegger, Platone) non è cosa nuova. Ebbe già a dirne Gianni Vattimo in un’occasione, con il suo solito atteggiamento provocatorio, che permise sempre al Corriere di titolare così un’intervista: “Che torto ha Galimberti? Filosofare è copiare”. Il problema, semmai, è essere noi stessi immagine evirata. Non tanto immagine evirata di sé (questo è il destino ineludibile di chiunque invecchi; e ha i suoi pro), ma dei grandi da cui si vorrebbe rubare. Ovvero: rischiare di essere poco più che una macchietta, inerte e lamentosa sul ciglio di un’epoca che non si sa più raccontare.
Galimberti, purtroppo, è tutto questo. Borbotta la solita minestra grazie alla quale riceve l’attenzione delle tante Paola Mastrocola non abbastanza lucide e intelligenti quanto Paola Mastrocola. Un po’ di Nietzsche qua, un po’ di Heidegger di là. Salvo poi non cogliere l’occasione, determinante, di addentrarsi nel tunnel di macerie che altri hanno descritto, prima, per lui, sperando di cavarne fuori qualcosa di nuovo e finalmente originale. Che è quello che ha fatto, tra l’altro, lo stesso Vattimo. Andare fino in fondo al nichilismo per capire come cambiare. Non denunciare la perdita di valori in nome di nuovi valori. Né – atteggiamento speculare e coesistente nel pensiero di Galimberti – dire che siamo destinati alla decadenza, già avviata, e ormai irrimediabile. Non trattare la perdita di valori come una tragedia, ma come un’occasione. Cosa chiedono i ragazzi? Certo non chiedono quella forma di paternalismo che Galimberti va predicando: non vogliono che gli adulti credano in loro. Semmai, vogliono fare senza rimanere impigliati nelle maglie polverose della mentalità dei “padri”. Non è una forma di nichilismo catastrofistico, quasi edonistico, di quelli che a uno gli verrebbe da dire: “Ma guarda tu che sbandati”. Al contrario, i ragazzi oggi vorrebbero essere liberi di “riparare” l’ambiente, il mondo del lavoro, coltivare il tempo libero, smussare il potere dalle punte che penetrano nei gruppi sociali stigmatizzati. Insomma, vogliono, al di là di qualsiasi grande narrazione (comunismo, capitalismo, nazismo, tradizionalismo e così via) cambiare orizzonte. Emanciparsi.
Che poi significa cambiare Galimberti. Sostituirlo con un pensatore meno intransigente, più gaio, che sappia non tanto sostenerli, quanto mettersi alla coda di un lunghissimo corteo, sperando di poter imparare qualcosa da quei ragazzi che non necessitano dell’approvazione di nessuno. Sì, perché i ragazzi non sono fragili, non sono disorientati, non sono peggio di com’erano loro (i grandi) un tempo. Galimberti scrive: “Una volta, quando c’era la tradizione, si sapeva come si faceva una famiglia e questa stava in piedi. Una volta, c’era la povertà e con la povertà anche la virtù, che non è mai figlia di una scelta, è figlia di una necessità. Se si è poveri bisogna essere morigerati. Adesso però è subentrata questa cosa. Loro cominciano a prendere il digitale, a giocherellare intorno ai 6-7 anni e cosa succede? Che tu perdi un’infinità di capacità. Primo, non sai più scrivere. Una volta si faceva quella che si chiama una “bella scrittura”, cosa molto importante”. Quando c’era la tradizione… quando c’era la tradizione le cose non andavano granché meglio. Mia nonna scriveva “A” tremolanti che sembravano “D” e difficilmente riusciva a chiudere una frase senza fare errori. Mio nonno uguale. Conosco genitori che non potrebbero insegnare ai figli come scrivere il proprio nome, nonostante la tradizione che li ha investiti. Certo, bisogna mettersi d’accordo sui parametri. Un libro abbastanza recente si intitola Factfulness. Lo ha scritto Hans Rosling (con qualche mano supplementare). Il sottotitolo è esplicativo: Dieci ragioni per cui non capiamo il mondo. E perché le cose vanno meglio di come pensiamo (Rizzoli, 2018). Galimberti incarna quelli che sono i difetti di chi il mondo, davvero, non lo sa interpretare. Mancanza di curiosità e mancanza di stupore.
Che poi, a ben guardare, sono un segreto di Pulcinella, perché è almeno da Aristotele che il legame tra conoscenza e stupore (prima, curiosità poi) è appurato. Il Nostro sembra incapace di stupirsi. Nulla è inaspettato, nulla lo sorprende. Come Cacciari, d’altronde, la cui facilissima capacità di irritarsi è direttamente proporzionale alla scarsissima predisposizione ad ascoltare. Il ché va di pari passo con l’idea che sia impossibile, per gente come loro, ammettere di non sapere qualcosa. La sensazione, inoltre, è che ci si convinca di sapere qualcosa su un tema solo perché se n’è parlato molte volte. Un po’ come pretendere di essere Harold Bloom perché si è stati a due, tre club del libro. Galimberti non approfondisce, corrobora. Anzi, no. Logora. Logora se stesso e chi lo ascolta, a forza di ripetere a favore di telecamere ai tanti bambi in ascolto che il mondo non si salverà. Che, a lungo andare, dovrebbe aver senso (almeno per un non credente). Magari fra qualche miliardo di anni verremo inglobati dal Sole, schiacciati dalla gravità. Per ora, invece, l’unica pressione reale sul pianeta Italia è il pesantissimo tafanare di chi, barba incolta e volto cupo, pontifica su tutto (o quasi) e soprattutto sul futuro, con scarso, scarsissimo, zoom nella propria visione.